Se chi rimane in comunità taglia la legna, coltiva i campi o intreccia cestini di vimini, questo non significa che quella sia la cura. Se si prega, se si impara l’educazione, un nuovo modo di vedere la vita, questo non significa che tutto ciò sia curativo. Il problema è che la nostra opinione pubblica ha sempre pensato, e continua a pensare, che la tossicodipendenza sia una specie di malocchio, o cattive compagnie, o immaturità, o disagio, o richiesta di aiuto, ciò che invece non è. Non è un prima, è un “dopo”, qualcosa di prodotto sul cervello dalle droghe, che purtroppo non se ne va come per magia ma necessita di una cura. Eppure quando si parla di curare la dipendenza, “andare in comunità” è un’espressione ormai d’obbligo, come se uno dovesse salpare verso un’esperienza di espiazione e purificazione, un po’ come “andare in ritiro”.
Luoghi di cura, quando lo sono, ma non perché “comunitari”, e purtroppo senza garanzia di contenimento, per legge. Ci va chi ci vuole andare, ci sta chi ci vuole stare. Chi non rimane a completare il programma non figura, si fa finta che non sia a causa della sua malattia mentale ma per scelta. Così il mito della terapia “spirituale” si fonda su casi aneddotici.
Questo passaggio, “andare in comunità”, in diversi casi è l’anticamera dell’overdose. Non dentro, certo. Un caso recente, trattato nella trasmissione “Chi l’ha visto”, è quello della ragazza scappata di comunità e morta a Roma di overdose in casa di un tizio che l’aveva incrociata in stazione e poi ospitata a casa, si ipotizza offrendogli droga in quanto anche lui consumatore. Questo tipo di percorso non è tragico, è prevedibile, e più frequente di quanto si pensi: le persone che muoiono, più o meno giovani, di overdose da eroina sono quelle che non si sanno facendo regolarmente, ma che tornano a farsi dopo l’uscita dal carcere, dagli ospedali, dalla comunità, dopo vacanze “per mettere la testa a posto”, o dopo aver smesso il trattamento farmacologico, perché tornano in preda alla smania di droga senza protezione della cura oppiacea contro la smania e contro l’effetto. Questi sono i dati delle overdose in Italia.
Negli ultimi 20 anni qualche struttura, per lo più per merito di singoli medici o direttori sanitari che vi operavano, è divenuta luogo di cura, con tutto l’occorrente e le conoscenze. Non che a qualcuno importi, anzi. La celebrazione della “lotta alla droga” avviene sempre in nome dei suoi santi, i suoi beati, e spesso con l’inutile pianto su chi non è guarito nonostante il nulla terapeutico.
Esistono strutture, accreditate presso le Regioni, che non accettano “psicofarmaci” o farmaci oppiacei, per assenza di medici o per loro filosofia. Esistono strutture che istigano i potenziali “ospiti” a non curarsi, a lasciare le cure per entrare a “lavarsi” il sangue, il cervello o quel che sia.
Molte strutture tengono i piedi in due staffe: propugnano la terapia “spirituale” ma accettano clienti di tutti i tipi.
I padri spirituali delle comunità sembrano quindi essere il punto di inizio e di fine della loro opera, nel senso che beccano di striscio il problema su cui costruiscono la loro fama e il loro odore di santità, la tossicodipendenza. Certamente qualcuno si sarà salvato grazie al passaggio in comunità, e forse qualcuno era solo un drogato con problemi sociali, e non un tossicodipendente. Non è dato saperlo perché in questa esperienza delle “comunità” non rimane misura, valutazione dei risultati negli anni. I programmi si sono adattati ai tossicodipendenti, in modo che escano in tempo utile a far ben figurare la comunità stessa, mentre il loro destino rimane spesso quello della loro malattia, né più né meno. La buona volontà e la buona fede rimangono tali, ma è il vero problema droga è che in molti paesi, il nostro compreso, l’opinione pubblica continui a rivolgersi a quello che è “giusto” per combattere la droga, e non a quello che funziona.
Matteo Pacini
Fonte: www.ilprimatonazionale.it
Link:http://www.ilprimatonazionale.it/2014/08/16/don-gelmini-e-il-falso-mito-delle-comunita-terapeutiche/
16.08.2014