DI TONINO BUCCI
Liberazione
Intervista a Franco Cardini
Franco Cardini non lo conosciamo solo per la notorietà dei suoi libri e per la sua professione di docente di storia medievale. E’ anche personaggio pubblico, interviene su giornali e alla radio. Lo si conosce come intellettuale di destra. Da giovane ha militato nell’Msi, è stato iscritto alla Giovane Europa. Oggi scrive di sé sul proprio sito personale: «Cattolico, tradizionalista, uomo d’ordine e di forte senso dello Stato, potrei forse ancora dirmi “di destra”. Da anni non mi considero né mi autoqualifico più in tal modo: ma vedo che così continuano a etichettarmi; confesso che la cosa mi secca un po’, tuttavia lascio correre. Ma la mia tensione verso la giustizia sociale e il mio convinto europeismo m’impediscono di provar la minima simpatia per una destra che ormai ha
scelto quasi all’unanimità il liberismo e l’atlantismo più sfrenati e che sovente ostenta anche un filocattolicesimo peloso, strumentale, palesando di ritener la Chiesa cattolica solo un baluardo dell’ordine costituito e del
benpensantismo conformista».
Anche lui, come Bifo, parte dalla crisi della democrazia, dalla separazione tra
parlamento e società, tra paese virtuale e paese reale. La rappresentanza, dice, ha subìto una sorta di corto circuito, non riesce a garantire più la visibilità della protesta e del pensiero critico. La politica si è ridotta a governabilità. La democrazia a potere delle oligarchie. C’è spazio solo per il conformismo, per chi si accoda a pensare che non c’è altra via all’infuori del liberismo e della globalizzazione.
A differenza di Bifo, però, Cardini insiste sulla responsabilità dei partiti, sul loro aver abdicato a qualsiasi ruolo di autonomia dai poteri forti dell’economia. «Sono finiti i tempi della vecchia Repubblica. All’interno dei
partiti non c’è più traccia di dialettica tra vertice e base. Le segreterie fanno il bello e cattivo tempo». Colpa del
leaderismo, della personalizzazione alla quale i partiti non si sono sottratti. Ma una quota di responsabilità spetta anche agli apparati culturali, ai mass media, alla scuola, a tutti coloro che in qualche modo si rivolgono all’opinione pubblica. Siamo tutti coinvolti nella spoliticizzazione del senso comune, «ognuno dovrebbe sentirsi in dovere di risollevare il livello del dibattito pubblico. Dobbiamo spiegare che a forza di ripetere che la politica è cosa sporca, abbiamo finito per lasciarne il monopolio a chi davvero la vuole ridurre in sporcizia».
Le elezioni ci hanno consegnato un parlamento omologato. Pochi partiti oligarchici e simili fra loro quanto a programmi. E’ solo un problema elettorale?
Le segreterie dei partiti hanno espropriato il popolo italiano e la società civile della scelta dei propri delegati al parlamento. Il meccanismo delle preferenze era l’ultimo brandello, non trascurabile, di strumento democratico. Certo, anche quello non è un meccanismo perfetto perché non garantisce a tutti la pari opportunità di presentarsi come candidato. Entra in politica solo chi ha la possibilità e i mezzi economici per farlo. Nessun partito ha mandato in parlamento deputati invisi alle proprie segreterie, cosa che invece con le preferenze può anche accadere. La stessa Commissione episcopale italiana ha parlato di una grave svolta oligarchica. La dice lunga. Se poi a questo si aggiunge che all’interno di uno stesso gruppo parlamentare ci sono personaggi antitetici, ci accorgiamo davvero della crisi della rappresentanza politica. Cosa ci fanno, ad esempio, Ciarrapico e Fiamma Nirenstein nello stesso gruppo? Potrei anche citare anche altri casi.
La prova dello spostamento oligarchico è l’assottigliarsi in parlamento delle differenze fra destra e sinistra. Ci sono rovesciamenti paradossali, politici del Pd che esaltano la globalizzazione e personaggi del Pdl che la criticano, come Tremonti. Anche questo è un sintomo della crisi della rappresentanza. O no?
Non sono d’accordo con la risposta che Tremonti dà agli squilibri della globalizzazione. Lui propone il puro e semplice mercantilismo, il protezionismo. E’ inutile che lui parli della difesa del prodotto europeo. In linea di massima potrei essere d’accordo. Ma Tremonti che è persona competente sa meglio di me che non sono un economista, che la maggior parte del prodotto europeo si fa in realtà fuori dell’Europa. E lo si fa giocando su quello che una volta si sarebbe chiamato plusvalore. La produzione è stata spostata laddove la manodopera costa di meno. Proteggere un prodotto europeo che però viene fatto pagando a sottocosto i lavoratori dell’Est o dell’Asia, contro le merci che arrivano da fuori non sarebbe un rimedio ma un intervento che addirittura accrescerebbe la sperequazione del meccanismo globalizzatore. Detto questo il libro di Tremonti infrange il conformismo dei liberal-liberisti che domina a destra come a sinistra. Il liberismo è diventato come l’atlantismo, nessuno lo mette più in discussione.
La melassa delle idee rischia di alimentare l’antipolitica. Ma in questo non hanno qualche responsabilità gli stessi partiti che hanno annacquato qualunque residuo di ideologia critica?
Abbiamo un personale politico che, a detta di molti, viene pagato troppo. Non so se sia vero. Fatto sta però che i gruppi dirigenti dei partiti, nonostante il loro status, sono incapaci di autonomia nelle loro scelte. La classe politica è sempre più relegata a ruolo di esecutrice rispetto ai poteri forti, all’economia, alle lobbies, alle multinazionali, alla finanza. La politica perde autonomia. Altro che primato della politica come dicono alcuni! I vertici sono asserviti mentre il livello morale, culturale, professionale dei quadri medi è sempre più basso.
Ma la crisi della politica non è solo il risultato transitorio di un meccanismo elettorale balordo. Forse c’è un processo più profondo. Il conflitto sociale che un tempo era il corpo della politica oggi non non accede più alla rappresentanza. E al suo posto resta solo la governabilità, l’amministrazione dell’esistente. La cosiddetta semplificazione del sistema politico va di pari passo con questo processo. Non trova?
Oggi la chiamano governance, il termine inglese è più rassicurante. Suona più importante. Governabilità è un bell’eufemismo che sta a significare, in realtà, disciplina di gruppo. Le segreterie hanno scelto uno per uno i propri deputati. Certo, ci sono sempre stati favoritismi, amicizie, relazioni parentali, amiche e amichette. Ma oggi c’è un giro di vite. I deputati, per la maggior parte, non hanno credibilità, non hanno nessun legame con il loro elettorato. Molti di loro non hanno fatto neppure campagna elettorale e non si sono fatti vedere nella propria circoscrizione. Ma in cambio sanno benissimo che se sgarrassero verrebbero messi fuori senza tanti complimenti. Proprio perché non hanno peso possono essere scaricati dalle segreterie dei partiti dall’oggi al domani. Non sono mica come De Mita, per escludere il quale c’è stato bisogno di tempo e discussione. Se i nuovi deputati non dovessero essere rieletti in futuro, nessuno se ne accorgerebbe. E se anche vanno in giro a discutere nessuno li conosce. Sono anonimi. Così non era nelle passate legislature, per non parlare della vecchia Repubblica. C’era tutto un altro meccanismo, pensiamo alle tribune politiche o ai tanto vituperati comizi. A destra oggi si discute di congressi per sancire la nascita di un partito unico tra Forza Italia e An. C’è chi, come Alemanno, si oppone e preferisce una federazione elettorale al posto di una fusione fredda, di un atto d’imperio delle segreterie. E’ un ragionamento corretto, a mio parere. E’ normale che nei partiti ci debba essere una dialettica interna, che si debbano ascoltare le basi. O, meglio, una volta era scontato che i partiti dovessero funzionare così. Oggi non lo è più. E’ finita qualsiasi dialettica. E anche chi, in teoria, avrebbe una minima voce, per quanto flebile, come giornalisti e docenti universitari, è tagliato completamente fuori.
I partiti non possono chiamarsi fuori dalla crisi della politica e scaricarla semplicemente alla società civile. Ci sono responsabilità reciproche e specifiche. Per la propria parte i partiti hanno contribuito con involuzioni oligarchiche al proprio interno, con la personalizzazione e il leaderismo, con l’annullamento di ogni dialettica tra vertice e base. Come se ne esce a questo punto, ora che il parlamento e il paese reale non coincidono più?
Ho sentito molte persone, anche di destra, commentare con preoccupazione il risultato elettorale della sinistra. Possiamo anche dire che se l’è meritata questa sconfitta, certo. Però a nessuno sfugge il problema della mancanza di rappresentanza di una parte del paese. La cosiddetta sinistra radicale ha una sua base reale, un radicamento nella società. La domanda è: quale sarà il suo modo di fare politica ora che è uscita dal parlamento? C’è chi profetizza, con qualche timore, un ritorno alla piazza, al neomovimentismo, all’estremismo. C’è persino chi teme la recrudescenza del terrorismo. Non so se queste previsioni siano fondate. A ogni modo il problema è quale risposte diamo alla crisi della rappresentanza. Io non ho antidoti né verità pronte in tasca. Dico soltanto che l’espropriazione della politica e lo scadimento di qualità della classe dirigente è giunto a un livello di guardia così preoccupante che tutti coloro che si occupano di opinione pubblica – i giornali, i mass media, la scuola – devono farsi protagonisti di una battaglia culturale. L’unica soluzione è un ritorno alla politica dell’opinione pubblica. La gente si è spoliticizzata. Li sentiamo ogni giorno gli stereotipi, il ritornello più in voga è “la politica è una cosa sporca”. Ma a forza di pensarla così, a forza di disinteressarsene, abbiamo lasciato la politica nelle mani di chi davvero la riduce a cosa sporca. Questo dobbiamo ricominciare a dire. L’opinione pubblica non discute più. Ora non dico di voler tornare alle epiche campagne elettorali della guerra fredda, ma è possibile che dai dibattiti pubblici sia completamente scomparsa la politica estera? Sta sparendo la capacità di mettere in collegamento i problemi di politica interna – salari, sicurezza, casa, pensioni – con quello che accade nel mondo. La gente non discute più della crisi del petrolio, del problema dell’acqua, dell’urgenza fame, dei danni arrecati dai biocarburanti alla produzione agricola di beni alimentari e via dicendo. Tutte queste cose non hanno ripercussioni sulla nostra vita? E’ ovvio che questi processi mondiali metteranno in moto un esodo dai paesi del Terzo Mondo. E cosa dovrebbero fare per sopravvivere? Lanciare invettive contro l’immigrazione è come coprirsi gli occhi davanti a quello che succede nel mondo. Anzi, non se ne parla proprio dello scenario internazionale, non si parla della guerra, non si possono criticare le dirigenze dei governi israeliani, non mettiamo in discussione la permanenza delle nostre truppe in Libano. Nessuno ha il coraggio di discostarsi dall’atlantismo. L’unica via d’uscita è alzare il livello politico dell’opinione pubblica e uscire dal nostro giardinetto. Ci provi la scuola, ci provi l’università con quel poco che ancora è rimasto in piedi. Quanto ai giornali temo che siano inquinati da quei poteri che tengono in ostaggio la politica.
Tonino Bucci
Fonte: www.liberazione.it/
6.05.08
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