I MALI DI NAPOLI, UNA CITTA’CHE DIVORA SE STESSA

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DI MASSIMO FINI

I primi e principali responsabili dello spaventoso degrado di Napoli sono i napoletani. Se si vuole che la città abbia qualche speranza di salvarsi dal gorgo profondo in cui è precipitata e che la sta tirando sempre più in basso, questo bisogna dirlo con chiarezza, senza trincerarsi dietro la retorica, forse obbligata, di Carlo Azeglio Ciampi che ha definito i napoletani “nè rassegnati nè inerti” di fronte alla crescita esplosiva della criminalità, ma piuttosto usando la lucidità del ministro dell’Interno, Pisanu, che proprio di inerzia e di rassegnazione aveva parlato. In realtà Pisanu ha usato degli eufemismi. Perché più che di “inerzia” e “rassegnazione” bisogna parlare di connivenza, a Napoli, fra la gente, diciamo così, normale e la camorra. Perché a Napoli c’è una illegalità diffusa che rende difficile stabilire dei confini precisi fra “Napoli male” e “Napoli bene”. Non esiste, e non è mai esistita a Napoli, in tutti i ceti sociali, alcuna cultura della legalità.

Viaggiavo tempo fa in taxi dall’aeroporto di Capodichino al porto e il taxista, loquace ed espansivo come sono in genere i napoletani, mi fece notare che sul suo parabrezza c’era il tagliando dell’assicurazione ma non quello del bollo. “E se il bollo non ce l’abbiamo noi, che facciamo questo mestiere, può immaginarsi gli altri”. E tutto è così, a Napoli.

Non c’è nessuno, a Napoli, che non abbia almeno un cugino camorrista cui ricorrere quando è vittima di un sopruso o per perpetrarne uno. Lo Stato è un nemico o un pollo da spennare.

Esistono, a Napoli, i “disoccupati organizzati”, più o meno le stesse persone da trent’anni, a parte le new entry, che fanno cortei al grido “fateci faticà” (ma quando mai?) e poi, finita la manifestazione, svoltato l’angolo, salgono sulle loro Bmw.
La contiguità fra “Napoli bene” e “mala” è un’eredità antica, che affonda le proprie radici molto lontano, nel periodo borbonico e feudale quando signori e “pezzenti” vivevano a stretto contatto di gomito. Quei legami, ai tempi, avevano un loro perché e una loro funzione sociale per una popolazione che insieme all’arte di arrangiarsi ha sempre coltivato quella di aiutarsi a vicenda. Una solidarietà spontanea, calda, partenopea.

Io devo a Napoli alla mia prima, salutare, lezione di vita. Correva la metà dei Sessanta, io di anni ne avevo ventuno, e con la mia prima macchina, una Simca 1000, e la mia ragazza, mi fermai, nel mitico viaggio verso il Sud, a Napoli e parcheggiai l’auto, con tutti i bagagli dentro, ai margini dei quartieri spagnoli, proprio davanti a un famoso bar di malavitosi, che si chiamava “Scarpinato” o qualcosa del genere. Quando tornammo dal giro la macchina, naturalmente, non c’era più. Sedevamo malinconicamente, verso mezzanotte, davanti a una stazioncina dei carabinieri, che pareva un avamposto nel Far West urbano, dove avevamo fatto la denuncia del furto, quando passò un ragazzo poco più grande di noi.

Vide la nostra aria malconcia, ci chiese cos’era successo e ci portò a casa sua. Era una casa bellissima, nobiliare, che si affacciava sul lungomare di Mergellina. I suoi genitori erano in viaggio di piacere e lui ci ospitò e per tre giorni ci scorrazzò per Napoli, ce la fece conoscere nelle sue pieghe più intime e nel suo affascinante sottosuolo. Al terzo giorno decise che era tempo di passare all’azione. Ci portò, la sera, sul lungomare, dove c’erano i cozzicari, musica e un popolo vociante e ridente che giocava allo “strummolo” e alla “semmana”.
Il ragazzo si rivolse a uno di questi cozzicari, che era soprannominato “u scurnacchiato”, e gli espose la questione. “U Scurnacchiato” ci pensò un po’ su, poi, rivolgendosi a me, disse: “La macchina la ritroverete senz’altro, i bagagli no”. Sennò, aggiunse, strizzando l’occhio che mariuoli saremmo?”.

La mattina dopo, alle sette, ricevemmo una telefonata dei caramba che, con una certa aria trionfante, ci annunciavano che la macchina era stata ritrovata. Un mese dopo, rientrato a Milano, mi arrivò una busta chiusa e anonima dove c’erano tutti i miei documenti. Ma quella era ancora la Napoli, premoderna, del “basso” e dell'”economia del vicolo”, così splendidamente descritta da Matilde Serao e, in anni più recenti da Antonio Ghirelli (“Napoli italiana”), dove la malavita aveva il volto bonario di “u Scurnacchiato”, era professionale e si dedicava a piccoli furti, come quello che avevo subito io (furti se non legittimi, perlomeno pedagogici, una dabbenaggine come la mia non poteva esser fatta passar liscia) e, principalmente, al contrabbando di sigarette che la polizia si guardava bene dal reprimere.
“Ogni tanto sequestriamo qualche partita, così, a titolo dimostrativo “mi disse un funzionario della Questura “ma sostanzialmente chiudiamo tutti e due gli occhi. Togliere il contrabbando di sigarette a Napoli significherebbe mettere sul lastrico trecentomila persone”. Ma quale “economia del vicolo” può esistere, e resistere, quando si costruiscono quartieri come il Traiano, i cosiddetti “comuni vesuviani” non sono che un immenso hinterland, (tanto più incombente perché, a differenza di quello milanese, è ben visibile arrampicato com’è sul vulcano fin quasi alla cima) e tutto il territorio è stato saccheggiato da una selvaggia speculazione edilizia?

Nella loro anarchia e nel loro disordine i napoletani si sono distrutti le loro sole, vere, ricchezze: il suolo, il territorio, la bellezza, il mare. Oggi Napoli, devastata anche da un traffico impossibile, è un incubo urbano e suburbano che nessun Restyling alla Bassolino può occultare.Negli anni Cinquanta, quando ero ragazzino, mio padre mi aveva portato a Napoli e mi aveva fatto conoscere i paesini della costa, Torre del Greco, Torre Annunziata e gli altri. Erano dei gioielli incastonati nel “Golfo più bello del mondo”. Oggi quella costa è tutta una interminabile striscia di cemento. I napoletani, per riflesso condizionato, credono di avere ancora “o sole mio”. Ma il sole, a Napoli, è quasi sempre più opaco che a Milano e se lasciando la città con la nave ci si volta indietro la si vede avvolta in una nube di inquinamento.
Il mare, guardando dall’aereo, è d’un color marrone marcio quasi fino a Capri. Ed è “grazie al sole e al mare che anche un ragazzo povero può crescere felice” scrive Albert Camus pensando alla sua Orano.Ma oggi, a Napoli, mare e sole non esistono più se non nell’immaginazione dei suoi abitanti. E i ragazzi poveri vanno, fatalmente, a ingrossare le fila della malavita. Che, nel frattempo, con la speculazione edilizia e la droga, è profondamente cambiata e dà luogo a quei fenomeni atroci che da decenni (altro che “un momento di disorientamento”, presidente Ciampi) incrudeliscono sulla città.

Così com’è cambiato quel rapporto amicale fra “Napoli bene” e “Napoli mala”.

Oggi alla malavita non si chiedono più quei favori sostanzialmente innocenti che il nostro giovane e ricco ospite chiese a “u Scurnacchiato”, ma altri, ben più inconfessabili. E se ne paga, ovviamente, il prezzo. E così quella contiguità fra signori e “pezzenti”, quell’anarchia, quell’allegro caos, quell’arrangiarsi, quel senso di solidarietà che in una situazione premoderna costituivano il folclore, il fascino e l’umanità di Napoli sono diventati, nella complessità della modernità, il mostruoso cancro che la sta divorando. E il timore è che Napoli, lungi dal salvarsi, non sia che lo specchio, appena un poco deformato, di quello che potrebbe diventare l’Italia intera che, senza capire che i tempi sono cambiati, si aggrappa ancora al sempiterno “stellone”, vive sempre più in disordine etico e morale, dove i confini fra ciò che è legale e ciò che non lo è si fanno, sia nelle alte come nelle basse sfere, sempre più esili, confusi e incerti.La meridionalizzazione, passando per quella cozza filtrante ogni sorte di nefandezze che è Roma, che provvede poi a diffondere sia al Nord che al Sud, ha invaso l’Italia. Ma non è il Meridione d’antan, con l’allegro, caotico, musicale disordine del lungomare di Mergellina di soli quarant’anni fa, ma un Meridione stravolto che, passato attraverso le sofisticazioni della modernità, ha mutato geneticamente quei suoi tratti così umani (forse “troppo umani” avrebbe detto Nietzsche) in un ghigno subdolo, e insieme feroce, che ne è esattamente l’opposto ed è solo distruttivo e autodistruttivo.

Massimo Fini
Fonte: www.ilgazzettino.it
17.11.04

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