HONG KONG UN ATTACCO USA ALLA CINA

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DI MAURO BOTTARELLI

ilsussidiario.net

Le anime candide e democratiche hanno un nuovo simbolo e una nuova lotta per scaldare i loro cuori: un nerd di 17 anni saltato fuori dal nulla che sta guidando la rivolta studentesca di Hong Kong in nome di maggiore democrazia da parte di Pechino nei confronti dell’ex colonia britannica e di una vera riforma elettorale rappresentativa.

Vi dico subito come la penso, onde evitare fraintendimenti: la faccia pulita e l’età del novello Che Guevara d’Oriente (chi potrebbe pensare che un diciassettenne che sembra uscito dalla pubblicità di una lozione anti-brufoli sia un destabilizzatore di professione?), quanto sta accadendo e il suo timing sono la prova incontrovertibile che questa ennesima “primavera” è eterodiretta come le precedenti – nel mondo arabo e in Ucraina – da parte degli Stati Uniti in quella che è una vera e propria guerra asimmetrica geofinanziaria per non perdere lo status di mercato di riferimento e non far perdere al dollaro quello di benchmark nel mercato valutario e negli scambi commerciali a livello globale.

Di più, attraverso l’attacco diretto alla Cina, Washington punta a far deragliare la politica di rigore del nuovo governo di Pechino, impegnato, come vi dicevo una decina di giorni fa, in un’operazione di sgonfiamento controllato della bolla del credito attraverso iniezioni di liquidità mirate a intervallare quello che è invece un vero e proprio credit crunch strutturale. Il perché è presto detto: costringere la Banca del popolo cinese a una sua forma di Qe che inondi il mercato di liquidità per tamponare lo shortfall derivante dal “tapering” della Fed previsto per la fine di questo mese e dall’iniezione della Bce in tal senso. Non a caso, lunedì sera le autorità di Pechino hanno avvertito chiaramente gli Usa di non immischiarsi in questioni interne della Cina, dopo che la Casa Bianca aveva reso noto il suo supporto alla “rivoluzione degli ombrelli”. Insomma, i comunisti operano come la scuola austriaca, gli statunitensi come Keynes: il mondo al contrario.

Le Borse asiatiche stanno già pagando un caro prezzo a questa rivolta per ora pacifica, ma il peggio deve ancora arrivare, visto che lunedì il capo economista di Deutsche Bank, Taimur Baig, ha dichiarato quanto segue: «Hong Kong chiaramente sta rischiando il suo ruolo di porta d’ingresso per l’investimento nella Cina continentale, visto che i timori degli investitori lasciano il Paese in una posizione molto più precaria di quella di Singapore come principale capitale finanziaria dell’Asia». Come vi dicevo, i risultati derivanti dalla prima settimana di proteste pacifiche sui mercati si sono già fatti sentire, ma un eventuale rallentamento ulteriore della crescita cinese e l’aumento dei tassi di interesse Usa potrebbero davvero far crescere pericolosamente l’insoddisfazione e il timore.

Negli anni recenti, il combinato di flussi monetari dalla Cina continentale e i tassi sui mutui praticamente a zero – la valuta di Hong Kong è legata da un peg fisso al dollaro, quindi i tassi locali seguono quelli decisi dalla Fed – ha fatto da propellente al mercato immobiliare, i cui costi solo saliti a massimi record, più del 300% rispetto ai minimi del 2003. Certo, ogni oscillazione al ribasso renderebbe più a buon mercato quegli immobili ma colpirebbe al tempo stesso i bilanci della middle-class proprietaria di case, la quale in queste ore sta simpatizzando con i dimostranti.

Il mercato azionario, poi, è già calato dell’8,3% da inizio settembre e anche il nuovo trading link sulle equities tra i mercati di Hong Kong e Shanghai, che dovrebbe attivarsi a fine ottobre, potrebbe non offrire molto sollievo, visto che le valutazioni dei titoli quotati a Hong Kong sono in linea con i loro pari nella Cina continentale, fornendo pochissime opportunità di arbitraggio da sfruttare. Ma soprattutto perché le manifestazioni a orologeria di questi giorni riusciranno nell’intento principale, ovvero oscurare il significato politico-economico di questo accordo: l’internazionalizzazione ulteriore dei mercati cinesi, visto che le persone che hanno attualmente un conto aperto a Hong Kong, grazie a questo link, potrebbero tutte insieme comprare fino a 3 miliardi di dollari al giorno di titoli azionari cinesi.

Inoltre, il fatto che il programma di stimolo monetario per l’economia della Cina varato dal precedente Governo abbia ormai perso efficacia e il nuovo plenum stia resistendo in tutti i modi al lancio di un Qe in piena regola ci dicono che le possibilità di un supporto di Pechino al mercato di Hong Kong appaiono limitate. Per finire, anche chi vede nelle proteste una possibile motivazione per cui la Cina decida di scegliere la Free Trade Zone di Shanghai per il suo programma di liberalizzazione finanziaria invece di Hong Kong, deve scontrarsi contro la realtà: ovvero, che nonostante le fanfare che accompagnarono la sua inaugurazione un anno fa, i progressi legislativi per regolare inflows di capitale dentro e fuori Shanghai sono lentissimi. Insomma, ci vorranno decenni prima che Shanghai possa essere un’alternativa credibile a Hong Kong.

Ma veniamo al punto nodale: perché attaccare, seppur con proteste pacifiche, proprio Hong Kong? E perché proprio ora? Partiamo dal primo interrogativo, a cui una prima risposta la fornisce la capo analista di Fitch a Pechino, Charlene Chu, a detta della quale «di tutte le liste relative a incidenti nel sistema bancario che aspettano di succedere, quella della Cina ha un posto al top. E se accadesse, potrebbe far schiantare l’intera economia globale». Il nodo è quello di cui vi ho parlato decine di volte, l’elefantiaco sistema bancario ombra della Cina, passato in cinque anni da 14 triliardi di dollari agli attuali 15, un qualcosa che per Chu significa una cosa sola: «Non c’è possibilità che la Cina non vada incontro a grossi problemi e ciò che è più importante e che questo potrebbe scatenare un disastro a livello globale».

Disastro dice: esattamente come dobbiamo aspettarcelo? «Una crisi del sistema bancario ombra cinese potrebbe concretizzarsi con la fine della ripresa giapponese nonostante l’Abenomics, lo schianto di economie come quelle della Corea del Sud e del Vietnam, destabilizzazione dei prezzi di titoli azionari e commodities, fino alla conseguenza estrema di far sospendere alla Fed il “tapering” del programma di stimolo monetario dopo alcune riunioni di emergenza a Washington. È inutile continuare a guardare verso economie come Argentina e Turchia per cercare focolai di crisi, la vera “wild card” è la seconda economia del pianeta».

Interessante, no? Si potrebbe arrivare a “obbligare” la Fed a continuare a stampare per causa di forza maggiore, ovvero una severa crisi bancaria asiatica: qualcuno a Washington potrebbe essere tentato dalla cosa, sicuramente a Wall Street sbavano alla sola idea. Tanto più che non è necessario, per ottenere questo risultato in grado di far espandere ancora un po’ la bolla, dando il tempo alla finanza Usa di scaricare la carta di cui è piena e mantenendo i corsi ancora un po’ artificialmente in “bull market”, arrivare fino alle estreme conseguenze. La Cina, infatti, alla fine dello scorso anno aveva riserve valutarie estere per 3,83 triliardi di dollari, una cifra sufficiente a tamponare la situazione sul nascere e a coprire per più di tre volte le liabilities estere di breve termine del Paese: certo, lo strizzamento dello stato patrimoniale della Banca del popolo a causa della vendita forzata di assets per finanziarie le liabilities estere porterebbe con sé una dolorosa contrazione del credito nell’economia interna cinese, ma questo processo è in parte già in atto ora.

Per questo vi dico che per fare danni sufficienti a garantire ancora un po’ di vita al Qe non serve scatenare l’inferno: a Washington hanno studiato il piano nel dettaglio e hanno puntato su tallone d’Achille cinese, ovvero le banche di Hong Kong, le quali, come ci mostra il grafico a fondo pagina, hanno un’esposizione creditizia su net claims verso aziende e clientela nella Cina continentale spaventosa, cresciuta a dismisura a partire dal 2008 quando alle misure espansive del vecchio Governo cinese si unì prima il programma Zirp di Ben Bernanke e poi il vero e proprio Qe della Fed.

Inoltre, la Hong Kong Monetary Authority ha puntato recentemente il dito sull’aumento sproporzionato del finanziamento in dollari da parte di soggetti della Cina continentale proprio attraverso il canale offshore di Hong Kong, quadruplicato negli ultimi tre anni e arrivato ora a oltre 1 triliardo di dollari. Insomma, gli ingredienti ci sono tutti e oggi, primo ottobre, in Cina scatta una settimana di festività nazionale che a Hong Kong e Macao corrisponderanno con una grande manifestazione di piazza, cui hanno già preannunciato la loro presenza anche attivisti stranieri: l’estrema provocazione alla pazienza delle autorità cinesi potrebbe scattare quindi nelle prossime ore, sperando in una risposta dura che tramuterebbe agli occhi dell’opinione pubblica narcotizzata del mondo l’immagine di Pechino come nuovo mostro dopo la Russia di Vladimir Putin.

Ma ora veniamo alla seconda domanda, perché proprio ora? Perché una nuova crisi asiatica è alle porte dopo quella del maggio-giugno del 2013.

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Mauro Bottarelli

Fonte: www.ilsussidiario.net

Link: http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2014/10/1/SPY-FINANZA-Hong-Kong-un-attacco-degli-Usa-alla-Cina/2/535591/

1.10.2014

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