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La Redazione

 

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GENTE IN PIAZZA, E ORA ?

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A cura di Davide
Il 15 Ottobre 2011
49 Views

DI VALERIO LO MONACO
ilribelle.com

La crisi si è rapidamente espansa a livello mondiale, coinvolgendo, di fatto, tutti i Paesi in qualche modo accodati, direttamente o indirettamente, per propria volontà o forzati da altri, al nostro sistema di sviluppo.

In conseguenza di questo, con lo spostamento pilotato dagli speculatori e avallato dai governi conniventi della crisi dal privato delle Banche al pubblico dei popoli, miliardi di persone stanno accorgendosi sulla propria pelle degli effetti devastanti di un modello sbagliato in partenza.

Consapevolmente o più spesso meno, si avverte in ogni caso che il proprio presente peggiora costantemente e che il futuro diviene ancora più incerto di quanto non lo sia già.
Con lo spostamento della falla generata dalla finanza e dall’economia apolide nei confronti dei debiti pubblici di vari Paesi, e dunque sulla vita di tutti in virtù delle misure che agli Stati vengono imposte per sanare buchi che originariamente non sono i propri, i popoli della terra si trovano ora di fronte a una duplice possibilità. Come ha bel rilevato, tra gli altri, Giulietto Chiesa: arrendersi o reagire.

Fortunatamente appare che in quasi tutte le parti del mondo colpite dal fenomeno vi siano esplosioni di indignazione e collera nei confronti di chi, media, politica ed economia, continua imperterrito a portare avanti decisioni che non fanno altro che peggiorare la situazione.

Se è semplicistico e fuorviante accorpare sotto un unico tetto le varie dimostrazioni, rivolte o più semplici sollevamenti popolari che hanno natura fortemente differente da caso a caso, ciò non toglie che si possa riunire la situazione generale sotto al concetto di voler reagire in qualche modo, comunque.

Profondamente sbagliato, ad esempio, fare correlazioni tra le rivolte in Medio Oriente e quella tra le province della Libia e poi magari correlare le stesse con le manifestazioni in Grecia o con quelle in altre parti d’Europa. Ed è profondamente sbagliato confrontare queste ultime – come sta facendo Obama – con quelle che stanno avvenendo anche negli Stati Uniti con il movimento Occupy Wall Street. Eppure, come detto, un filo rosso di scontento e reazione, tra tutte queste vicende differenti, esiste. Ma è necessario sgomberare il campo da un primo tema, che in realtà è un equivoco, che viene spesso citato a sproposito nelle ultime settimane: non si tratta di una ennesima tornata in auge del movimento No-Global. Il vago sentimento che ne era alla base infatti non ha retto, come era normale che fosse, al passare del tempo. Chi, già all’epoca di Seattle, leggeva nel movimento no global la natura intrinsecamente globalista che ne era di fatto il movente, pur avendo intenti diametralmente opposti, all’epoca venne additato come complice del sistema che il movimento si prefiggeva, non capendo la propria contraddizione di fondo, di combattere. Le cose naturalmente stavano diversamente. Se era vero – e lo era e lo è – che la globalizzazione è uno di quei fenomeni che allora come oggi andava e va assolutamente osteggiato, per i motivi che è oramai superfluo elencare, ebbene ciò poteva essere fatto unicamente attraverso la rivendicazione di esigenze e appartenenze locali. Un movimento no global che però aveva tutti i connotati di una esperienza del tutto globale non poteva che naufragare, e così, almeno con le caratteristiche di quel movimento di allora, è stato.

A essere globale è oggi lo scontento. Che è cosa diversa. E, sebbene in modo del tutto eterogeneo, la volontà di reazione. Cose, entrambe, destinate ad aumentare sia in intensità sia in estensione.

Si avverte insomma, in modo sempre più diffuso, che larga fetta dell’opinione pubblica di tanti Stati abbia, in certa misura seppure in modo disomogeneo da caso a caso, il sentire comune di non essere responsabile dell’accaduto e in conseguenza di non voler pagare per una crisi generata da “altri”.

È su questo “altri” che ora si deve concentrare il discorso. Poiché questi “altri” sono i nostri nemici.

Si tratta dunque di fare una gerarchizzazione di questi “nemici”, e i tempi che ci aspettano, se tale percezione avrà consenso, potrebbero vedere posizioni politiche o ideologiche differenti, anche di antica derivazione, essere artificialmente dissociate o artificialmente unite allo scopo. Ci sarà bisogno di alleanze temporanee ma necessarie, anche per chi la pensa(va) in modo molto diverso, se il fine ultimo, così come sembra che sia, sarà quello di svolgere uno sforzo titanico contro chi ha mezzi e potenza sino a ora incontrastati.

Questo rileva la necessità di una azione di lungo respiro, che non si può certo compiere in qualche mese o qualche anno. Distruggere – o rovesciare – una impalcatura finanziaria, culturale, mediatica, politica e poliziesca come quella che tiene in scacco quasi il mondo intero esclude a priori una azione rapida. Chi preferisce, o crede, che basti una azione di questo tipo è un ingenuo. E di movimenti, associazioni, manifestazioni, gruppi e gruppuscoli che tentano di reagire in questo modo purtroppo è pieno. L’azione a breve scadenza, senza profondità storica, è votata al fallimento. Invece qui è necessario il vero e proprio cambio di paradigma del quale abbiamo parlato più volte. Cosa, si converrà, che non è possibile realizzare in poco tempo.

È destinato a rimanere deluso pertanto anche chi ripone la propria fiducia in tante delle manifestazioni di cui teniamo la cronaca in queste settimane sul Ribelle Quotidiano. Pensare che esse possano in qualche modo incidere in maniera realmente storica sulla situazione significa non capire nulla della psicologia delle folle.

Perché ciò che avviene è stimolato dall’istinto, dalla rabbia, dalla indignazione. E dall’indigenza. Tutti detonatori di rispetto e utilità, ma insufficienti per il cambiamento di cui ci sarebbe bisogno.

Questo vorrebbe che fosse già in atto la decolonizzazione dell’immaginario di cui parla Latouche dal nostro sistema di vita. Che vi fosse già la consapevolezza della erroneità di fondo di questo sistema. Insomma che nella mente di una massa critica di persone fosse già scattato il click necessario a cambiare sensibilmente rotta. Non come, invece, sta succedendo: ovvero, per lo più, reagendo per voler tornare alla situazione ante-crisi.

È insomma ancora una volta primariamente culturale il cambiamento di cui vi è bisogno. E di questo purtroppo non v’è traccia. Per ora.

Il che implica ancora una volta prendere coscienza della impossibilità di vedere un rovesciamento della situazione in brevi periodi. Chi se lo aspetta si illude.

Invertire la tendenza culturale è un processo necessariamente lungo, e questo si scontra con la necessità di intervenire subito su una situazione che si è fatta insostenibile. In merito alla stretta attualità, i popoli sentono di dover intervenire immediatamente, ma non hanno chiara la direzione da prendere. Sentono di dover abbattere i banksters, ma non hanno colto i due nemici principali: chi controlla la moneta e chi si sforza ancora di promuovere come migliore possibile l’assunto del nostro modello di sviluppo. Non c’è insomma la consapevolezza di voler cambiare radicalmente il paradigma dominante, ma solo di spazzare via chi, in questo paradigma, li ha ridotti in tale condizione. Il che non è poco, beninteso. Ma si tratta di una volontà insufficiente per cambiare sul serio la direzione. Cosa che è, invece, assolutamente necessaria.

La lotta più importante da fare sarebbe dunque contro se stessi, visto che si dovrebbe mettere in discussione tutti gli stili e i modi di vita che si sono portati avanti sino a questo punto, perché se non si mette a fuoco questo non si può prendere davvero coscienza di chi siano veramente i nostri nemici. Si tratta di una vera e propria impresa, che oltre a necessitare di tempi lunghi, pochi, al momento, hanno il coraggio di decidersi a fare.

Ancora: ci sarebbe bisogno di cambiare i principi, e per farlo si deve tentare di uscire dalla problematica attuale, ovvero avere un’altra visione del mondo e dell’esistenza. Cosa che i più (ancora) non hanno. Basta guardarsi attorno e parlare con la “gente” per rendersene conto.

Dal punto di vista prettamente numerico, la quantità di persone, di popoli, di nazioni e di macro aree del mondo che avrebbe tutto l’interesse a operare una vera e propria rivoluzione in tal senso è la stretta maggioranza. Solo che mancano, appunto, la consapevolezza di esserlo e la volontà di cambiare la direzione. Ai più basta tornare a come si stava qualche anno addietro, con meno debiti, un po’ più di denaro in tasca e qualche mascalzone in meno nelle stanze dei bottoni. Ma tutti, o quasi, tornerebbero a lavorare otto o dieci ore in fabbrica, a mettersi in coda la mattina e la sera, e in sostanza a rimanere schiavi del sistema della crescita con in più l’inconsapevolezza di lavorare per guadagnare denaro che è prodotto da pochi padroni del vapore che ce lo vendono a carissimo prezzo.

È purtroppo quest’ultimo il filone maggioritario delle manifestazioni in corso in tante parti del mondo. E in questo caso non c’è affatto da stare allegri.

L’economia e la finanza globalizzate, vedremo, già vanno e andranno ancora di più in futuro di pari passo con l’instaurazione di uno Stato su scala planetaria. Una delle prossime parole con le quali ci troveremo a fare seriamente i conti è quella di “governance” (della quale parleremo in un’altra circostanza). Ma soprattutto faremo i conti con ciò che essa vuole dire nella nostra attualità. Il “sistema” dei banchieri e di tutti i vassalli e surrogati farà di tutto prima di alzare bandiera bianca, e dietro l’angolo già si vede il momento in cui, così come fatto sino ora ammonendoci sulla “necessità” dell’austerity perché “ce lo chiedono i mercati”, ci arriveranno a far accettare la “necessità” di una nuova super moneta (prodotta dagli stessi, sia chiaro) per far rispettare la quale ci sarà “necessità” di nuove forme di cittadinanza e di super polizia.

Ma “I tempi di crisi”, osservava Ernst Junger, “portano sempre con sé questo dato dell’esperienza: la volontà di uno solo ha più rapidità ed efficacia di quella di un’assemblea, specialmente quando si deve garantire il funzionamento dei grandi apparati”.

È insomma ingenuo, da parte nostra, aspettarci dei cambiamenti rivoluzionari dalle manifestazioni e dai movimenti attualmente in corso (e da quelli immediatamente futuri) in tutto il mondo. Pur continuando a lottare in una prospettiva di lungo termine, ovvero sul campo della battaglia culturale, delle idee, per cercare di incidere sulle mentalità al fine di auspicare una vera presa di coscienza generale che è necessaria a qualsiasi velleità di serio e radicale cambiamento, è più al piccolo, all’immediato prossimo, a noi stessi e alla piccola cerchia di chi ci è intorno che si deve puntare. Possiamo avere molta più efficacia e rapidità su noi stessi e su pochi altri – e questi altri con noi – che aspettando la rivoluzione delle masse.

La “società mercantile”, come rileva in un modo che più incisivo e corretto non si può Alain de Benoist, “è destinata a morire, perché nessuno vuol morire al suo posto per essa”. Ecco, sino a che ci saranno ancora nel mondo persone che scenderanno in piazza per reclamare il proprio posto di lavoro nel sistema e con le metodiche attuali e la possibilità di accedere al consumo (cioè continuare a essere schiavi e utilizzare la moneta debito) questa società mercantile non potrà crollare. Ma nel momento in cui una massa critica si renderà conto che una vita del genere è in realtà una condanna a morte nello stesso momento in cui si vive per perpetrare lo stato delle cose, allora la diserzione sarà di massa. E noi ribelli ci sentiremo un po’ meno soli.

Valerio Lo Monaco

www.ilribelle.com/
13.10.2011

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