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DI DMITRY ORLOV
Cluborlov

Il mio libro è ancora in stampa e perciò è tempo di pubblicare un altro estratto. Dato che la carenza di generi alimentari è su tutti i notiziari, ho creduto opportuno scrivere questo articolo sul cibo. Mi potete anche ascoltare su C-Realm Podcast, Episodio 72. DO

L’incapacità di sfamare la propria gente rimane il fallimento più evidente dell’Unione Sovietica. In solo due generazioni un Paese che era il canestro di pane dell’Europa era stato trasformato nel caso disperato agricolo dell’Europa, così che, al momento del crollo dell’Unione Sovietica, era economicamente e politicamente ostacolato dalla propria necessità di ottenere crediti per l’importazione di cereali da paesi ostili ai propri interessi. Negli anni 70, un rapido aumento della produzione di petrolio lo aveva fatto rimanere a galla, ma finito il boom era rimasto senza possibilità di destreggiarsi. Le sue province produttrici di petrolio hanno raggiunto il picco di produzione massima, mai raggiunta prima, alla metà degli anni 80; conseguentemente, non è stato possibile aumentare ulteriormente la produzione ed incrementare le esportazioni.

Come fa un Paese con più terreni arabili di praticamente qualsiasi altro, una tradizione agricola antica e coronata di successi, con tanto di sagre con tutto e di più da mangiare e una storia di surplus di cereali, a produrre un risultato tanto tetro? Un breve excursus nella storia russa potrà essere istruttivo qui: i piccoli inconvenienti possono essere provocati accidentalmente, ma per i disastri di questa scala ci vuole serio impegno. Parlando di disastri agricoli come una classe, vale la pena notare fin da principio che l’agricoltura è un lavoro davvero monotono, meglio svolto da persone decisamente semplici, cui non dispiace piegarsi a toccare la terra tutto il giorno fino a che sembrano gobbe. Quasi geneticamente predisposti a coltivare cibo, tali gobbi si possono ritrovare in tutte le società agricole tradizionali del mondo. Mentre lavorano sfruttano il suolo molto lentamente, oppure per niente, se non sono troppo stressati e giusto un po’ intelligenti. In cambio della loro umile servitù stanno giornalmente a diretto contatto con la natura in tutta la sua variabile generosità, rimanendo parte di essa. Purché non facciano ricorso alle scorciatoie, come fare affidamento su un solo tipo di pianta, sia essa il mais o la patata, i loro numeri oscillano naturalmente con l’andamento del clima. Ma proviamo a rimpiazzare l’umile gobbo con un agronomo di formazione universitaria, la sua zappa con un trattore, la sua sacca piena di semi tramandata di famiglia in famiglia con un qualche ibrido prodotto in massa, e la pioggia con una pompa di irrigazione, e vedremo presto la strada verso l’oblio ambientale. Se l’agricoltura russa ci offre un esempio particolarmente temibile, non bisogna trascurare gli sforzi dell’America nella stessa direzione: con sufficiente forza per soggiogare la natura, attraverso l’agricoltura chimica, la manipolazione genetica, pompando acquiferi non rinnovabili, attraverso la produzione di etanolo e altre armi di desertificazione di massa, tutto è ottenibile, anche morire di fame, proprio qui negli Stati Uniti.

Fino alla metà del XIX secolo l’impero russo ha messo in atto qualcosa di vagamente analogo al sistema delle piantagioni del vecchio Sud, con una sempre più distante nobiltà che parlava il francese facente capo ad una moltitudine di servi analfabeti che parlavano il russo. Basato su una più umana servitù, piuttosto che sulla schiavitù vera e propria, legava i contadini alla terra, dando la responsabilità nominale per il loro benessere e il controllo sull’uso della terra al proprietario terriero. Verso il termine del XIX secolo il trono imperiale trovava la perpetuazione della servitù sempre più imbarazzante per il proprio prestigio di grande potere europeo, e così nel 1861 meno di un mese prima dello scoppio della guerra civile americana, la servitù fu abolita per decreto imperiale, senza spargimenti di sangue e senza l’apporto di un serio danno alla produzione agricola. Alcuni contadini poterono gradualmente comprare la loro terra e dal XX secolo le parti più fertili della Russia e dell’Ukraina contavano molte ricche famiglie di agricoltori. La Russia pre-rivoluzionaria era secondo il parere comune, un posto dove si mangiava bene.

Poi è arrivato quel disastro compiuto dall’uomo conosciuto come la collettivizzazione, i cui risultati sono palesemente visibili fino al giorno d’oggi a chiunque viaggi attraverso la Russia rurale e le terre circostanti. L’epicentro di questo disastro è la Russia centrale e più ce ne si allontana – verso gli stati del Baltico o l’Ukraina occidentale – meno evidente appare la sua perdurante devastazione. È come se una serie di pestilenze avesse attraversato la terra, lasciando dietro di sé povertà e desolazione. Con il motto rivoluzionario di “tutta la terra al popolo!” le prospere famiglie di agricoltori vennero etichettate come il nemico di classe e perseguitate. Il grano, compresi i semi di grano, fu confiscato per sfamare le città affamate. Il risultato fu la fame nelle campagne e il crollo della popolazione rurale. Al posto dei ricchi poderi familiari, furono organizzati poderi collettivi, ancora una volta legando gli agricoltori alla terra, ma senza il beneficio delle vecchie tradizioni feudali legate alla chiesa. L’introduzione di macchinari agricoli meccanizzati, fertilizzanti chimici, pesticidi e metodi agricoli “scientifici” ha fatto poco per anticipare il disastro: i migliori agricoltori erano o già morti o scappati nelle città. Nonostante il grande sforzo da parte del governo e alcune soluzioni sfrenatamente creative, come seminare a spaglio i semi usando i razzi, la produzione agricola non ha mai ripreso appieno, perché la soluzione del problema coinvolgeva la reversione della collettivizzazione, e ciò non pareva politicamente consigliabile.

Un’altra cosa non politicamente consigliabile era non curarsi di sfamare la gente. In particolare, tutte le zone in tutti i momenti dovevano essere rifornite di pane che, più degli altri cibi essenziali, era simbolo dell’alleanza tra il governo comunista e le masse asservite. Le risse per il pane, che non potevano essere represse e potevano essere calmate solo con una fortunatissima consegna di pane, infondevano timori nel cuore di ciascun funzionario comunista locale. Per rendere tali eventualità meno probabili, c’erano riserve locali di cibo in tutte le città, rifornite secondo uno schema di distribuzione governativo, e i cibi basilari come il pane erano quasi sempre disponibili. E se la qualità degli altri generi alimentari forniti dal governo era talvolta discutibile, il pane era sempre eccellente – un riflesso della sua importanza simbolica. Ma il diritto ad essere sfamato non era esteso ad altro oltre che ai carboidrati di base, specialmente nelle zone periferiche. Mosca era sempre la città meglio rifornita, con Leningrado al secondo posto, mentre in molte città provinciali gli scaffali dei negozi erano quasi del tutto vuoti ad eccezione del pane, della vodka e di alcune varietà di cibo in scatola, e ogni qual volta che qualche cibo scarsamente disponibile come il salame compariva d’improvviso, si formavano istantaneamente delle code finché non terminava. Fare la spesa era un lavoro piuttosto intensivo e coinvolgeva il trasporto di carichi pesanti. A volte assomigliava alla caccia – seguire quello sfuggente pezzo di carne che faceva capolino dietro qualche bancone di negozio.

Poco prima del crollo dell’Unione Sovietica, divenne noto informalmente che il dieci per cento dei terreni agricoli adibiti a orticelli domestici (in miseri lotti di un decimo di un ettaro), fornivano intorno al 90 per cento della produzione nazionale di cibo. Durante e dopo il crollo economico, quando i negozi del governo erano piuttosto incontaminati dal cibo e spesso chiusi del tutto, questi appezzamenti divennero un’ancora di salvezza per molte famiglie. Mi ritorna in mente in particolare l’estate del 1990: fu l’estate quando mangiammo niente altro che riso (importato), zucchine (coltivate da noi), e pesce (pescato da alcuni vicini di casa, da un lago locale).

Il terribile stato dell’agricoltura sovietica si rivelò paradossalmente benefico per aver favorito un’economia di orti domestici, che ha aiutato i Russi a sopravvivere dopo il crollo. I Russi hanno sempre coltivato un po’ del loro cibo, e la scarsità di prodotti di buona qualità nei negozi del governo ha fatto perdurare la tradizione dell’orto domestico persino durante i tempi più prosperi degli anni 60 e 70. Dopo il crollo, questi orti divennero ancore di salvezza. Quello che molti Russi praticavano, sia per tradizione o tirando a caso, o per vera pigrizia, era in qualche modo simile alle nuove tecniche di agricoltura biologica e permacoltura. Molti appezzamenti produttivi in Russia sembravano una selva di erbe, verdure e fiori che crescevano in grande abbondanza. Negli anni del declino dell’era sovietica, l’economia degli orti domestici continuava a guadagnare importanza. Oltre a sottolineare la macroscopica inadeguatezza dell’agricoltura industriale di comando e controllo di stampo sovietico, il successo degli orticelli privati è indicativo di un dato di fatto generale: l’agricoltura è di gran lunga più efficiente se praticata su piccola scala, con il lavoro manuale.

Se la maggior parte delle famiglie cucinava e mangiava a casa, anche il menu istituzionale era considerato importante. Con la regolazione dei salari e niente di interessante su cui spenderli, mangiare bene sul posto di lavoro acquistò ulteriore importanza. Il cibo istituzionale variava qualitativamente: gli ufficiali della marina nucleare mangiavano estremamente bene, mentre ai soldati in fanteria venivano offerti porridge e minestra, senza pretese. I posti di lavoro all’interno di molte organizzazioni, fabbriche e istituti governativi venivano valutati per la qualità dei loro spacci. Questi rimasero talvolta aperti offrendo un sostegno vitale, persino durante lo sfacelo economico quando le catene di montaggio si fermarono e non furono pagati gli stipendi per mesi. Alcune mense aziendali non si limitarono a fornire un piatto caldo; lì i dipendenti potevano acquistare un intero pollo crudo o scarsi cibi in scatola, tutti ad un prezzo molto ragionevole.

I ristoranti esistevano, ma erano generalmente fuori dai limiti di budget della maggior parte delle famiglie. Mi sono sempre sembrati piuttosto strani, perché i loro menu erano in generale un frutto della fantasia. Qualsiasi cosa tu cercassi di ordinare, la cameriera ti avrebbe invariabilmente risposto con un laconico “Nyetu!” (“non ce l’abbiamo”). Dopo aver fatto qualche tentativo di ordinare qualcosa che effettivamente avessi voluto, ti saresti arreso chiedendo: “Che cosa avete?” La risposta a questo mistero sarebbe stata qualcosa come “Borscht. È buono oggi”. E per tutta sorpresa, spesso era molto buono. Nonostante i ristoranti fossero piuttosto rari, c’erano sempre snack bar, gelaterie e bancarelle in abbondanza.

In aggiunta all’agricoltura su piccola scala, le foreste in Russia sono sempre state usate come un’altra importante fonte di cibo. I Russi sanno riconoscere e mangiano quasi tutte le specie di funghi commestibili e tutte le bacche commestibili. Durante la stagione tipica dei funghi, che generalmente è in autunno, le foreste sono invase dai raccoglitori di funghi. I funghi vengono messi sottaceto oppure essiccati e conservati, e spesso durano per tutto l’inverno.

Nonostante i fallimenti monumentali dell’agricoltura sovietica, nel suo complesso la struttura di distribuzione alimentare di stile sovietico si rivelò paradossalmente resistente nel quadro del crollo economico e della disorganizzazione. La combinazione di riserve di cibo locali amministrate da politici, condizionati a trattare le risse per il pane come calamità che avrebbero messo in gioco la loro carriera, la prevalenza di istituzioni governative che si occupavano del sostentamento dei propri dipendenti e l’abbondanza di orti domestici, ha voluto dire che non si moriva di fame e che c’era molto poca malnutrizione. Ma il fato sarà altrettanto benevolo con gli Americani?

Negli Stati Uniti molte persone comprano da mangiare al supermercato che viene rifornito da lontano usando camion refrigerati che vanno a diesel, ciò le rende interamente dipendenti dalla ampia disponibilità di combustibili per il trasporto, oltre che dalla continua manutenzione del sistema autostradale interstatale. In un mondo di scarsa disponibilità energetica, non si può dare per scontata nessuna delle due cose. La maggioranza delle catene di supermercati hanno provviste di cibo in magazzino solo per alcuni giorni e dipendono da un’avanzata pianificazione logistica e da consegne puntuali per soddisfare la domanda. Pertanto in molti posti, è praticamente garantito che si svilupperanno problemi di fornitura di generi alimentari. Quando succede, nessuna autorità locale è in posizione di poter esercitare il controllo sulla situazione e il problema viene passato alle autorità federali per la gestione delle emergenze. Stando al loro rendimento dopo l’uragano Katrina, queste autorità non sono solo palesemente incompetenti, ma appaiono animate dall’etica che è meglio che il governo neghi i servizi piuttosto che fornirli, per evitare di creare una popolazione dipendente dall’aiuto del governo.

Molte persone negli Stati Uniti non si preoccupano neanche di fare la spesa e mangiano solo fast-food. La tendenza a massimizzare il profitto riducendo i costi ha portato al risultato di un prodotto che manipola i sensi per far accettare come commestibile quello che principalmente è un prodotto di rifiuto. Dietro rigide procedure di controllo della lavorazione, i rifiuti agro-industriali, lo zucchero e il sale vengono combinati in un’allettante presentazione, confezionata, e rinforzata da vigorosa pubblicità. Una volta accettata, inganna i sensi con la sua affidabile consistenza, creando una dipendenza a vita al cattivo cibo. L’industria chimica si presta con una schiera di deodoranti, a mascherare il cattivo odore prodotto da una dieta del genere. Immerse per tutta la vita in un campo di percezioni sensoriali artificiali e dominate da gusti e profumi chimici e sintetici, le persone si ritraggono scioccate quando gli capita di fronte qualcosa di naturale, sia questo un semplice pezzo di fegato di pollo lesso o l’odore corporeo di un’altra persona sana. Perversamente, non gli danno fastidio i gas di scarico delle macchine e gli piace veramente l’odore “di macchina nuova” cancerogeno della tappezzeria di vinile.

Quando le persone cucinano, cucinano di rado partendo dagli ingredienti freschi, ma semplicemente riscaldano pasti pre-confezionati prodotti in fabbrica. Quando veramente cucinano, i cosiddetti ingredienti freschi provengono da posti lontani miglia e sono stati selezionati per facilitarne la spedizione piuttosto che per qualità effettivamente desiderabili, tanto che sono legnosi o polposi e sono solo a mala pena commestibili. Dato che il buon gusto non è più nel menu, l’attenzione si sposta sulla quantità con il risultato di porzioni di dimensioni spaventose di proteine e amidi indifferenziati annegati nei grassi, scodellate nei giorni di festa nazionale con patetiche abbuffate, di cui il Giorno del Ringraziamento sembra essere il principale. Tutto ciò fa bene all’economia e continua a far canticchiare le industrie del cancro, del diabete e delle cardiopatie. Ma questo non è davvero salutare e l’effetto sulla “circonferenza vita” della nazione si vede chiaramente in tutto il parcheggio. Molte persone che camminano con passo ondeggiante da e verso le loro macchine, sembrano impreparate per quello che verrà. Se dovessero improvvisamente cominciare a vivere come i Russi si sparerebbero alle ginocchia. In molti non ci proverebbero neppure, ma semplicemente aspetterebbero, con o senza pazienza, che qualcuno venisse a dargli da mangiare. E se quel cibo che arrivasse consistesse in una scatola di polistirene con dentro uno schifo di pseudo-carne tra due schifezze di pezzi di pane, e una bottiglia di plastica piena d’acqua allungata con pseudo-sciroppo, sarebbero soddisfatti.

Ma il cibo potrebbe non arrivare mai. C’è già una discreta quantità di fame negli Stati Uniti e molte famiglie sono costrette a scegliere tra il cibo e la benzina. Delle due, la benzina è la necessità maggiore, perché indispensabile per andare a comprare da mangiare in macchina: le loro macchine mangiano sempre per prime. In futuro non avranno più scelta: saranno esclusi dal mercato, il loro cibo sarà usato per produrre etanolo, così che i più fortunati potranno continuare a guidare le loro macchine per un pochino più a lungo. Il processo di lasciarli morire di fame potrebbe seguire uno dei termini eufemistici preferiti dagli economisti, come quello un po’ sinistro di “chiedere la distruzione”, o il più blando “perdere il carico”. Questo processo è già iniziato in Messico, dove i produttori di “masa” (mais) che forniscono un alimento di base acquistato dai poveri, sono schiacciati fuori [dal mercato] dai produttori di etanolo. Gli Stati Uniti sono i prossimi. Chi è quello scheletro alla guida di un camioncino per le consegne? Speriamo che non sia tu, ma qualcun altro – qualcuno meno fortunato di te, che non conosci.

Note editoriali di Energy Bulletin

L’articolo di Dmitry Orlov Closing the “Collapse Gap”: the URSS was better prepared for collapse than the US rimane uno dei classici preferiti dai lettori di EB.

Il suo libro Reinventing Collapse sarà pubblicato a breve.

Titolo originale: “Keeping fed”

Fonte: http://cluborlov.blogspot.com/
Link
30.04.2008

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MICAELA MARRI

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