DEBITO MORTALE

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DI GALAPAGOS

Il mondo finanziario ha il «pelo sullo stomaco» e riesce a affrontare con disinvoltura devastazioni epocali che riguardano la vita di ognuno di noi. Con una aggravante: i numeri sono grandi e tendono a crescere. I numeri, ovviamente, sono quelli dei morti e dei dispersi: per molti media solo cifre con le quali cercare di far aumentare le vendite. Diventa così curiosità sapere l’effetto del maremoto sul pil. Quanto crescerà di meno nell’area? Dello 0,5%, dell’1% o magari di più. C’è anche chi ci fa sapere che il 43% della produzione di scarpe della Nike arriva dalla Thailandia e dall’Indonesia, mentre quella della Reebok è dipendente dall’area solo per il 36%. Intanto le compagnie di assicurazione fanno i conti sui danni che dovranno risarcire: solo 100 milioni di euro, ha comunicato una big del settore, perché quei paesi sono per fortuna arretrati. Sappiamo anche – ce lo ha detto il Word travel and Tourism Council – che nel settore turistico dei paesi colpiti dal cataclisma lavorano quasi 19 milioni di persone. Molte di loro perderanno lavoro e stipendio per parecchio tempo: in quei paesi non è prevista cassa integrazione. Già, lo stipendio: nessun giornale ha pubblicato dati su quanto guadagnano i lavoratori della Nike o quelli della Reebok; nessuno quanto guadagnano i contadini che si spezzano in due per coltivare il riso e nessuno quanto è il salario dei lavoratori del turismo o con quanto riescono a vivere le migliaia di pescatori che sono affogati con i loro figli nelle squallide baracche vicine al mare che tutti i turisti giudicano «caratteristiche» e fotografano in abbondanza per far vedere al ritorno agli amici come sono poveri, ma felici gli abitanti.

Purtroppo nessuno è felice e la povertà e lo sfruttamento di quelle persone è dimenticata a maggior gloria di vacanze mordi e fuggi. L’altra faccia del sottosviluppo è proprio in questa apparenza: tra un ambiente indimenticabile per noi occidentali e la solitudine e la povertà degli abitanti. Una cifra da sola ne da la dimensione: gli undici paesi colpiti dalla catastrofe assommano – secondo i dati della Banca mondiale – oltre 350 miliardi di dollari di debiti. L’Indonesia da sola è indebitata per 131 miliardi, l’India per 83, la Thailandia per oltre 58. Il debito costa molto per interessi altissimi che l’occidente pretende da paesi che non hanno un rating affidabile. E così questi paesi sono costretti a dedicare al servizio del debito larga parte delle proprie esportazioni (che costano poco, perché il lavoro costa poco) sottraendo risorse allo sviluppo, alla spesa sociale in assenza della quale milioni di bambini muoiono ogni anno di fame e di malattie.

Ieri il cancelliere Schröder in un impeto di generosità dettata forse dalle centina di tedeschi che ancora mancano all’appello, ha annunciato l’intenzione di proporre al Club di Parigi, l’associazione dei paesi che hanno indebitato tutto il terzo mondo, una moratoria sul debito di Indonesia e Somalia. Come dire «il resto di niente»: questi paesi ora non sono in grado di restituire neppure una lira.

Forse la soluzione sarebbe quella Argentina: il paese latino americano è uscito da una crisi nera dichiarando fallimento, svalutando la propria moneta e ricontrattando il proprio debito di poco superiore a quello dell’Indonesia. Una soluzione estrema e, forse, poco adatta a questi paesi con un livello di sviluppo decisamente inferiore a quello argentino. Trovare soluzioni più «generose» è possibile. La prima è che i paesi «ricchi» rinuncino ai propri crediti ufficiali. Niente moratoria, quindi, ma cancellazione. Certo le cifre non sono grandi – almeno per l’Italia – ma il gesto sarebbe significativo e in parte compenserebbe lo sfruttamento attuato perfino con gli aiuti allo sviluppo.

La seconda tappa non meno importante è che il Club di Parigi si facesse promotore di una rinegoziazione che coinvolga tutti i debiti privati per abbassare in primo luogo i tassi di interesse e liberare risorse per lo sviluppo. Una soluzione dolorosa, per chi fa del denaro la merce più preziosa, ma necessaria più dell’acqua.

Galapagos
Fonte:www.ilmanifesto.it
30.12.04

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