DI CARLO BERTANI
“Questo mucchio di cadaveri proclama un macello.
O orgogliosa Morte! Quale festa si prepara nell’eterno tuo antro, che
tanti principi a un sol colpo così sanguinosamente hai abbattuto?”
William
Shakespeare – Amleto
Dopo
la sconfitta elettorale di George W. Bush, qualcuno potrebbe essere
persuaso che i rischi per la pace planetaria siano drasticamente
ridotti, come se il Presidente americano fosse l’unico artefice della
strategia globale di guerra, finalizzata a definire i nuovi rapporti
economici internazionali ed il conseguente accaparramento delle risorse
energetiche.
Oggi, dicembre 2006, assistiamo al crollo del castello di carte
costruito dai neocon
americani: Rumsfeld ha lasciato il Pentagono e Bolton l’ONU. Due
importanti pedine dell’amministrazione di destra americana sono state
sacrificate ai democratici dopo la sconfitta elettorale, ma non cadiamo
nell’errore di credere che Baker ed i democratici chiamati al
“capezzale” dell’Iraq siano delle colombe.
Giustamente,
il Ministro italiano degli Esteri D’Alema ha scorto in quei mutamenti
interni agli Usa il passaggio dall’unilateralismo dei neocon
ad una nuova fase, più vicina al multilateralismo che fu di Clinton.
Non dimentichiamo, però, che quella fase – nella quale Europa e Stati
Uniti furono più vicini per gestire i destini del pianeta, come nei
Balcani – fu anch’essa una stagione di guerra, anzi: proprio nei
Balcani iniziarono ad essere evidenti alcune fratture fra gli Usa e
la Francia
,
la Russia
e
la Cina.
Ricordiamo
che – appena sette anni or sono – diciotto aviazioni europee più
quella statunitense non esitarono a bombardare
la Serbia
per due mesi, dove furono uccisi dalle bombe della NATO 1.200 civili
serbi.
Il grande sogno americano di dominare solitari il pianeta è dunque
andato in frantumi: non per questo, però, possiamo credere che
Washington ceda le armi e s’appresti a chiudersi in sé stessa, ossia
a varare una nuova fase isolazionista. Nel pianeta della globalizzazione
dei mercati, chi si ferma è perduto.
I
prossimi due anni della presidenza Bush – il cosiddetto “regno
dell’anatra zoppa” – saranno utilizzati per ricostruire i rapporti
fra le due rive dell’Atlantico: consapevoli di non poter raggiungere
l’obiettivo in completa solitudine, gli Usa cercheranno nuove alleanze
per realizzare i medesimi risultati.
D’altro canto, nemmeno l’Europa desidera che gli Stati Uniti abbandonino
lo scenario geopolitico mondiale: l’assenza di Washington dalla scena
comporterebbe per Bruxelles un impegno che l’Europa, oggi, non è in
grado di reggere.
Cosa
possiamo ragionevolmente attenderci dalla nuova situazione?
Se Washington, come sembra, abbandonerà le posizioni unilaterali
sposate negli ultimi cinque anni – e sarà disposta ad accettare dei
compromessi che riguardano soprattutto la partita mondiale dell’energia
– l’Europa sarà obbligata a cercare dei compromessi politici interni
a tutti gli stati dell’Unione – di qualsiasi tipo sia il governo, di
destra o di sinistra – per raggiungere un punto d’incontro con gli
Usa.
Non
a caso, proprio negli stessi giorni, l’UDC si smarca dall’alleanza
di centro destra e si rende disponibile per nuovi scenari: no a Prodi ma
“nessuna preclusione” (parole di Casini) nei confronti di Massimo
D’Alema.
Il vecchio professore non potremmo mai accettarlo – sembra raccontare
Casini – perché legato ad un’idea d’Europa che mantiene una
sostanziale indipendenza dalle scelte USA: il “bombardiere di
Belgrado”, invece – per aver dimostrato in quell’occasione tutta
la sua spregiudicatezza – consentirebbe quel governo di “larghe
intese” senza l’estrema sinistra, il quale troverebbe ampio consenso
nei nuovi Stati Uniti “liberati” dall’ingombrante presenza di Bush.
Il
nuovo scenario sposta alle calende greche tutte le fumose ipotesi di “Eurasia”,
ossia alleanze strategiche di lungo periodo con
la Russia
ed altri partner orientali (non del tutto sgradite a Prodi): un’Europa
isolata non può correre il rischio di future alleanze strategiche tra
Washington e
la Cina
, l’India, la stessa Russia.
Il
terremoto politico conseguente alle elezioni di medio termine americane
e dunque qualcosa di più della semplice sconfitta di Bush, bensì è un
importante giro di boa nei rapporti politici internazionali.
Uno dei frutti della politica unilaterale americana è stato senz’altro
il rafforzamento del cosiddetto “asse orientale”, ossia dei paesi
appartenenti al patto di Shanghai, che negli ultimi mesi ha assunto
sempre di più la forma di un nuovo “patto di Varsavia” in chiave
antiamericana.
Una
forte alleanza orientale spaventa Bruxelles, al punto che alcuni stati
europei – Francia e Italia in primis – non hanno esitato ad inviare i propri contingenti di
truppe in Libano per “raffreddare” una situazione che appariva
sempre più problematica per Israele e, in definitiva, per gli Stati
Uniti stessi.
Consapevoli dello sforzo compiuto dall’Europa per venire in loro
soccorso dopo la sciagurata guerra in Libano, gli USA oggi affermano –
per bocca del nuovo Segretario alla Difesa, Gates – che una guerra
contro
la Siria
“non è più in agenda” ed un eventuale scontro con l’Iran è da
ritenere “molto improbabile”, una soluzione “da ultima
spiaggia”. Miele, per le orecchie europee.
In
altre parole, sia a Bruxelles e sia a Washington ci si è resi conto
d’essere andati troppo oltre nello scontro con il “blocco
orientale”: ne sono testimoni i molti accordi commerciali e
soprattutto militari fra Mosca, Pechino, Nuova Delhi e Teheran.
L’ostinazione di Bush nei confronti dell’Iraq e dell’Afghanistan ha
addirittura permesso all’America Latina di smarcarsi dal perfido gioco
che la relegava ad essere soltanto il cortile sul retro degli Stati
Uniti: Venezuela e Bolivia viaggiano oramai verso scenari da socialismo
reale, mentre l’Argentina – dopo la grave crisi economica – guarda
anch’essa con scarsa fiducia verso Washington. Non possiamo però
nasconderci che il vero “regista” del distacco del continente
sudamericano da quello nordamericano è il presidente brasiliano Lula,
che è alla guida dell’economia più dinamica del continente: ad oggi,
l’unica nazione che sembra ancora conferire fiducia a Washington è
la Colombia.
Una
situazione nella quale le periferie del pianeta stanno sfuggendo al
controllo del centro il quale, a sua volta – proprio a causa delle sue
divisioni – non ha più potenti strumenti economici e militari per
riconfermare una sorta di controllo neocoloniale sul cosiddetto terzo e
quarto mondo.
Si tratta – per Bruxelles e per Washington – di un gioco che è
giunto ad una soglia molto pericolosa: oltrepassato un confine, potrebbe
non essere più possibile ricostruire il gioco di alleanze edificato
dopo la seconda guerra mondiale; quelle alleanze che consentirono di
raccogliere, ancora per molti anni, i frutti della passata stagione
coloniale.
L’obiettivo
del prossimo biennio sarà dunque quello di raffreddare la corsa del
prezzo del petrolio, per non vanificare i frutti di una debolissima
crescita economica: potremmo anche ragionevolmente attenderci interventi
sui cambi, per rallentare la corsa dell’euro e scongiurare un eventuale
crollo della moneta americana.
Una nuova stagione d’amore attende quindi Bruxelles e Washington, una
fase nella quale saranno rivisti e riconsiderati i molti accordi –
finanziari, industriali, militari – che la politica unilaterale di
Bush aveva mandato in frantumi.
Tous
va bien, allora? Sono definitivamente scongiurati i rischi di
un’esplosione in Medio Oriente? La corsa militare per accaparrarsi i
pozzi di petrolio appartiene oramai al passato? Il sogno del Nuovo Medio
Oriente è definitivamente svanito?
Non
è un caso se il piano appena redatto per uscire dall’Iraq, con la
partecipazione dei democratici, prevede il definitivo sganciamento dallo
scenario iracheno per il 2008: guarda caso, l’anno nel quale si terranno
negli Stati Uniti le prossime elezioni presidenziali.
Il 2008, però, non sarà un anno di cambiamento nei soli Stati Uniti:
non sappiamo chi sarà (e se ci sarà) un nuovo inquilino al Cremlino;
inoltre, anche all’Eliseo ci sarà un nuovo presidente (o
presidentessa).
Difficile
prevedere quali vie prenderà la politica cinese e quale coalizione
governerà in India: possiamo soltanto ragionevolmente ipotizzare che
dopo il 2008 prenderanno il via nuovi grandi giochi della politica
internazionale.
Se cambiano gli uomini, le coalizioni e i governi gli obiettivi non
mutano: nell’area del Golfo Persico è concentrato di 63% delle riserve
petrolifere mondiali, pari a circa 50.000 miliardi di dollari, cinque
volte il PIL USA. Il gas naturale è invece suddiviso
approssimativamente per un terzo nel Golfo, un altro terzo in Russia ed
il rimanente nel resto del pianeta.
In un fazzoletto di terra e mare relativamente ristretto, c’è la
“cassaforte” petrolifera del pianeta, soprattutto se consideriamo
che il rimanente 37% è disperso nel resto dei cinque continenti.
Può
l’Europa non essere interessata al petrolio del Golfo Persico? No, non
può perché l’estrazione nel Mare del Nord durerà ancora pochi anni
e poi la “baracca” sarà chiusa per l’esaurimento dei pozzi.
Stessa situazione negli USA e nel resto del pianeta: se non sono già
scoppiate grandi guerre per il petrolio è soltanto perché il 37% del
resto del pianeta fornisce ancora sufficiente estrazione di greggio,
tale da compensare una politica troppo “invadente” dell’OPEC e dei
paesi del Golfo.
La questione, però, non interessa soltanto il Medio Oriente: negli
ultimi anni abbiamo constatato la sempre maggior insofferenza alle
ingerenze USA d’alcuni paesi sudamericani, il loro allontanarsi da
Washington. Dal Venezuela alla Bolivia, dall’Argentina all’Ecuador,
ciò che muove grandi interessi economici contrastanti non è la
questione della coca, bensì – più semplicemente – il controllo
delle risorse energetiche di quei paesi.
Anche
le attuali tensioni in Nigeria sono soltanto l’incresparsi di un mare
che testimonia sotterranei sommovimenti: l’ingresso prepotente dei
cinesi in quelle aree – s’accaparrano stock di petrolio senza
sottilizzare troppo sul prezzo – e la sempre maggior importanza di
Gazprom (primo gruppo, a livello mondiale, dell’energia) che muove i
suoi tentacoli anche in Africa.
Se non bastava l’invasione dei prodotti orientali sui mercati
occidentali, le stesse nazioni orientali si stanno muovendo nel pianeta
per competere con i tradizionali gestori del mercato energetico e –
grazie ai loro consistenti mezzi economici – stanno prendendo il
sopravvento.
L’importanza
di questi eventi farebbe pensare che l’Europa e gli USA abbiano
“regalato” alla Russia ed ai paesi orientali – a causa della miope
politica di Bush – un vantaggio troppo consistente per tentare un
recupero che non contempli l’uso delle armi.
Ovviamente, altri fattori condizionano il quadro: il recente “via
libera” all’ingresso della Russia nel WTO – “ingoiato” come un
rospo da Bush durante il recente convegno dell’ASEAN ad Hanoi –
significa probabilmente il ritorno della quotazione del rublo sui
mercati internazionali (auspicata da Putin), che condurrà probabilmente
al pagamento del gas siberiano in moneta russa (e quindi al suo
apprezzamento nei confronti del dollaro).
Proprio
i consistenti stock di dollari che detengono Cina e Russia sono un altro
“jolly” che non sappiamo come, quando e se sarà giocato: in un
quadro di deprezzamento della moneta americana rispetto all’euro, la
vendita di quegli stock significherebbe un’ulteriore “tegola” che
ricadrebbe su Washington.
In
definitiva, “l’era Bush” sarebbe dovuta finire prima – con le
elezioni del 2004 – ma non sapremo mai se le infernali macchinette
elettorali della Diebold – schierate, a quanto pare, per Bush – non
abbiano finito per favorire una ristretta classe dirigente e,
contemporaneamente, per affossare un paese.
L’esigenza d’uscire dall’impasse è quindi essenziale per gli USA,
ma se a Washington si piange a Bruxelles non si ride: questo è il
grande rischio che correremo, un’alleanza che nasce dalla
disperazione.
Nessuno
dei paesi europei – uniti o divisi – è in grado di reggere il ritmo
al quale viaggiano le “locomotive” asiatiche: né
la Germania
e né il Giappone possono nemmeno lontanamente pensare d’imitare gli
apparati produttivi asiatici.
Se non bastava la grande produzione industriale cinese, non
dimentichiamo che l’economia indiana si basa più sul know-how che
sulla produzione materiale: un “mix” vincente per l’Oriente che
consente ristretti margini di manovra all’Occidente.
Anche
la situazione finanziaria – con centinaia di miliardi di dollari che
riposano nelle casse statali dei paesi asiatici – non consente ricatti
né “giochetti” d’alta finanza per recuperare il tempo (ed il
predominio) perduto.
Una superiorità – è bene ricordarlo – che non affonda nella notte
dei tempi: i cinesi inventarono la polvere da sparo e fino al 1.400
circa ci superarono nella produzione di metalli, particolarmente di
quelli ferrosi.
L’handicap
della Cina fu la dispersione del potere – una grande nazione con un
“centro” debole – ma oggi sembra che abbiano proprio superato quel
problema: l’unica grande nazione extraeuropea che non fu mai
colonizzata, oggi presenta il conto alle ex potenze coloniali.
Molti analisti davano per scontata una guerra contro l’Iran: pur non
potendola escludere a priori, non ci ho mai creduto molto ed ebbi il
coraggio di scriverlo.
Una eventuale guerra all’Iran ed alla Siria avrebbe testimoniato la
capacità statunitense di dominare ancora sulle mille tensioni (ed
istanze) del pianeta. Così non è stato, e la “piccola” guerra in
Libano ha avuto di certo un notevole influsso sulle scelte
dell’amministrazione USA.
Non
per questo, però, possiamo considerare la questione come
definitivamente conclusa: è del tutto evidente – oramai anche
all’informazione ufficiale, che a fatto finta per molto tempo di non
accorgersene – che la vittoria è stata sì di Hezbollah,
ma soprattutto dei suoi sponsor – Siria ed Iran – ed in definitiva
dei loro protettori, Russia e Cina.
Tutto ciò cambia soltanto i tempi ed il livello dello scontro, non la
sostanza: Cina ed India continuano a macinare miliardi producendo beni
di consumo e tecnologia,
la Russia
fornendo tecnologia militare ed energia.
Dall’altra
parte, ogni anno che passa sono sempre di più le aziende che si vedono
surclassate da prodotti orientali: due guerre mondiali – non
scordiamolo – sono state combattute per non consegnare alla Germania
l’egemonia nella produzioni di beni d’alta tecnologia. La chimica,
ancora oggi, parla tedesco e le uniche autovetture che mantengono
sostanziali e stabili quote di mercato sono quelle tedesche.
Un’Europa vecchia, a causa della sua asfittica demografia, non riesce
nemmeno ad accettare costanti flussi migratori per cercare di mantenere
almeno stabile il rapporto fra le generazioni. Un’America credulona e
sempliciotta torna invece ad interrogarsi sulle sue domande senza
risposta: un gigante umiliato, dal Vietnam all’Iraq, che non riesce a
trovare un perché.
Ci
chiediamo cosa contengano gli accordi segreti di cooperazione in campo
militare stipulati fra il governo Berlusconi ed Israele: novità
eclatanti? Può darsi: personalmente, mi rammentano il “raggio della
morte” mediante il quale il fascismo vagheggiava di vincere la guerra
mondiale, o la bomba atomica di Hitler.
Le uniche certezze che consentono di confrontarsi nello scacchiere
internazionale sono quelle che derivano dalla capacità di produrre beni
e servizi in grado di conquistare i mercati: tutto il resto sono
soltanto balle.
Non
esistono società post-industriali nell’attuale sistema economico
mondiale: sono soltanto società decadenti che sopravvivono alla belle e
meglio, fin quando un qualsiasi Fortebraccio non deciderà d’entrare
in Elsinore.
Dalla “alleanza dei volonterosi”, che doveva affiancare Bush in
Iraq, si passerà probabilmente all’Armata Brancaleone dei desperados
che cercherà di contrastare – nei prossimi decenni – lo strapotere
orientale.
Potrebbe,
una decisa inversione di tendenza in campo energetico, mutare la
situazione?
Il passaggio alle energie rinnovabili avverrà certamente, poiché alla
fine il petrolio terminerà, ma non sarà decisivo per le sorti dello
scontro epocale verso il quale stiamo viaggiando. Fino ad oggi non sono
mai decollate perché non garantiscono un sufficiente livello di
controllo; troppo grande il rischio del “fai da te” in campo
energetico: per il calcolo del “sacro PIL”, come la mettiamo?
La
grande occasione perduta – se mai ci fu – sarebbe stata il passaggio
da un sistema di produzione che favoriva l’accumulazione dei capitali
ad un altro, che avrebbe dovuto consegnare nelle mani di molti le
decisioni economiche: in altre parole, produrre beni utili e non vuota
ricchezza.
Quel meccanismo economico chiamato capitalismo – che ebbe il grande
merito di farci uscire dalle carestie e dalla grande scarsità di mezzi
economici del Medio Evo – oggi è una macchina impazzita che deve
creare sempre nuove schiere di consumatori e posti di lavoro, mentre
l’uomo necessita di un insieme finito di beni e servizi. Le
distruzioni di beni alimentari, eseguite per “non far crollare il
prezzo”, insegnano.
Siamo
giunti all’assurdo di non poterci più permettere delle reali cure
ospedaliere per non mandare all’aria il bilancio statale: crepiamo
malati, ma la cassaforte rimane intonsa. Molière preannunciò secoli fa
con una metafora – ne “L’Avaro” – la nostra triste ed assurda
situazione.
Eppure, quel semplice meccanismo economico – uno dei tanti fra i quali
l’umanità può scegliere – si è man mano secolarizzato al punto da
diventare un dogma: se oggi proponi una società dove si produce quel
che serve – e non ciò che consente d’accumulare capitali – non
vieni tacciato soltanto d’essere un comunista, sei considerato un
pazzo.
Anche
le mille alchimie sul valore delle merci – ricordo, a chi crede che
l’abolizione del signoraggio sulle monete sarebbe il toccasana per
tutti i mali, che già Marx ne parlò abbondantemente nel
“Capitale”, accusando di quella truffa
la Banca
d’Inghilterra – non mutano il quadro di fondo. Pur essendo
consapevole della truffa sul valore delle monete, essa non è altro che
il simulacro di un reato ancora più vergognoso che viene perpetrato nei
confronti delle nostre stesse vite: l’appropriazione e la
mercificazione della vita stessa, reato incommensurabilmente più grave
di qualsiasi truffa operata con la carta moneta.
Se
non vogliamo finire nel buio pozzo del nuovo grande scontro per il
predominio sul pianeta – la vera terza guerra mondiale – non basta
cambiare il sistema d’approvvigionamento energetico, non è
sufficiente riappropriarci del valore delle monete, bisogna riaffermare
con forza che l’uomo è in grado di gestire gli eventi economici
programmandoli, e non si venga a dire che perché una masnada di
gerarchi con la stella rossa non ci è riuscita ciò non è possibile.
Si fanno forti del fallimento dell’URSS per mascherare la verità,
ossia che il capitalismo ha anch’esso le gambe molto, molto corte ed
inciampa oramai ad ogni piè sospinto: in definitiva, anche un greco od
un romano vi avrebbero riso in faccia se aveste proposto l’abolizione
della schiavitù.
Nei
prossimi mesi, quindi, attendiamoci grandi sorrisi e profonde
“aperture” nei confronti della nuova classe politica americana –,
mi creda, contessa, così diversa dal quel bifolco vestito a festa di
Bush… – e già si preparano grandi festeggiamenti per le nuove
aperture “democratiche”, da una sponda all’altra dell’Atlantico.
Il nuovo progetto non si chiamerà più “Nuovo Medio Oriente” bensì
“riappacificazione” del Medio Oriente o qualcosa di simile: e chi
non ci starà? Beh…per chi è proprio “contro la pace”…anche una
guerra – piccina, per carità, insignificante – è giustificata…
Mio
Dio, che puzzo di morte si respira nei proclami dei pacifisti
professanti della politica nostrana, quale inganno mortifero si nasconde
dietro alle nuove, grandi “volontà di pace”! E’ proprio vero che
la via dell’Inferno è lastricata di buone intenzioni.
Carlo
Bertani
[email protected]
www.carlobertani.it
17.12.2006