DI FRANCO BERARDI “BIFO”
facebook.com
Dedicando a Zuckerberg la sua famosa copertina, Time ha colto il nucleo profondo della condizione giovanile contemporanea, in cui solo un improbabile successo finanziario può offrire un’uscita dalla sofferenza psichica e materiale.
Capitalismo finanziario e lavoro precario, solitudine e sofferenza, atrofia dell’empatia e della sensibilità, impossibilità dell’amicizia e della solidarietà, sono i temi che emergono dal film di David Fincher The Social Network. Il film racconta la storia della creazione e della prima fase di lancio di Facebook: un’impresa nell’epoca del semiocapitalismo finanziarizzato, e al tempo stesso un’evoluzione decisiva di Internet. Ma nel film l’attenzione si concentra anche, e forse soprattutto sulle implicazioni psichiche dell’evoluzione della rete, in seguito all’accelerazione e all’intensificazione che l’avvento della banda larga ha reso possibile.
Amore amicizia affetto, l’intera sfera dell’emozionalità è investita dal cambiamento di ritmo dell’Infosfera che circonda la prima generazione che ha imparato più parole da una macchina che dalla mamma.
Anche se alcuni dettagli biografici, per esempio la fine di una storia d’amore che viene raccontata nella prima scena del film, non sono necessariamente tutti veri, a differenza della narrazione dei primi passi di Facebook e dei successivi conflitti legali, la finzione narrativa è utile per una piena comprensione della mutazione psichica e relazionale che coinvolge la vita sociale della forza lavoro cognitiva. Il personaggio principale della storia, Mark Zuckerberg, il giovane che ha lanciato sul mercato virtuale il network, potrebbe ovviamente essere descritto come un vincente: è il più giovane miliardario del mondo, proprietario di una compagnia che in pochi anni è divenuto il più importante sito del mondo con cinquecentomilioni di iscritti. Eppure è difficile vedere in lui una persona felice, e il film lo descrive come un perdente sul piano psichico e umano. L’amicizia sembra essere impossibile per lui, al punto che si è condotti a supporre che il successo del suo sito sia dovuto alla sostituzione artificiale dell’amicizia e dell’amore con protocolli standard.
Forse proprio perché la sua esperienza esistenziale l’ha reso esperto della sofferenza, l’alienazione contemporanea è perfettamente interpretata dalla creazione di Zuckerman, Facebook.
Il desiderio è spostato dal campo del contatto fisico e investito nel territorio astratto della seduzione simulata, nello spazio infinito dell’immagine. L’estensione illimitata dell’immaginazione disincarnata conduce alla virtualizzazione dell’esperienza erotica, alla fuga infinita da un oggetto all’altro. Valore, danaro, eccitazione finanziaria sono la forma perfetta della virtualizzazione del desiderio. La mobilitazione permanente delle energie psichiche nella sfera economica è al tempo stesso causa ed effetto della virtualizzazione del contatto. La parola stessa “contatto” viene a significare esattamente il contrario di quello che significa: non più percezione epidermica della presenza sensuale dell’altro, ma intenzionalità puramente intellettuale, conoscibilità virtuale dell’altro. La virtualizzazione del desiderio provoca un effetto patogeno di fragilizzazione della solidarietà sociale e del sentimento empatico.
Infelicità esistenziale e successo commerciale sono i due lati indissociabili dello stesso fenomeno: Zuckerberg appare così abile nell’interpretazione dei bisogni psichici insoddisfatti della sua generazione, perché la solitudine e la frustrazione affettiva sono prima di tutto una caratteristica inerente al processo stesso di creazione dell’impresa. Il genio di Zuckerberg sembra rivelarsi soprattutto nell’abilità di mettere a frutto (potremmo forse dire di sfruttare) l’energia della folla, e della sofferenza collettiva: l’energia che proviene dal lato oscuro della moltitudine.
L’idea originaria del sito non è di Zuckerberg, come sappiamo dall’esito dei processi che gli hanno imposto di pagare una grossa somma (seppur minuscola rispetto al valore che i mercati attribuiscono oggi a Facebook). L’idea gli è stata suggerita da due ricchi gemelli harvardiani che volevano assumerlo come programmatore. Zuckerberg finge di lavorare per realizzare il loro progetto e in realtà crea un sito che, pur partendo dalla loro idea, ha una potenza comunicativa molto maggiore, proprio perché si inserisce sui bisogni psichici prodotti dall’alienazione di massa. Questo vuol dire che il programmatore ha rubato qualcosa a coloro che lo vogliono assumere come dipendente? Sì e no. In effetti nella rete è impossibile distinguere in maniera netta i diversi momenti del processo di valorizzazione, perché la forza produttiva della rete è collettiva, mentre i profitti sono privati. E’ qui all’opera l’insanabile contraddizione tra collettività produttiva in rete e appropriazione privata dei suoi prodotti, che mina alle fondamenta l’edificio del semiocapitale, e Fincher la descrive a modo suo.
Il film propone anche una visione del lavoro nell’epoca della precarietà. La parola “precario” significa aleatorio, incerto, instabile, e non si riferisce soltanto all’incertezza del rapporto di lavoro, ma anche alla frammentazione del tempo e alla incessante deterritorializzazione dei fattori della produzione sociale. Sia il lavoro che il capitale, in effetti, non hanno più una relazione stabile con il territorio e con la comunità. Il capitale fluisce nei circuiti finanziari e l’impresa non è più fondata sulla produzione e il possesso di beni materiali ma di segni, idee, informazione, conoscenza e scambio linguistico.
Questo significa che l’impresa non è più legata al territorio e il processo di lavoro non è più fondato sulla compresenza quotidiana di una comunità di lavoratori. Il processo di lavoro diviene una ricombinazione continua di frammenti di tempo connessi nella rete globale. I lavoratori non si incontrano ogni giorno nello stesso luogo, ma rimangono soli nei loro cubicoli iperconnessi, a rispondere alle richieste delle varie imprese per cui lavorano o consumano. Il capitalista non è più impegnato a firmare un contratto per poter sfruttare l’energia produttiva del lavoratore durante la sua intera vita, non compra più insomma la disponibilità intera del lavoratore, ma semplicemente acquista un frammento di tempo disponibile, che possiamo definire tempo frattale, in quanto compatibile con i protocolli di interoperatività, e ricombinabile con altri frammenti di tempo.
Il lavoratore industriale sviluppava un sentimento di solidarietà coi suoi compagni perché li conosceva come membri della sua comunità esistenziale, e perché condivideva i loro interessi, mentre il lavoratore cognitivo in rete è solo e incapace di solidarietà perché ciascuno è costretto a competere sul mercato del lavoro e poi nella gara costante per le opportunità di salario precario.
Questo tipo di solitudine e di miseria psichica non caratterizza solo la vita del lavoratore, ma anche quella dell’imprenditore, perché dal punto di vista lavorativo il confine che separa lavoro e impresa è confuso, indefinito. Anche se il reddito di un dipendente è cento (o cinquecento) volte inferiore al reddito dell’imprenditore, il modo in cui Mark Zuckerberg vive la sua giornata di lavoro non è molto dissimile dal modo in cui la vivono i suoi dipendenti. Tutti quanti si siedono davanti al computer e digitano sulla tastiera. La miseria esistenziale li accomuna.
Zuckerberg ha un amico, all’inizio del film, uno solo: Edouard Severin, che con diciannovemila dollari accetta di farsi finanziatore dell’impresa. Severin crede che l’amicizia lo metta al riparo dalle brutte sorprese che la concorrenza riserva spesso a chi si muove nei circuiti del capitalismo finanziario. Sbaglia: e non appena un grosso gruppo finanziario investe sul network quando è il suo successo è già garantito, Zuckerberg non esita a cacciare colui che lo aveva aiutato nella fase più difficile, anche se è il suo unico amico.
Pur parlandoci di un imprenditore miliardario il film coglie il senso dell’attuale condizione del lavoro, non meno che la violenza del capitale finanziario. Parla cioè dell’impossibilità dell’amicizia in una condizione di astrazione virtuale della comunicazione, e dell’impossibilità di costruire solidarietà in una società che trasforma la vita in contenitore astratto di frammenti di tempo in competizione.
Franco Berardi “Bifo”
Fonte: http://www.facebook.com/
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9.02.2011