DI FEDERICO DEZZANI
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Sei mesi decisivi per l’egemonia atlantica
L’Occidente è entrato in una fase cruciale per il suo futuro. O meglio, considerato che l’Occidente in termini geografici sopravviverà imperturbabile fino alla notte dei tempi, è l’attuale architettura politica che controlla i due lati dell’Atlantico ad essere entrata in una fase cruciale: il sistema euro-atlantico, d’ora in avanti, lotta per la sua sopravvivenza.
L’angoscia che attanaglia le élite atlantiche è per certi versi simile a quella vissuta dalla classe dirigente europea tra la prima e la seconda guerra mondiale: si avverte chiaramente come un’epoca stia finendo ed un mondo, ancora funzionante dal punto di vista formale, sia in realtà in rapida decomposizione. Capita così che il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, uno dei massimi alfieri dell’atlantismo, evochi con riferimento alla Brexit la fine della civiltà occidentale, un tema già sviluppato dal filosofo tedesco Oswald Spengler tra gli anni ’20 e ’30 del XX secolo. Sono affermazioni, quelle di Tusk, del tutto autoreferenziali, perché il collasso dell’Unione Europea e dell’Alleanza Nord Atlantica implicherebbe la fine solo delle oligarchie cui appartiene l’ex-premier polacco, non certo dei popoli europei che, al contrario, potrebbero finalmente rifiatare e riacquistare spazi di manovra.
La crucialità del momento nasce dall’accavallarsi di una molteplicità di consultazioni elettorali e dal concomitante deteriorarsi dell’economia, negli USA come nell’eurozona: si comincia con il referendum inglese sulla permanenza nella UE e si termina con le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, mentre il rialzo del tassi da parte della FED è procrastinato sine die e l’eurozona si dibatte ancora nella deflazione, a distanza di 15 mesi dall’avvio dell’allentamento quantitativo della BCE. Una vittoria degli anti-europeisti al referendum inglese, un successo di Donald Trump alle presidenziali, il ritorno dell’eurozona in recessione, rischiano di infliggere il colpo di grazia alla già traballante impalcatura atlantica.
Le contromisure adottate dall’establishment in questi frangenti, benché apparentemente molto diverse fra loro, sono riconducibili ad unico, comune, denominatore: incutere paura. Si minaccia l’opinione pubblica inglese di recessione e pesanti sacrifici economici nel caso cui il Regno Unito uscisse dalla UE, si assaltano i mercati finanziari europei per scongiurare l’eventualità che altri Paesi indicano referendum analoghi, si dipingono scenari a tinte fosche qualora si affermassero i candidati “populisti”.
Gli effetti sull’elettorato sarebbero però modesti senza l’apporto dell’ingrediente più esplosivo: il terrorismo. Bombardando l’opinione pubblica con notizie, immagini e video di stragi compiute nei luoghi della quotidianità (aeroporti, stazioni ferroviarie, discoteche, stadi, quartieri della movida, etc. etc.) si ottiene un duplice risultato: si distoglie l’attenzione dalle criticità economiche e si genera domanda di normalità e sicurezza, a discapito delle formazioni anti-establishment ed a vantaggio dei partiti tradizionali, difensori dell’ordine vigente.
Non è quindi un caso se l’inizio di questa fase delicatissima sia stato scandito da due attentati compiuti a distanza di nemmeno 48 ore l’uno dall’altro, il primo negli Stati Uniti ed il secondo in Francia, entrambi perpetrati ufficialmente dallo Stato Islamico. Dire “ISIS” equivale a dire “servizi israeliani ed angloamericani” e sul perché Tel Aviv, Washington e Londra svolgano un ruolo così attivo nella strategia della tensione che sta insanguinando l’Europa, già ci soffermammo in occasione degli attentati di Bruxelles: l’Unione europea rappresenta il “contenitore geopolitico” dentro cui è racchiuso il Vecchio Continente e la sua sopravvivenza è di vitale importanza per piegare i 28 membri ad unica volontà (quella atlantica), come hanno dimostrato in questi anni i casi delle sanzioni economiche all’Iran ed alla Russia.
L’attentato dell’11 giugno (firma inequivocabile) al locale omosessuale di Orlando, Florida, è la sanguinosa ouverture della strategia della tensione che accompagnerà l’Occidente per i prossimi mesi. Omar Mateen, cittadino 29enne americano di origine afgane, persona “non stabile” secondo l’ex-moglie, inserito dall’FBI in una lista di possibili simpatizzanti dell’ISIS, figlio di un predicatore estremista, già guardia giurata per la società di sicurezza G4S, chiama il 911 asserendo di aver giurato fedeltà all’ISIS, quindi, armato di una pistola e di un fucile mitragliatore AR-15, irrompe in una discoteca, seguendo il copione già sperimentato al Bataclan lo scorso novembre. Muoiono 50 persone, la peggiore strage con armi da fuoco negli Stati Uniti (il rapporto 7 attentatori per 130 vittime del Bataclan -1:18- raggiunge così l’incredibile livello di 1:50) e, distanza di poche ore, l’immancabile SITE diretto dall’israeliana Rita Katz scova la rivendicazione dello Stato Islamico.
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