La risposta francese alla politica filo-Bush di Berlusconi
DI BENITO LI VIGNI
Il governo francese, con grande reattività, ha stroncato sul nascere le velleità dell’Enel annunciando la fusione tra Suez e Gaz de France, destinata a rendere vana un’Opa ostile del gruppo elettrico italiano sul gruppo privato d’oltralpe, che controlla la belga Electrabel. Per rendere certo e immediato lo schiaffo francese all’Italia il premier Dominique de Villepin s’è perfino impegnato a cambiare la legge per autorizzare la privatizzazione di Gaz de France.
La scelta del governo francese di sostenere l’accordo tra Gaz de France e Suez in funzione anti-Enel e dunque anti-italiana è sicuramente una decisione sorprendente e piuttosto discutibile soprattutto in un’ottica di mercato europea che valga a garantire il rispetto del principio della reciprocità. Se è vero che Parigi ha vissuto drammaticamente sul fronte dell’acciaio l’assalto degli indiani della Mittal sul gruppo francese Arcelor, è altrettanto vero che l’iniziativa dell’Enel non ha trovato sulla sua strada l’opposizione di una azienda contesa, ma la presa di posizione di uno Stato che sembra proprio una ritorsione a precise scelte politiche transnazionali del governo Berlusconi che, a partire dell’attacco Usa all’Iraq, non condiviso dall’Europa, ha costantemente privilegiato l’asse con l’America di Bush. La nuova politica economica ed energetica europea, nata all’indomani della guerra in Kosovo, autonomamente rivolta a Oriente, spesso in modo aggressivo, s’era rivelata per molti versi in aperto contrasto con gli interessi statunitensi. Le relazioni economiche tra Stati Uniti e Unione Europea erano già tese prima che si aprisse la questione dell’Iraq che di fatto ha accentuato il già importante contenzioso economico-commerciale fra le due sponde dell’Atlantico; con un’Europa decisa a non essere più subalterna alla potenza americana dopo il crollo dell’Urss. C’era stato il blocco, nel novembre 2001, imposto da Bruxelles, alla coltivazione delle piante Ogm importate dagli Usa e le dispute incrociate acciaio-agricoltura con la ritorsione di Bush, nel marzo 2002, che impose un dazio del 30 per cento sul valore dell’acciaio europeo importato in America. E poi la dura risposta europea che, grazie a un ricorso al Wto, nell’autunno dello stesso anno, applicò dazi punitivi alle importazioni Usa per un valore di ben 4 miliardi di dollari.
Alla fine degli anni novanta grandi economisti tra cui F. C. Bergsten e R. Mundell scrivevano di essere molto preoccupati delle conseguenze che avrebbe avuto per gli Usa la formazione dell’Europa Unita e la nascita dell’euro. Convinto che l’euro avrebbe sfidato il dollaro per la supremazia finanziaria, Bergsten intitolava uno dei suoi tanti scritti sull’argomento “America ed Europa: scontro di Titani”. Due eventi economici di grande rilievo avevano infatti segnato l’inizio del nuovo secolo: l’avvento dell’euro come moneta reale dell’Unione e la fine del lungo ciclo ascendente dell’economia americana.
Nel 2003 Giampaolo Caselli, esperto di economia politica scriveva: «La situazione esterna dell’economia americana è nota: un deficit di parte commerciale superiore ai 40 miliardi di dollari al mese e un fabbisogno di capitali di circa 2 miliardi di dollari al giorno, equivalenti a circa 500 miliardi di dollari all’anno di risparmi provenienti dall’estero su un totale mondiale di circa 800 miliardi di dollari; un debito estero di 2 mila miliardi di dollari, che recentemente Alan Greenspan ha definito insostenibile. Tutti i contratti petroliferi sono oggi fatturati in dollari; qualora alcuni Stati produttori dovessero preferire l’euro, il tasso di cambio fra le due valute sarebbe sottoposto a una ulteriore tensione, e si comincerebbe ad assistere alla sostituzione del dollaro con l’euro come moneta di riserva di molti paesi produttori di petrolio, ed eventualmente da parte della Cina, che ha già annunciato un tale movimento di fronte alla perdita di valore del dollaro. Per quanto riguarda i paesi produttori di petrolio, circa un anno fa l’Iraq aveva adottato l’euro come moneta in cui regolare i suoi contratti petroliferi, seguite dall’Iran».
Tra gli episodi che hanno provocato il risentimento Usa nei confronti dell’Europa il più significativo, ai fini delle risorse energetiche, è stata la firma, nel maggio del 1999, dell’accordo per la realizzazione della “bretella petrolifera” fra il Mar Nero e l’Adriatico, rivolto a collegare i campi petroliferi mediorientali con l’Europa mediterranea e per il quale l’Italia aveva assunto il ruolo di “capocommessa”. L’accordo sottoscritto dai rappresentanti dell’Unione Europea esprimeva bene il concetto di collegamento tra due entità geopolitiche; un ponte, concretamente legato alla risorsa vitale del petrolio e del gas, tra Europa e Asia e che in una visione geoeconomica si potesse chiamare Eurasia. Con tale iniziativa, l’Europa ha provocato la crisi del progetto americano di oleodotti e gasdotti volto a collegare i giacimenti del Caspio all’Europa e all’Asia (la cosiddetta dottrina Clinton). Nel quadro di accesa conflittualità che ne conseguì, assunsero un chiaro significato di ritorsione le manovre speculative Usa, messe in atto nei mesi successivi all’accordo europeo per indebolire l’euro, da poco nato, sulle piazze finanziarie internazionali a tutto vantaggio della valuta americana.
Altro elemento di scontro tra Usa ed Europa, è stato, nella seconda parte degli anni novanta, l’interesse di alcune compagnie europee per le immense riserve petrolifere irachene stimate in 400 miliardi di barili. Interesse che aveva trovato un pronto riscontro da parte di Saddam Hussein con le concessioni accordate a Francia, Russia e Italia attraverso le rispettive compagnie petrolifere. All’italiana Eni venne accordato il giacimento petrolifero di Nassiriya che spiega, se ce ne fosse bisogno, il perché dell’invio in quest’area di un nostro contingente militare. Si trattava di concessioni assai vantaggiose che riflettevano l’interesse iracheno a che i paesi interessati sostenessero, a livello internazionale, una linea morbida nei confronti dell’Iraq.
Ci si chiede quanto abbiano pesato gli accordi fra le compagnie europee e il governo iracheno per lo sfruttamento di grandi giacimenti, nell’escalation americana contro l’Iraq; quanto abbia pesato la preoccupazione delle “Big Oil” americane per la loro futura posizione in Iraq, un paese dalle immense riserve petrolifere e dalle colossali prospettive di guadagno; quanto abbia pesato per gli Usa il pericolo di perdere il controllo del mercato petrolifero e quindi la possibilità di imporre la valuta di transazione internazionale, con il possibile verificarsi di un effetto a catena, che portasse intere aree economiche sotto l’orbita dell’euro.
L’analisi porta a considerare valide queste motivazioni che hanno spinto gli Usa a passare alla guerra aperta, una guerra indiretta contro l’obiettivo reale, ovvero contro l’Unione Europea (e specificatamente l’asse franco-tedesco), per colpirne le ambizioni e modificare i rapporti di forza con gli Usa; un attacco indiretto mediante la guerra all’Iraq. Il governo Berlusconi ha di fatto condiviso l’attacco Usa all’Iraq, sferrato in totale violazione delle convenzioni internazionali; attacco non condiviso né dall’Onu né dall’Unione Europea e che alla luce dei fatti si è rivelato un massacro senza fine e un errore gravissimo che ha finito per incentivare il terrorismo e per innescare la miccia del fondamentalismo islamico in vaste aree del Medio Oriente. Inoltre il governo Berlusconi ha di fatto privilegiato l’asse con l’America di Bush anche nelle scelte di politica industriale transnazionale prendendo le distanze dalla politica economica ed energetica europea, non mancando inoltre di assumere sui dossier industriali una ricorrente posizione anti-francese e antieuropea. Una Italia dunque contro l’Europa e fuori dall’Europa. Una responsabilità che potrebbe aver pesato sulla decisione francese di bloccare le mire dell’Enel. E che potrà ancora pesare, in assenza di una svolta nella politica italiana, nei rapporti con l’asse energetico-strategico tra Mosca e Berlino (consorzio tra la russa Gazprom e le tedesche Basf ed E. On) per la costruzione del grande gasdotto del Baltico e che vedrà il baricentro energetico spostarsi inesorabilmente verso il Nord Europa.
Benito Li Vigni
(ex dirigente Eni )
Fonte: www.liberazione.it
4.03.06
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