DI GABRIELE ADINOLFI
Noreporter
Crisi dei marines britannici rapiti: Iran, Usa, Israele: tra confluenze geostrategiche e contraddizioni belliche
Cosa accade in Iran? Perché gli iraniani hanno catturato quindici marinai britannici e si rifiutano di scarcerarli rischiando così un pericoloso braccio di ferro con l’Occidente?
Che c’è di vero nell’ipotesi di una guerra americana all’Iran che, secondo i calcoli di Blondet dovrebbe iniziare il prossimo Venerdì Santo, 6 aprile?
Perchè gli americani si sono messi da un mese in qua ad alzare la voce contro quelli che in Iraq hanno fornito loro il maggior supporto in uomini d’occupazione, in torturatori di iracheni, in alleati militari?
Partiamo da un’analisi quella del leninista Fulvio Grimaldi, espressa l’anno scorso (marzo 2006) nel suo website Mondocanearchivio, un’analisi sostanzialmente perfetta.
Confluenze geostrategiche e contraddizioni
Fulvio Grimaldi scriveva un anno fa: “Sarebbe consigliabile che molti compagni, prima di entusiasmarsi per la ‘militanza antimperialista’ di Tehran, prendessero leninisticamente in considerazione contraddizioni e confluenze. La contraddizione è evidente: l’Iran, Israele e gli USA si contendono tutti e tre l’egemonia regionale e il controllo delle rotte strategiche, militari, economiche, della droga, rotte che si spingono fino in Afghanistan e oltre. Questa contraddizione potrà un giorno esplodere in un conflitto, ma per ora è frenata da prioritarie confluenze geostrategiche. La prima preoccupazione di Tehran, Israele e USA, e quindi dei loro ascari in Iraq (Al Sadr, Chalabi, Al Jaafari, Talabani e co.) è di soffocare, con genocidi e progetti di Grande Medio Oriente, la rinascita del nazionalismo panarabo come è latente nelle masse dal Marocco al Golfo e come è oggi attualizzato dal formidabile ruolo assunto dalla Resistenza armata irachena, perlopiù guidata da un partito che mantiene l’unificazione araba e l’antimperialismo laico al primo posto del proprio programma politico. (…)
Lo scontro tra le varie fazioni in campo tra i due fiumi è uno scontro per il primato in una strategia che ha lo stesso fine antinazionale e nel quale USA e Israele cambiano via via i patrocini con il classico intento di non far emergere una forza dotata di eccessiva autonomia. Nell’attuale contesa per il premierato fantoccio si intravede un’ulteriore ragione per lo spostamento di statunitensi e israeliani verso le ambizioni di curdi e laici. Il Curdistan iracheno trabocca di agenti israeliani. Parecchi di questi si trovavano a bordo dell’elicottero tedesco precipitato sul confine con l’Iran un mese fa. Sponsor tradizionali dei secessionisti e narcotrafficanti Barzani e Talabani, gli israeliani hanno un interesse particolare per sostenere le rivendicazioni curde, sia di indipendenza, sia sul petrolio di Kirkuk. Da anni addestrano e armano le bande di peshmerga curdi impegnate nella pulizia etnica antiaraba e antiturcomanna a Kirkuk, Mosul e in tutto il nord. A parte l’interesse allo spezzettamento dell’Iraq, massimo nemico storico, Israele tiene in modo particolarissimo all’oleodotto Kirkuk-Haifa, autentico cordone ombelicale energetico da riattivare (e che, per inciso, comporta, per il suo passaggio attraverso la Siria, il cambio di regime a Damasco che, attraverso le manovre terroristiche e “arcobaleno” in Libano, si sta perseguendo).”
Lo smembramento dell’Iraq
Un anno fa secondo Grimaldi le “confluenze strategiche” erano nettamente superiori alle “contraddizioni” determinate dalla contesa da parte dei tre compari (Usa, Israele e Iran) del bottino (il controllo delle rotte strategiche, militari, economiche, della droga). In un anno le cose sono cambiate sensibilmente anche se, forse, ancora non in modo determinante. L’Iran ha moltiplicato il doppiogiochismo in Iraq, sostenendo con una mano il governo fantoccio dei trafficanti di droga che la “guerra di liberazione” americana ha installato a Baghdad al posto dei legittimi governanti impiccati dopo un processo burla dal quale sono stati eliminati (anche fisicamente) gli avvocati difensori, e con l’altra numerose formazioni di resistenza sciita antigovernativa. Con cinico realismo Teheran ha appoggiato, e ha cercato di orientare a modo suo, il piano folle di spartizione dell’Iraq partorito dai cervelloni di laboratorio americano. Detta spartizione, basata sulla disinvolta lettura che si suol fare delle teorie di Huntington sullo “scontro di civiltà” prevede la nascita di tre stati in Iraq. Due di morfologia religiosa: uno sunnita, uno sciita e uno di tipo essenzialmente etnico: lo stato curdo. Quel che sembra scontato per i professoroni di Harvard lo è un po’ meno nella realtà. Si pensi che quando nel 1980 l’Iran dapprima causò la crisi con l’Iraq con la rivendicazione dello Shatt el Arab e quindi scatenò la guerra con l’occupazione militare di due isolotti strategici iracheni e con la chiusura dello stretto di Hormuz, gli osservatori occidentali diedero per scontata una schiacciante vittoria iraniana con rovesciamento del regime di Baghdad visto che la metà della popolazione irachena, essendo sciita, era a loro avviso pronta a seguire gli ordini di Teheran. Le cose, come ben si sa, andarono altrimenti e gli iracheni sciiti si ricordarono di essere iracheni prima che sciiti. Oggi, nello sbandamento generale imposto dalla guerra d’occupazione e di sterminio, la possibilità della nascita di uno stato sciita indipendente non sono più da escludere. Su questo, che in linea di principio garba anche a Washington e a Tel Aviv, punta Teheran.
L’Iran muscolare e armato
L’egemonia sulla mutila parte sciita d’Iraq, con quel che ne consegue in termini di petrolio, rafforzerebbe in modo sensibile l’Iran e lo metterebbe, insieme alla Turchia, nelle condizioni di fare da polo militare nell’area arabo-islamica, essendo stati intanto ridimensionati i paesi arabi e spazzati via i regimi socialnazionali. Restano ancora in piedi regimi del genere in Siria, in Egitto e un regime relativamente indipendente in Sudan ma sembra questione di tempo prima che la tenaglia congiunta tra imperialismo israeloamericano e integralismo islamico li spazzi via. A questo punto la situazione può apparire accettabile agli Usa, purché i rapporti con l’Iran rimangano soddisfacenti in fatto di petrolio. Un Iran muscolare e politicamente scorretto, magari anche armato oltre misura, permetterebbe inoltre di consolidare lo spauracchio per le opinioni pubbliche occidentali con quanto ne consegue in fatto di giustificazioni per le azioni geopolitiche ed energetiche antieuropee svolte dal partito atlantico e di alibi per i sacrifici continuativi ai quali saremo probabilmente sottoposti. Questi saranno determinati dalla nuova composizione delle alleanze capital/imperialiste tra Usa e Cina, tra Usa e India, dallo sviluppo di parte del Terzo Mondo e dalla nostra proletarizzazione progressiva, ma si spera di spacciarceli come effetti dell’intervento di un “cattivo” che ci paralizza (anzi di più cattivi, visto che lo stesso sistema si è sperimentato per Putin e il gas russo). Insomma l’Iran, nell’immaginario collettivo occidentale e nel tipo di relazioni di complicità/rivalità con Washington può divenire la nuova Urss.
Tel Aviv, l’oleodotto Kirkuk-Haifa e il Curdistan
Questo vale per Washington, ma fino a che punto per Tel Aviv? Se è vero come è vero che gli israeliani hanno armato a lungo l’Iran contro l’Iraq e che agenti israeliani sono andati finora a braccetto con i torturatori iraniani in Iraq, se è vero come è vero che i forti toni anti-israeliani di Ahmadinejad & co sono stati sempre e soltanto slogan roboanti e di facciata che coprono allegri motteggi e strizzate d’occhio tra “nemici mortali”, è pur vero che gli israeliani non possono comunque essere felici del rafforzamento di una potenza militare nella regione. E qui il rapporto d’interesse fra “confluenza geostrategica” e “contraddizione” rischia di capovolgersi. Dal che si possono forse spiegare alcune delle attuali frizioni e, magari, anche il tentativo iraniano di forzare il gioco subito, perché ora è più facile trattare di quanto lo sarebbe domani. A determinare una forte divergenza interviene però un fattore ancor più importante dell’acquisita muscolarità iraniana. L’opzione strategica israeliana dell’oleodotto Kirkuk-Haifa, ovvero il sostegno israeliano ai curdi, porta la minaccia all’interno stesso dell’Iran e della Turchia che hanno ampie zone curde sotto il loro dominio. Teheran potrebbe trovarsi di colpo a giocare su due tavoli strategici di prima importanza: quello dell’Iraq sciita da aggregare con amore o con forza e quello curdo, ribelle, da impedire che si disgreghi. Ed ecco che lo scontro d’interessi vitali inizia a profilarsi, e proprio in direzione dell’Afghanistan, ovvero dello stesso snodo strategico sul quale la prolungatissima complicità russo-americana sul finire degli anni Settanta si trasformò in guerra fredda vera (non quella mediatica degli anni Cinquanta che servì solo ad assoggettarci tutti ai sistemi di controllo del doppio imperialismo). Una guerra fredda dalla quale l’Urss uscì in pezzi.
Guerra fredda nel Golfo Persico?
Ci troviamo quindi ad un momento cruciale: quello in cui la bilancia tra le “conflunze geostrategiche” e le “contradddizioni” fra Iran e Occidente può improvvisamente pendere sul secondo piatto. Ma oseranno davvero gli Stati Uniti, trascinati dall’Inghilterra e da Israele, rovesciare l’alleanza sostanziale e attaccare l’Iran? Ne hanno la forza militare ed economica? Sinceramente la cosa mi lascia abbastanza perplesso. È più probabile, sempre che gli strateghi dello Zio Sam optino per la rottura dell’alleanza, che si verifichi una serie di tensioni, magari accompagnate da azioni improvvise e dimostrative. Qualora ciò accadesse l’Europa, posto che si possa parlare di Europa, sarebbe geopoliticamente interessata – e non solo perché lo è la Russia – alla tenuta del campo iraniano. Fino ad un certo punto, però, perché se lo stallo servirà al congelamento dei rapporti e all’ulteriore aumento dei costi petroliferi, sarà proprio la parte occidentale europea a subire le principali conseguenze mentre Cina, Usa e Russia sapranno trarne ciascuno a suo modo beneficio.
Se scoppiasse la vera guerra
Se scoppiasse la guerra, ipotesi che in ogni caso non riesce a convincermi, le cose andrebbero diversamente. Una guerra in Iran rischierebbe di rivelarsi disastrosa per gli Usa fino a segnarne forse l’avvio del declino irreversibile come unica Superpotenza. Al contempo l’Iran potrebbe pagare alto lo scotto del conflitto fino ad ipotizzare la caduta del suo regime reazionario e “clericale” (il concetto è calzante anche se il termine non è proponibile per l’Islam). Detto questo potremmo salutare questa guerra come doppiamente positiva, scordandoci per un attimo che costerebbe milioni di morti? È possibile ma non è così evidente come può apparire di primo acchito. Persino il declino della potenza liberal e dello spauracchio reazionario, ipotesi che d’amblé non ci dispiacciono, potrebbero essere seguiti da qualcosa di peggio di quello che conosciamo, da qualcosa di ancor più global e mondialista. Il pozzo è senza fondo e al peggio non c’è mai fine. Di una cosa saremmo comunque contenti: il sangue di Saddam sarebbe ricaduto sul capo dei suoi maledetti aguzzini, tutti, iraniani e atlantici.
Gabriele Adinolfi
Fonte: http://www.noreporter.org/
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26.03.2007