Di Claudio Vitagliano per ComeDonChisciotte.org
Se un indizio resta un indizio, molti segnali invece, costituiscono quasi sempre una prova certa.
Le prove a cui alludiamo, sono inerenti ad una edificazione dell’attuale mercato dell’arte contemporanea, che nel suo realizzarsi non ha seguito uno sviluppo darwiniano, ma che è stato piuttosto il risultato di eventi e situazioni che si sono verificati in ambiti lontani dal mondo dell’arte, ma vicine all’ideologia e all’economia.
Poniamoci a titolo introduttivo qualche domanda.
Ad esempio: se non fosse stato per una serie di vicende (che andremo a precisare) verificatesi nel corso della storia dagli anni 50 in poi, ci troveremmo un mercato dell’arte con le stesse caratteristiche mercantiliste di quelle attuali?
ll sistema dell’arte con cui conviviamo oggi, sarebbe comunque caratterizzato da una evidente forma di apartheid verso tutto ciò che non collima con i canoni del modernismo occidentale?
Ma soprattutto, quelle che sono le preferenze, gli orientamenti culturali ed il gusto dell’intero occidente, sarebbero quelli che conosciamo?
In effetti, anche senza andare subito a fondo, non possiamo non rilevare delle anomalie macroscopiche, ma che in forza dell’abitudine e della reiterazione a manifestarsi sotto i nostri occhi, per la maggior parte delle persone restano sfumate e lontane dalla piena percezione.
Andiamo per gradi e vediamo quali sono le incongruenze e le vicende a cui abbiamo accennato.
Nel 1955 si inaugura la prima rassegna di Documenta a Kassel in Germania, per mezzo dei due cofondatori: Werner Haftmann e Arnold Bode.
Haftmann, fu un sostenitore del regime nazista prima e durante la seconda guerra mondiale, militando nelle SA. Egli partecipò ai rastrellamenti dei partigiani italiani in alta Italia e fu presente alle loro torture. Fin qui, nulla di straordinariamente fuori dalla norma, in fondo, la storia è piena di uomini che hanno celato il loro passato criminale approdando magari ad un sincero ravvedimento e pentimento.
Ma nel caso di Haftmann, il fatto inspiegabile secondo la logica corrente, è che egli divenne il più strenuo promotore dell’arte contemporanea e d’avanguardia, che era notoriamente invisa al regime nazista (che credeva ad un’arte classicheggiante con rimandi ad un romanticismo realista) di cui anni prima aveva fatto parte e che la bollava come degenerata. Non volendo noi credere che egli fosse stato un nazista modello che coltivava però un’intima e segreta passione per l’arte delle avanguardie, contraddicendo cosi di fatto l’ideologia di cui era convinto servitore, siamo piuttosto scettici sulla sincerità della sua conversione.
Potremmo addirittura affermare che egli a posteriori, nella gestione di Documenta divenne più realista del Re, sbarrando le porte della esposizione ad ogni forma d’arte che si richiamasse al realismo, e quindi di riflesso a gran parte degli artisti russi.
La sua fu una inversione ad U, e un’ operazione di acrobazia intellettuale che ci lascia molto sospettosi sulle motivazioni della stessa.
Potremmo avanzare delle ipotesi, specialmente alla luce di quel che oggi è di dominio pubblico: ovvero l’intervento diretto dei servizi segreti americani, dal dopoguerra in poi, nel promuovere l’arte occidentale, e in special modo quella statunitense, cosa documentata nel libro di Frances Stonor Saunders “La guerra fredda culturale. La Cia e il mondo delle lettere e delle arti”.
Per cui ci sorge spontanea una domanda: e se Haftmann fosse stato finanziato dalla Cia, come lo furono enti, artisti, riviste e altro dai servizi segreti americani?
D’altronde è ampiamente dimostrato, che gli stessi servizi, intorno agli anni 50, reclutarono criminali nazisti da utilizzare nella Guerra Fredda. Se due più due fa sempre quattro, possiamo quindi azzardare a pensare che, come la Cia diede via ad azioni inconfessabili per affermare la supremazia dell’Occidente, avesse anche salvato Haftmann da processi e incriminazioni. In ogni modo, egli, come richiesto dal nuovo ruolo, si riciclò: da fustigatore dell’arte degenerata a strenuo difensore della stessa per conto terzi.
Come ripetiamo, questa che abbiamo esposto è una mera supposizione, ma certamente non campata in aria.
Se anche il mercato dell’arte contemporanea, come è ampiamente accertato, risponde alle logiche della compravendita come per qualsiasi altra merce, allora possiamo stabilire che tali merci si possono commercializzare solo a patto che gli si dia visibilità mettendole in vetrina.
In base a questo assunto, ci pare quindi di poter dire che l’influenza di Documenta e delle altre esposizioni ed eventi che hanno fatto di alcune correnti artistiche moderniste il core business degli ultimi decenni, abbiano pesantemente condizionato il mercato dell’arte contemporanea.
I fatti storici che hanno permesso al suddetto mercato di svilupparsi con i crismi del capitalismo finanziario e, infine, deteriorarsi come abbiamo già accennato, sono incontestabilmente i figli illegittimi del neocolonialismo americano.
Tale mercato è un seme germogliato nel tempo, dell’esigenza ravvisata da parte dei centri di potere USA subito dopo la guerra, di fermare l’avanzata del comunismo nell’Europa e nel resto del mondo. L’arma messa in campo per limitare la fascinazione delle dottrine di sinistra che allora subiva la quasi totalità del ceto intellettuale d’Europa, fù appunto, la propaganda tentacolare organizzata dalla CIA
Se nel caso di Haftmann abbiamo formulato delle semplici ipotesi, per quel che concerne l’intervento occulto dei servizi segreti americani subito dopo la guerra, i fatti sono ormai storia del secolo scorso. Essi operarono in tutto il mondo, finanziando con le proprie risorse ma ricorrendo però a prestanomi come ad esempio Nelson Rockefeller, mostre, riviste, fondazioni enti, ecc…
Tra l’altro, il MOMA di New York la cui nascita fu dovuta proprio alla famiglia Rockefeller e che per anni vide i suoi membri sedere nei vari consigli di amministrazione, divenne da subito un baluardo del modernismo più radicale, ed ebbe allora come oggi un’influenza enorme sul mondo della cultura occidentale.
Mentre, uno dei primi enti creati in Europa fu il Congresso per la libertà della cultura, una lega anticomunista, guarda caso, nata a Berlino nel 1950 (quindi 5 anni prima dell’edizione di apertura di Documenta ), e che si espanse aprendo sedi in altri 35 paesi, sempre con il fine di diffondere i modi occidentali e contrastare il comunismo.
La differenza tra l’azione dei servizi segreti americani e il sovietico soviet supremo che a sua volta operava per rafforzare il regime controllando la produzione dei propri artisti, risiedeva nel fatto che la CIA si muoveva nell’ombra, ad insaputa addirittura di quegli stessi artisti che beneficiavano del suo intervento, mentre in Russia il partito imponeva canoni e regole alla luce del sole.
Uno dei risultati di questo lavorio dietro le quinte dei servizi segreti americani fu quello di consacrare Jackson Pollock come l’artista che più di chiunque altro incarnava il carattere americano, impregnato di vitalismo e individualismo; in pratica, un’icona vivente, un pò come fu per Stachanov anni prima in URSS.
Egli non fu l’unico ad aver beneficiato dell’aiuto della CIA, poiché anche gli altri rappresentanti della scuola di New York, ovvero gli artisti dell’espressionismo astratto, e quindi Mark Rothko, Willem De Kooning e Franz Kline ebbero più o meno una spinta segreta che li impose come i nuovi eroi dell’arte americana e mondiale. Per l’intellighenzia dei servizi segreti era fondamentale che avvenisse una totale identificazione tra il successo dell’espressionismo astratto e la American way of life. Tra l’altro, venne diffusa l’idea che l’arte dell’espressionismo astratto fosse un movimento del tutto autoctono, incubato e nato in America senza nessun legame di filiazione con le avanguardie europee.
Ma anche questo fatto è assolutamente opinabile visto che, in realtà, l’arte americana venne invece influenzata dagli artisti europei che prima della guerra per sfuggire ai regimi autoritari del vecchio continente, emigrarono in massa negli USA.
In effetti, l’attività didattica di personaggi come Josef Albers, Laszlo Moholy-Nagy al Black Mountain College, influenzarono enormemente artisti americani come Rauschenberg, Noland, Twombly e Judd, mentre a New York, Hans Hoffmann esercitò un’ascendenza determinante su Pollock, Rothko e Gorky.
La verità degli eventi, attesta che persino il vero scopritore di Jackson Pollock fosse europeo, e cioè Marcel Duchamp.
Fatto sta che la notorietà crescente per un artista, in un paese capitalista, a prescindere dallo specifico valore artistico espresso dalle opere da lui realizzate, finisce per tramutarsi specularmente in quotazioni perennemente in rialzo.
Il mercato lanciò allora i primi ruggiti che avrebbero portato i valori delle opere di artisti soprattutto americani non figurativi (a parte qualche eccezione di pittori coevi come Freud e Hockney) a raggiungere quotazioni incredibili, assolutamente illogiche persino per un libero mercato guidato dal fanatismo finanziario.
Comunque. l’evento che sancì definitivamente la consacrazione dell’arte americana e di New York, come fari dell’universo artistico mondiale fù la biennale di Venezia del 1964. Gli sforzi dei servizi segreti americani in quell’occasione furono moltiplicati e diedero come risultato l’affermazione di Robert Rauschenberg come miglior artista straniero. Ma la missione clandestina degli agenti segreti della CIA non era unicamente quella di rendere l’arte americana vincente e dargli quella visibilità che avrebbe fatto da canto delle sirene per gli intellettuali tentati dalle teorie marxiste, ma collateralmente, la loro opera era volta a diffamare quell’arte che rappresentava l’altra parte del mondo e in particolar modo quella sovietica. Infatti, a nulla valse che il realismo socialista in quegli anni potesse avvalersi di una novità denominata “stile severo”, che non aveva l’aspirazione di celebrare il regime comunista ma piuttosto l’ambizione di rappresentare la verità: i padiglioni dell’URSS nella trentaduesima biennale di Venezia vennero trascurati sia dalla stampa che dal pubblico.
In sintonia con i servizi segreti americani, operarono frotte di critici d’arte, tra i quali il più agguerrito fu Clement Greenberg, partigiano del modernismo più radicale, perennemente impegnato; da un canto ad avallare e beatificare i movimenti americani, con in testa naturalmente l’espressionismo astratto e dall’altro a seppellire nella melma del disprezzo la pittura realista.
Da quel momento in poi, gli USA furono la nuova mecca dell’arte internazionale, il luogo fisico e concettuale deputato all’investitura di qualsiasi movimento o artista che ambisse ad essere universalmente riconosciuto. Senza la benedizione impartita dal sistema dell’arte made in USA non si poteva sperare di entrare nelle classifiche di vendita, sia nazionali che internazionali.
L’Europa, Parigi in testa, venne definitivamente “dimenticata” e sostituita nell’immaginario collettivo dagli USA, che poterono finalmente esibirsi nell’agognato ruolo di paese guida dell’Occidente anche nel campo della cultura.
Come è facilmente intuibile, tutto ciò si riflesse anche nel mercato dell’arte contemporanea, che si adeguò ai nuovi tempi, ricorrendo all’utilizzo del marketing e prendendo come committente ideale il capitalismo finanziario.
Ed è stato proprio il marketing che ha stravolto il modus operandi della compravendita d’arte in uso fino agli anni 50/60, divenendo il fattore decisivo per stabilire chi e a quanto avrebbe venduto le proprie opere.
Se fino alle avanguardie di primo Novecento e anche dopo, gli operatori si mobilitavano nel momento in cui scorgevano nell’artista di turno lo scintillio del talento, con l’avvento della nuova prassi, si è potuto creare un artista/personaggio e lanciarlo sul mercato partendo dal nulla.
Questo avveniva, e avviene ancora, mettendo in campo energie e risorse economiche, ma soprattutto lavorando in concertazione e creando sinergia tra tutti gli operatori al fine di dare il massimo impulso possibile all’iniziativa di promozione. Tale modo di procedere, in definitiva, equivale in tutto e per tutto a ciò che che fa una qualsiasi impresa del terziario quando decide di tentare un investimento. A tale proposito vogliamo citare la storia di Thierry Guetta, assolutamente emblematica degli influssi che nel secolo scorso hanno ribaltato le regole del gioco.
Guetta, è un artista francese che vive a Los Angeles e che all’incontro avvenuto casualmente con Banksy di cui era un grande ammiratore alla fine degli anni 90, deve una immensa quanto inaspettata fortuna. All’epoca del loro incontro egli vendeva abbigliamento e aveva una grande passione per i video, nei quali immortalava quasi unicamente gli artisti di strada. Fu proprio uno di questi graffitari che un giorno lo chiamò e gli chiese se poteva indicare al suo idolo Banksy, appena arrivato in città, i luoghi più interessanti per realizzare graffiti. In breve Banksy e Guetta, che tra l’altro fu in seguito l’unico a conoscere la vera identità dello street artist, divennero amici. Anni dopo, trovandosi in ristrettezze economiche, Thierry Guetta chiamò il suo amico a Londra per chiedere un aiuto, cosa alla quale Banksy non si sottrasse, e infatti gli propose di provare anche lui con la street art, assicurandogli un appoggio incondizionato.
Questo appoggio si concretizzò in una recensione di due righe, che venne da Guetta utilizzata in un modo imprevedibile, poiché ne fece fare una gigantografia e l’appose all’ingresso dell’edificio dove si sarebbe tenuta la mostra.. .
Bastò questo, e cioè l’appoggio concesso da Banksy e reso subito pubblico, per scatenare intorno a Guetta la stampa, e renderlo artista, prima ancora che esponesse una sola opera.
il 18 giugno 2008 venne inaugurata la mostra di Mr Brainwuosh, lo pseudonimo scelto da Guetta per la sua nuova carriera d’artista. La mostra vide nella prima settimana, andare vendute opere per un milione di dollari. In pratica, Guetta, che fino a un mese prima non aveva mai preso in mano un pennello o una spatola, vinse alla lotteria. Della cosa, restò stupito persino il suo mentore britannico e tutto l’entourage che si era prodigato per il suo esordio. Infatti, questi ultimi, tra cui oltre Banksy e altri c’era anche Shepard Fairey alias OBEY ( il suo apporto fu importante nella campagna elettorale che portò Obama alla casa bianca) , non avrebbero mai potuto immaginare che le opere assolutamente insulse che l’ex venditore di magliette aveva realizzato in un solo mese, potessero essere prese così seriamente e vendute a cifre così alte. Lo avevano aiutato per spirito di solidarietà, ma prendere atto che diversamente da loro che si erano fatti strada dopo anni di pratica artistica, un individuo senza alcun talento e preparazione, veniva consacrato il giorno dopo il suo esordio a stella del firmamento artistico, li lasciò assolutamente basiti e contrariati.
Un avvenimento simile, non fu altro a nostro parere, che il frutto avariato della politica perseguita anni prima dall’agenzia, che per promuovere un’arte presuntamente autoctona, allargò il perimetro della stessa inglobando pratiche in cui talento e modestia creativa potevano confondersi con una incredibile facilità.
Quel che la CIA mise in atto per fermare l’avanzata del comunismo creò nel mondo dell’arte un’onda che ha travolto prassi consolidate da secoli e che si riverbera fino ai nostri giorni. Ma la costante resta il fenomeno di quotazioni incredibili per opere non storicizzate, di artisti giovani che spesso non si sono mai sporcati le mani nella realizzazione dei loro lavori.
Citiamo in questo caso due esempi lampanti di questo modo di procedere che tutti conoscono, come Damien Hirst e Jeff Koons, che godono tra l’altro, secondo noi, di quotazioni decisamente inspiegabili. Hirst, a Londra in unit 13 Glengall business park, Glengall road ha da tempo approntato alcuni capannoni dove lavorano un centinaio di Ghost artists stipendiati, e dove lui passa solo per firmare le opere realizzate da questi ultimi. Opere che che vengono immesse sul mercato, preventivamente recensite in modo entusiastico e poi vendute a centinaia di migliaia di sterline l’una.
Se qualcuno avanza la giustificazione che ciò avveniva già con le botteghe del Rinascimento, respingiamo fermamente questo parallelo, in virtù del fatto che tali botteghe funzionavano sotto la costante supervisione del maestro, il quale decideva le linee guida a cui dovevano attenersi gli allievi.
Sottolineiamo poi la differenza fondamentale tra il portare avanti una Scuola, in cui è implicata la trasmissione delle competenze, e il semplice avvalersi di personale che presta mano d’opera a pagamento.
Certo, se il modo di praticare il mercato di Hirst esiste ed è universalmente accettato, il motivo risiede nel fatto che comunque ci sono collezionisti pronti ad acquistare le opere “confezionate” in Glengall road, anche se l’apporto dell’artista a tali opere si limita alla sola firma.
Quindi torniamo a una delle domande che abbiamo posto all’inizio : il gusto del pubblico, date le vicende verificatesi nell’’arte dagli anni ’50 in poi, come è stato condizionato?
Una idea ce l’abbiamo, ed è questa:
le persone pagano molto (naturalmente non intendiamo i ceti popolari ) per opere dallo scarso se non nullo valore intrinseco, poiché la catarsi, e cioè la molla che ci spinge a godere del senso ultimo di un’opera d’arte non avviene più tramite il carico di pathos di cui è portatrice, ma attraverso il semplice possesso della stessa che si tramuta in feticcio e quindi un potenziale status symbol.
Per quanto riguarda la massa dei fruitori, la fluttuazione in superficie delle coscienze che è un fenomeno acuito dall’uso compulsivo della tecnologia, ha preso il sopravvento ed è ormai assuefatto ad un panorama indistinto in cui tutto si equivale, avallando così uno stato di cose assolutamente deleterio , in cui la differenza è stabilita solo dalla visibilità derivante dal possesso o meno di un bene.
L’alone di sacralità che ha sempre avvolto il mondo dell’arte viene mortificato da un pragmatismo che si pone come unico obiettivo quello di moltiplicare il valore pecuniario delle opere.
A tal proposito, si sono costituiti da tempo i fondi d’arte specializzati nella gestione di patrimoni con il preciso compito di realizzare profitti, che in molti casi possono essere quantificati in percentuali record che vanno dal 15 al 20 % annui.
La cartolarizzazione e altri strumenti tecnici strettamente connessi al mercato azionario hanno definitivamente fatto il loro ingresso nel sistema arte planetario, passando dall’ingresso principale, accompagnati da squilli di tromba.
Insomma, come è possibile che un dipinto di Andy Warhol del 1964 “Shot Sage Blue Marilyn”, nel maggio 2022 venga battuto da Christie’s a 195 milioni di dollari, appena la metà di “Salvator mundi” di Leonardo Da Vinci, e più de “L’urlo” di Munch, icona universalmente riconosciuta come simbolo del malessere contemporaneo, che è stato battuto nel 2012 a soli 119 milioni di dollari?
Aggiungiamo pure, che con tutta probabilità, quest’ultimo, se venisse di nuovo messo all’incanto oggi, verrebbe battuto quasi sicuramente al doppio o anche più della cifra di realizzo’ dell’asta precedente.
Contro questo stato di cose si levano voci che vengono dalla categoria stessa dei protagonisti del sistema, ossia gli artisti.
In un’intervista rilasciata qualche anno fa da Gerhard Richter e la moglie Sabin Moritz, inserita nel documentario del 2018 “The price of everything”, alla domanda dell’intervistatore che chiede della possibilità che alcuni degli ultimi dipinti fossero messi all’asta, egli risponde che è preferirebbe vederli in un museo e non in collezioni private, e la Sabin aggiunge che i musei in un certo senso sono democratici.
Nel corso della stessa intervista, Richter dice che un suo dipinto vale quanto una casa:
<< si, il quadro mi piace ma non è una casa, e ciò è ingiusto >>. E infine, aggiunge: << money is dirty>>.
Si parla di mercato drogato, ma noi crediamo che l’aggettivo calzante sia: gonfiato.
Se tale mercato, oramai perfettamente sovrapponibile a quello finanziario, dovesse degenerare in una crisi, come avvenne per i mutui subprime che sfociò nel 2009 in una recessione mondiale, per i collezionisti che hanno alimentato tale mercato sarebbe una catastrofe immane, e si ritroverebbero alle pareti tele stracce dal valore dimezzato o peggio ancora.
Però, come spesso accade (e non ce ne vogliano i super ricchi raccoglitori), potrebbe avverarsi ciò che dice la seguente massima: “non tutto il male vien per nuocere”.
Infatti, se ai privati accaparratori non resterebbe che quantificare le perdite, per gli amanti dell’arte, questo avvenimento, potrebbe rappresentare la liberazione da un gioco che ha catapultato la creazione artistica in un ambito che sinceramente crediamo anni luce lontano da essa.
La storia che è iniziata dopo la seconda guerra mondiale, prima o poi si chiuderà, portando lacrime a tutti: per alcuni saranno di dolore e per altri di gioia.
Di Claudio Vitagliano per ComeDonChisciotte.org
17.11.2023
FONTI BIBLIOGRAFICHE
Frances Stonor Saunders “La guerra fredda culturale. La Cia e il mondo delle lettere e delle arti”, Fazi Editore, 2004
Francesco Poli, “il sistema dell’arte contemporanea“, Laterza editore, 1999
Ombre sugli esordi della «documenta»: Werner Haftmann in Italia 1936-1945 – Casa di Goethe
La Pop Art e la Cia ai tempi della Guerra fredda
https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/i-fondi-d-arte-chi-sono-cosa-fanno-/136961.html
L’arma più segreta della Cia erano i pittori dell’astrattismo – ilGiornale.it
https://www.ilgiornale.it/news/cultura/1046197.html
Arte e spionaggio | Il Foglio
https://www.ilfoglio.it/cultura/2021/04/05/news/arte-e-spionaggio-2134694/
Riccardo Deni “I fondi d’arte, chi sono cosa fanno“. Il giornale dell’arte, 24 sett 2021
Paolo Guzzanti “L’arma più segreta della Cia erano i pittori dell’astrattismo“. – Il Giornale.it-23 agosto 2014
Ugo Nespolo, “Arte e spionaggio”, Il Foglio, 5 aprile 2021.
Giancarlo Bocchi, La pop art e la Cia ai tempi della guerra fredda. La Repubblica, 7 marzo 2023