GIADA E GOMORRA

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DI ANTONIO MENNA
Nazione Indiana

“Me lo presti questo libro?”. Giada è in piedi davanti alla mia scrivania, con la sua solita borsa larga, color crema, a tracolla e un paio di stivaletti corti e mosci, come si portano adesso, e il puntino di brillante conficcato nella narice sinistra, e i capelli tinti di rosso fiamma, e l’orologio sul polsino della maglia in pile quechua comprata da Decathlon Giugliano a nove euro e novanta, e un cinturone di cuoio nero con medaglione a forma di piramide, e un jeans chiaro con una catena luccicante d’argento che scende dalla tasca destra e si allunga sulla coscia.

Giada ha gli occhi blu disegnati da Walt Disney. Li ha prelevati, via dna, dalla mamma, Laura, che conosco da 34 anni, da quando io avevo 4 anni, e lei pure. Laura è stata la sorella che non ho mai avuto (non che l’abbia mai desiderata); mi sono turbato, intorno ai dieci anni, quando le ho visto spuntare due piccole dune sotto la canotta; mi sono disturbato quando ho visto comparire sotto alle sue ascelle una peluria nera e morbida; mi sono contratto quando ho sentito che era una femmina. Mi sono amareggiato quando l’ho vista fuori della scuola abbracciata a uno della quinta. Mi sono inorgoglito quando mi ha fatto una furiosa scenata di gelosia dopo aver saputo che uscivo con Paola.Mi sono commosso quando è stata una notte intera nella mia stanza, dopo la morte del padre, a piangere, a ridere, a stare zitti, a ricordare, a vedere l’alba, la prima alba senza il padre, a fare una colazione pigra, stanchissima, come dopo i veglioni. Mi sono tremate le gambe, molli, quando a 18 anni, io e lei insieme, abbiamo fatto per la prima volta in assoluto l’amore. Continuando a farlo per mesi senza dirci nulla e senza mai “metterci” come ci si metteva e ci si lasciava a quell’età. Mi è mancata molto quando ha deciso che non dovevamo vederci più perché la cosa la mandava in confusione. Mi si è strozzato il respiro nel lungo tempo senza di lei. Mi è sembrato un secolo quando, anni dopo, con vite formate, tutto sommato definite, è ricomparsa e mi ha sorriso. Mi ha fatto felice quando ha voluto che fossi io a portarla all’altare, per sposare Giuseppe. Ed ero lì, quando aveva appena partorito Giada, con quegli occhi blu che stamattina mi sgrana davanti e mi chiede di prestarle un libro, quel libro.

Giada vuole Gomorra. La sua richiesta mi lascia di sasso. Giada ha 14 anni, fa la prima al liceo scientifico Segrè di Marano; Marano è un bel paesone in provincia di Napoli: 60mila abitanti stretti stretti tra la collina borghese e guardinga di Vomero-Arenella-Camaldoli e la pianura plebea e rumorosa di Chiaiano-Piscinola-Scampia. Giada ha perso un anno. In questi casi si dice che zoppica. Ha un po’ di problemi a scuola, la mamma è preoccupata e mi ha chiesto di aiutarla. Io le do ripetizioni di qualcosa ma lei mi prende poco sul serio. In realtà mi incanto nei suoi occhi blu e penso a come sarebbe stato avere una figlia così. E sposare Laura.
Chiedo a Giada perché vuole Gomorra. E lei mi risponde: “per leggerlo”. Già.

Ma mi chiedo perché Giada vuole leggere; perché vuole leggere un libro; perché vuole leggere Gomorra.
Giada è una di quelle ragazze che a Marano girano sul motorino, in tre (lei è quasi sempre quella di mezzo), senza casco, il sabato pomeriggio; una di quelle ragazze che a Marano stazionano fuori della pompa di benzina di Corso Europa oppure sulle panchine della via principale o sul muretto della scuola, fumando marlboro light. Quando non passa il tempo così, Giada va al centro commerciale con le amiche. Ci arriva in motorino. Prima andava alla galleria Auchan di Mugnano, che prim’ancora si chiamava Città mercato. Prendeva un supplì, un pezzo di pizza da spizzico e camminava tra Carpisa e Pezzuto. Da quando hanno aperto l’iperAuchan di Giugliano, Giada va lì e passeggia nell’enorme corridoio tra le casse e i negozi, fa le vasche e struscia avanti e indietro.

Non ho mai visto Giada leggere un libro. L’anno scorso le proposi “tre metri sopra il cielo” di Federico Moccia; speravo di conquistarla alle parole. Lei mi fulminò dicendo che se a scuola avessero scoperto che stava leggendo un libro (così) l’avrebbero sfottuta per almeno sei anni (quanto mancava al diploma, secondo i suoi realistici calcoli).

Oggi, però, di fronte alla mia scrivania, Giada mi chiede Gomorra. “Che ne sai di questo libro?”, le chiedo. “Lo conoscono tutti”, mi risponde fulminea.

Mi ricordo improvvisamente che Giada, quasi due anni fa, aveva sul desktop del suo cellulare la foto di Cosimino Di Lauro in manette. Cosimino Di Lauro è il figlio di Ciruzzo ‘o milionario, il boss di Scampia e Secondigliano. L’erede al trono. Cosimino è quello che ha scatenato la guerra contro gli scissionisti. Fu arrestato di notte, nel Terzo mondo, un quartiere di Secondigliano. Fu portato al Comando provinciale dei Carabinieri di piazza Carità. Nel cortile della caserma si radunarono circa 400 persone per salutarlo. Quando uscì in manette era l’alba. Stretto tra i carabinieri in pettorina blu, scese i gradini con flemma e a petto in fuori. Con i capelli lunghi e lisci tenuti da una coda di cavallo, con un cappotto nero di pelle e un dolcevita di lana, sempre nero, guardò dritto negli obiettivi. Un fotografo fissò gli occhi di ghiaccio di Cosimino, la sua bocca serrata, la sua smorfia di potere. Quello scatto finì sui giornali. E su internet. E comparve sui cellulari dei ragazzi di Napoli, e di Marano. Perché? Perché Cosimino era “tuost”. Lo disse anche Giada. “Cosimino è tuost, ed è pure bono”, aggiunse. Un rampollo di camorra, un boss sanguinario che a 25 anni ordina una carneficina, dicendo (espressione raccolta da una intercettazione) di voler scatenate la guerra mondiale contro i traditori (gli scissionisti); un capo banda finisce sugli schermi dei cellulari degli adolescenti. Come un poster, come la foto di Simon Le Bon ai miei tempi. Un idolo. Un bono irraggiungibile. Un tuost, uno tosto. Un camorrista.

Oggi Giada mi chiede Gomorra. E io provo a capire cosa le interessa. “I guaglioni lo stanno leggendo tutti – mi dice -; a scuola se lo passano”. Prendo il libro, lo sfoglio rapidamente facendo suonare le pagine. Mi chiedo che cosa di quel grosso grumo di sangue possa colpire la fantasia di una ragazzina. “Ma lo sai di che parla questo libro?”, le chiedo. “E come non lo so”, risponde. Me lo toglie di mano e va a cercare una zona precisa del libro. Fatica a trovarla. Poi la vede. Legge. Ride. Sono i soprannomi dei camorristi di Secondigliano, di Miano, del Terzo Mondo, del Don Guanella, di Scampia, di Piscinola, anche di Marano. I soprannomi di morti e vivi che hanno fatto la guerra e che a un certo punto, morti o vivi, si sono placati. “S’mor, s’mor”, dice, ridendo, Giada, con involontaria, agghiacciante ambiguità. Si muore, si muore…si muore dal ridere. “Me lo presti, ià”, ripete Giada, implorandomi con gli occhi blu sgranati, proprio quelli della mamma.

Chiamo Raffaele, vicepreside di liceo, insegnante di lettere, amico di infanzia, compagno di letture, collega di cronache giornalistiche e di timidissime esplorazioni anticonformiste abortite in postifissi-mogliagiate-amantipèrete. Gli chiedo di Gomorra. “Eccezionale”, dice. “Lo so”, replico, “ma non è questo che mi interessa”. Gli chiedo se gli risulta che il libro va molto tra i ragazzi, tra gli adolescenti di Marano. Lui mi dice di sì. Senza alcuna titubanza. “A questi ragazzi, la camorra li prende nella testa, nei nervi; la camorra gli piace”, mi dice Raffaele, “ne parlano con gli occhi che luccicano. Questi, a 14, a 15 anni, non comprano il Corriere dello Sport o il Guerin Sportivo, come facevamo noi; questi comprano Cronache di Napoli e stanno ore a guardare le capuzzelle”.

Le capuzzelle, nel gergo dei cronisti di nera (io e Raffaele abbiamo scritto, in due, almeno seicento pezzi di nera per Il Mattino tra il 1988 e il ’93) sono le foto tessera dei morti ammazzati e degli arrestati che i giornali pubblicano a margine dei pezzi. Un tempo, in cronaca, si mettevano in un angolo della pagina, non troppo in vista e mai troppe insieme. “Sennò sembra un cimitero”, ci ammoniva Franco, il caposervizio che faceva il menabò, la gabbia grafica della pagina, all’epoca disegnata con matita e righello. Oggi, Cronache di Napoli, un quotidiano di quasi tutta nera, che vende migliaia di copie tra Napoli e la provincia, pubblica ogni giorno, in apertura di prima pagina, decine e decine di capuzzelle. Un mattinale di morti, arresti, denunce tutti corredati di foto tessera messe una accanto all’altro con i nomi, l’età, il soprannome. “I ragazzi guardano le capuzzelle – mi dice Raffaele – e provano a riconoscere le persone; si fanno vanto di conoscere il cugino di tizio, il fratello del cognato di caio, o addirittura uno di questi in persona. Ne seguono ammirati le avventure. Recitano a memoria il codice penale; per loro l’associazione è il 416 bis, l’articolo del codice penale del concorso in associazione mafiosa. A volte penso che se la Panini facesse l’album con le capuzzelle dei camorristi, dalle nostre parti, farebbe soldi a palate”.

Resto al telefono in silenzio. Il silenzio al telefono è impossibile. Un apparecchio fatto per parlare e per ascoltare non consente pause, non tollera i silenzi. E infatti sento Raffaele che, dopo qualche secondo, dice: “pronto? Pronto? Ci sei?”. Lo rassicuro e gli dico che tutto questo non smette di sconcertarmi. Lui ne sorride. “Ma non ti ricordi della suoneria del camorrista?”

Il camorrista è un film di Giuseppe Tornatore, con Leo Gullotta che fa il commissario di polizia e il grugno feroce e grottesco di Ben Gazzara che fa Raffaele Cutolo. Tornatore girò il film sulla base di un libro di Joe Marrazzo, grande cronista di nera, padre dell’attuale presidente della Regione Lazio; una biografia del camorrista di Ottaviano che, negli anni Settanta e Ottanta scatenò una delle più feroci guerre di camorra che si ricordino.

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Questo film – bello teso nero – è stato girato nel 1986. Giada non era ancora nata. E io facevo ancora l’amore con la mamma. Il film, al cinema, non ebbe grande successo ma divenne, improvvisamente, un cult per le televisioni private napoletane che lo mandano in onda, ancora oggi, in continuazione.
Io l’avrò beccato almeno duecento volte.

La colonna sonora del film è una musica che sale nei timpani e che scandisce, come un battito, “tatatà-tatàtatàtatà”. Questa musica è diventata, qualche anno fa, una delle suonerie più diffuse sui cellulari dei ragazzi di Napoli e provincia. “Non ti dico le risate che si facevano in classe – dice Raffaele – qualcuno aveva messo in coda alla suoneria anche la voce di Gazzara che urlava ‘io sono il professore di vesuviano’ oppure ‘o malommo è nu guapp e carton’ .

La suoneria del professore di vesuviano. Me ne ero scordato. Un film tragico e nervoso sulla camorra, sulla morte, sulla follia, sull’appartenenza, dentro un paradossale rovesciamento, diventa un simbolo del mondo stesso che intendeva aggredire, mostrandolo nella sue crudezza.

E proprio la crudezza diventa icona pop, epopea.

Che giostra incredibile quella dove sali per girare verso destra e che, centrifugando, ti porta improvvisamente nelle direzione opposta.

Del resto, ce lo racconta Gomorra stesso che i guaglioni hanno il mito di Scarface, di tony montana, della villa imperiale, del naso che schiatta di cocaina, di strafighe strafatte. E la voce roca di Marlon Brando? Quante tempo, noi, sui giornali, abbiamo chiamato i boss di camorra, padrini?

“Questi fanno come con le pigne; sfogliano, sfogliano, lasciano cadere quello che non gli interessa e si prendono il cuore, i pinoli”. Raffaele è caustico nel ricordarmi di come tutto, qui, viene macinato e disperso. Film, canzoni, notizie. La denuncia costruisce miti, la narrazione fabbrica gli idoli, il bestseller moltiplica la celebrità e l’allume di ombelico del mondo; l’insieme produce gli stili, echeggia i linguaggi, affresca i passi quotidiani, parla di noi.

Di loro e quindi di noi.

Gomorra è finito sulla giostra. I ragazzi che gli si illuminano gli occhi quando parlano di camorra se lo passano come fanno con Cronache di Napoli con le capuzzelle, come si mandavano via mms la foto di Cosimino con il cappotto di pelle nera, come si schiattano di risa quando trilla la suoneria del professore di vesuviano. Gomorra è lo specchio della loro identità di gruppo, identità di zona. Esistono, se ne è accorta tutta Italia.

Come si fa coi poster: li attacchi al muro e segni la distanza tra quello che sei e quello che potresti essere, e misuri quanto ti manca, guardi l’orizzonte, con la vertigine del bordo. Un passo e ci sei dentro ma rimani di qua. O forse no. Una linea sottile che mette ansia o che rassicura.

Giada mi chiede Gomorra e io glielo presto.

Antonio Menna
Fonte: http://www.nazioneindiana.com
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09.12.2006

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