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DON GELMINI E IL FALSO MITO DELLE COMUNITA' TERAPEUTICHE

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A cura di Davide
Il 16 Agosto 2014
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DI MATTEO PACINI

ilprimatonazionale.it

L’occasione della morte di Don Gelmini è una buona occasione per fare luce sul tema delle comunità terapeutiche. Gelmini era il patron di una catena di strutture in cui risiedevano per periodi più o meno lunghi persone con problemi di dipendenza da droghe o problemi legati all’uso di droghe. Altro esempio, variante laica se si vuole, la comunità di San Patrignano.

Esistono anche, cosa meno nota, reti di comunità in cui si propaganda la dottrina di “psico-sette” di derivazione americana. Queste comunità, quando raggiungono dimensioni importanti, cercano o sono ricercate dai referenti politici come “bandiere” per il consenso popolare (per i politici) o canali per il finanziamento (per i gestori).

Se si toccasse il tema della buona o cattiva fede di chi crea e anima queste strutture non si concluderebbe niente. Si disse e furono diffuse foto sul fatto che a San Patrignano i tossicodipendenti erano incatenati, per impedir loro di fuggire durante l’astinenza. Non che in un ospedale psichiatrico la contenzione sia vietata, quindi non è questo il problema, ma le comunità si inserivano in un vuoto sanitario dell’epoca in cui la tossicodipendenza non era considerata propriamente una malattia, e la costrizione al trattamento era considerata comunque una violenza da evitare. Ancora oggi sul piano legislativo un tossicodipendente che non sia agitato e pericoloso non può essere contenuto allo scopo di fargli iniziare un trattamento e farlo “tornare in sé”, cosa che richiede settimane. Il vuoto sanitario quindi continua ancora. Ci fu poi il caso Maranzano, un ragazzo che morì a San Patrignano dopo essere stato picchiato da un “anziano”. Fu in buona fede che si cercò di occultare il fatto da parte dei responsabili della struttura ? Può darsi, se un incidente avesse rovinato la reputazione di un luogo di salvezza, sarebbe stato un peccato. Ma in quegli anni, essendosi già diffuse le terapie per la dipendenza (disponibili dagli anni ’60) aveva senso, o ancora senso gestire un tossicomane dentro una struttura chiusa, con le maniere forti e senza somministrargli quelle cure ?

Se chi rimane in comunità taglia la legna, coltiva i campi o intreccia cestini di vimini, questo non significa che quella sia la cura. Se si prega, se si impara l’educazione, un nuovo modo di vedere la vita, questo non significa che tutto ciò sia curativo. Il problema è che la nostra opinione pubblica ha sempre pensato, e continua a pensare, che la tossicodipendenza sia una specie di malocchio, o cattive compagnie, o immaturità, o disagio, o richiesta di aiuto, ciò che invece non è. Non è un prima, è un “dopo”, qualcosa di prodotto sul cervello dalle droghe, che purtroppo non se ne va come per magia ma necessita di una cura. Eppure quando si parla di curare la dipendenza, “andare in comunità” è un’espressione ormai d’obbligo, come se uno dovesse salpare verso un’esperienza di espiazione e purificazione, un po’ come “andare in ritiro”.

Luoghi di cura, quando lo sono, ma non perché “comunitari”, e purtroppo senza garanzia di contenimento, per legge. Ci va chi ci vuole andare, ci sta chi ci vuole stare. Chi non rimane a completare il programma non figura, si fa finta che non sia a causa della sua malattia mentale ma per scelta. Così il mito della terapia “spirituale” si fonda su casi aneddotici.

Questo passaggio, “andare in comunità”, in diversi casi è l’anticamera dell’overdose. Non dentro, certo. Un caso recente, trattato nella trasmissione “Chi l’ha visto”, è quello della ragazza scappata di comunità e morta a Roma di overdose in casa di un tizio che l’aveva incrociata in stazione e poi ospitata a casa, si ipotizza offrendogli droga in quanto anche lui consumatore. Questo tipo di percorso non è tragico, è prevedibile, e più frequente di quanto si pensi: le persone che muoiono, più o meno giovani, di overdose da eroina sono quelle che non si sanno facendo regolarmente, ma che tornano a farsi dopo l’uscita dal carcere, dagli ospedali, dalla comunità, dopo vacanze “per mettere la testa a posto”, o dopo aver smesso il trattamento farmacologico, perché tornano in preda alla smania di droga senza protezione della cura oppiacea contro la smania e contro l’effetto. Questi sono i dati delle overdose in Italia.

Negli ultimi 20 anni qualche struttura, per lo più per merito di singoli medici o direttori sanitari che vi operavano, è divenuta luogo di cura, con tutto l’occorrente e le conoscenze. Non che a qualcuno importi, anzi. La celebrazione della “lotta alla droga” avviene sempre in nome dei suoi santi, i suoi beati, e spesso con l’inutile pianto su chi non è guarito nonostante il nulla terapeutico.

Esistono strutture, accreditate presso le Regioni, che non accettano “psicofarmaci” o farmaci oppiacei, per assenza di medici o per loro filosofia. Esistono strutture che istigano i potenziali “ospiti” a non curarsi, a lasciare le cure per entrare a “lavarsi” il sangue, il cervello o quel che sia.

Molte strutture tengono i piedi in due staffe: propugnano la terapia “spirituale” ma accettano clienti di tutti i tipi.

I padri spirituali delle comunità sembrano quindi essere il punto di inizio e di fine della loro opera, nel senso che beccano di striscio il problema su cui costruiscono la loro fama e il loro odore di santità, la tossicodipendenza. Certamente qualcuno si sarà salvato grazie al passaggio in comunità, e forse qualcuno era solo un drogato con problemi sociali, e non un tossicodipendente. Non è dato saperlo perché in questa esperienza delle “comunità” non rimane misura, valutazione dei risultati negli anni. I programmi si sono adattati ai tossicodipendenti, in modo che escano in tempo utile a far ben figurare la comunità stessa, mentre il loro destino rimane spesso quello della loro malattia, né più né meno. La buona volontà e la buona fede rimangono tali, ma è il vero problema droga è che in molti paesi, il nostro compreso, l’opinione pubblica continui a rivolgersi a quello che è “giusto” per combattere la droga, e non a quello che funziona.

Matteo Pacini

Fonte: www.ilprimatonazionale.it

Link:http://www.ilprimatonazionale.it/2014/08/16/don-gelmini-e-il-falso-mito-delle-comunita-terapeutiche/

16.08.2014

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