DI PINO CABRAS
Tutta la blogosfera sa che Debora Billi, dell’ufficio comunicazione dei deputati M5S, ha scritto su Facebook un commento infelice sulla morte dell’artista Giorgio Faletti («Se ne è andato Giorgio. Quello sbagliato #Faletti»).
Rispetto a questo errore, su cui si sono accaniti giornalisti e linciatori da tastiera, non faccio un tweet, ma parto da lontano, dal 1973. In quell’anno Napoli passò due mesi da incubo per un’epidemia di colera causata da cozze d’importazione, che provocò marasma, confusione, quarant’anni di “Napoli colera” urlato dagli ossessi negli stadi, ma soprattutto causò decine di terribili lutti che segnarono per sempre altrettante famiglie. Non mancarono le polemiche politiche sulla gestione dell’emergenza, che bersagliarono la famiglia politica dominante in Campania, i Gava del pluriministro Silvio (1901-1999) e dell’astro nascente Antonio (1930-2008), leader dei dorotei democristiani.
Enzo Biagi (1920-2007), venerato maestro del giornalismo italiano, disse: «Il colera passa, i Gava restano. È dunque vero che se ne vanno sempre i migliori.» La battuta è stata inserita dal Corriere della Sera nella lista delle migliori di Biagi, ed è anche la battuta n. 648 del celebre libro “Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano”.
Al presidente della Repubblica di allora, il napoletano Giovanni Leone (1908-2001), mentre era in visita a Pisa, gli studenti che lo contestavano gli augurarono di morire di colera. Leone rispose esibendo il poco presidenziale gesto delle corna. E finì lì.
Silvio Gava , Antonio Gava , Enzo Biagi, Giovanni Leone, se ne sono tutti andati prima dell’epoca irriflessiva di Facebook e di Twitter. Perciò non sapremo mai che tipo di reazioni e controreazioni si sarebbero innescate sulla battuta di Biagi. Mi immagino il rimbalzo frenetico sui social network di dichiarazioni dei familiari delle vittime del colera contro un presunto sciacallaggio sulla loro tragedia, affrontata con troppa leggerezza. Mi immagino la valanga crescere su se stessa, tweet dopo tweet, a ingigantire la portata della battuta, scavandone i risvolti irriguardosi, e così via. La battuta sarebbe stata un’altra cosa da quel che è stata, e le polemiche istantanee del web avrebbero scagliato di tutto contro il demone satirico che aveva spinto un giornalista a lanciarsi in una battuta cattiva, senza calcolare se tagliasse la pelle dei nemici, se avesse invece un doppio taglio, o se tagliasse solo la propria pelle.
Un politico della stessa generazione di Napolitano, lo svedese Olof Palme (1927-1986), parlando delle grandi sfide dell’umanità, disse che quella generazione era la prima che «non poteva permettersi di sbagliare». Quella generazione ha sbagliato invece tanto, troppo, e il conto drammatico di quegli sbagli minaccia tutti noi: guerre assurde, insicurezza energetica, neoliberismo, catastrofi ambientali. Sono gli argomenti su cui da anni Debora Billi scrive articoli molto belli, informati, ironici, degli autentici piccoli capolavori di sintesi, sempre animati da un pungente spirito wit. Cercateli in Rete, anziché scegliere dal cesto solo le ciliege storte.
Scoprirete che è perlomeno esagerato applicare a lei, anziché alla generazione Napolitano, il principio che «non poteva permettersi di sbagliare». Basta con la caccia alle streghe.
Quanto al presidente Giorgio Napolitano (1925-2125), sono certo che gli basterà aggiornare le manovre di sicurezza manuali del suo predecessore e concittadino, e tutto si aggiusterà.
Pino Cabras
6.07.2014