CYBERSOVIET – UTOPIE POSTDEMOCRATICHE E NUOVI MEDIA

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Effetto Albemuth

INTRODUZIONE

Il libro che avete in mano completa una “trilogia” iniziata con Incantati dalla Rete (Cortina 2000) e proseguita con Mercanti di futuro (Einaudi 2002). Il lungo intervallo fra la seconda e la terza tappa di questo percorso di ricerca teorica non è casuale: i quasi sei anni che separano il secondo dal terzo saggio sono stati impiegati a raccogliere ed elaborare un abbondante materiale di riflessione – di cui troverete qui solo una parte1 – ma anche e soprattutto a maturare un ripensamento critico in merito ad alcune ipotesi avanzate in Mercanti di futuro. Come suggerisce il titolo volutamente “provocatorio” (parlare di cybersoviet in tempi di diffuso conformismo neoliberale rivela esplicite intenzioni “eretiche”), questo lavoro si occupa di politica, e in particolare degli effetti della rapida diffusione delle nuove tecnologie per la comunicazione sull’evoluzione dei sistemi democratici.

Argomento che avevo già affrontato sia in Incantati dalla Rete – nel quale delineavo alcuni elementi di “antropologia culturale” della Rete, analizzando l’impatto dei nuovi immaginari tecnologici su relazioni sociali quotidiane, mondo del lavoro, cultura dei movimenti, sistema dell’informazione e nuove forme di creatività artistica – , sia in Mercanti di futuro – in cui l’attenzione era viceversa concentrata sulla Net Economy. Negli ultimi capitoli di quest’ultimo lavoro – completato nei mesi successivi alla crisi finanziaria di inizio millennio e all’inizio della “guerra al terrorismo”, innescata dall’evento epocale dell’11 settembre 2001 – avevo azzardato un’ipotesi: malgrado la massiccia perdita di potere contrattuale che la classe dei knowledge workers stava subendo a causa della crisi, e malgrado i tentativi di “normalizzazione” della Rete che i governi occidentali (Stati Uniti in testa) avevano avviato subito dopo l’attacco alle Twin Towers, sostenevo, restavano margini per la ricostituzione di quello che definivo Quinto Stato, vale dire il “blocco sociale” fondato sulla convergenza di valori culturali e interessi economici fra i soggetti sociali (ricercatori, hacker, comunitari virtuali, ecc.) che avevano guidato la rivoluzione digitale, e l’imprenditoria di Internet, che ne aveva sfruttato il potenziale economico. Se tale ipotesi si fosse rivelata corretta, aggiungevo, esistevano buone probabilità di un’evoluzione in senso “postdemocratico” dei sistemi politici occidentali, intesa come integrazione degli istituti della democrazia rappresentativa con nuove forme di democrazia diretta e partecipativa.

Nel giro di due o tre anni, ho dovuto prendere atto che l’ipotesi non aveva retto alla prova dei fatti: la Net Economy è sì rinata dalle ceneri della crisi, ma ciò non ha favorito la ricomposizione del blocco sociale su cui si era fondata la sua prima fase; al contrario: da un lato, l’alleanza fra knowledge workers e imprenditoria di Internet (che nel frattempo ha visto colossi emergenti come Google2 sostituire la galassia delle start up nel ruolo di protagonisti) si è definitivamente rotta, dall’altro lato, il processo di commercializzazione/normalizzazione di Internet (pilotato dalla nuova alleanza fra governi e corporation) è proseguito a ritmo accelerato, riducendo drasticamente gli spazi di democrazia partecipativa. Alle orecchie di alcuni, l’ultima affermazione potrebbe suonare strana, visto che negli ultimi anni è tornato a furoreggiare l’ottimismo utopistico dei “tecnoentusiasti”, che già aveva imperversato negli anni Novanta (in particolare, la retorica del Web 2.0, di cui mi occupo nella quarta e ultima parte di questo lavoro, sta alimentando illusioni in merito alle prospettive della democrazia digitale, identificate con il dilagare dei contenuti “autoprodotti” da parte degli utenti/consumatori, e con la crescita della comunità dei blogger, da molti identificata come il nucleo costituivo d’una “opinione pubblica digitale” sempre più autonoma dai media tradizionali).

In conclusione, il “ritardo” con cui esce questo lavoro si spiega, da un lato, con la volontà di fare i conti con i limiti teorici delle mie precedenti analisi, dall’altro, con quella di finalizzare tale approfondimento teorico alla critica puntuale di una vulgata ideologica (un impasto di determinismo tecnologico, libertarismo velleitario e neoliberismo) che rischia di oscurare la dura realtà delle lotte globali per il potere cui stiamo assistendo in questo primo decennio del XXI secolo. Lo sforzo si è concentrato su quattro nodi tematici, che corrispondono alle quattro parti in cui è organizzato il lavoro.

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Nella prima parte (”Il network come paradigma socio-economico”), il problema di fondo è quello della possibilità, o meno, di delineare una “identità di classe” per i soggetti sociali emergenti nell’era del capitalismo informazionale. Un avvio di percorso obbligato, ove si consideri che la debolezza della metafora del Quinto Stato consisteva in primo luogo nell’avere parzialmente eluso tale interrogativo. Il primo capitolo prende in esame due autori che, pur analizzando la società dell’informazione a partire dalla categoria di “modo di produzione”, negano la possibilità di descriverne i meccanismi di funzionamento in termini di “composizione di classe”. Castells, dopo avere indicato nella rete (network) la struttura che tutte le forme di aggregazione sociale contemporanee (dall’impresa ai nuovi movimenti politici) assumono a paradigma, identifica come elementi costituivi (nodi) della società in rete gli individui. E’ pur vero che il suo concetto di “individualismo in rete” non evoca l’immagine di una accozzaglia di individui isolati, bensì un vero e proprio modello sociale, dotato di strutture e regole di funzionamento ben definite; resta il fatto che si tratta di un punto di vista che implica un irreversibile il processo di dissoluzione delle classi sociali.

Più radicale l’individualismo metodologico di Benkler che, non a caso, approda a esiti ideologici dichiaratamente neoliberali (mentre Castells, citando a modello la socialdemocrazia finlandese, sostiene al contrario la piena compatibilità fra economia di rete e istituzioni del welfare). L’interesse di Benkler consiste nel fatto che questo autore non vede nei valori della cultura hacker (libera condivisione di informazioni e conoscenze, cooperazione produttiva attraverso la rete, primato delle motivazioni extraeconomiche rispetto agli incentivi monetari, ecc) una premessa per il superamento della logica di mercato, ma, al contrario, gli strumenti per un enorme incremento di produttività ed efficienza di un capitalismo “riformato”, che, nella misura in cui appare sempre più orientato verso la produzione di comunicazione e significato, può tranquillamente fare a meno della proprietà privata (a partire dalla proprietà intellettuale, vista come un freno al libero dispiegamento del mercato).

Per il neoliberale Benkler, dunque, la libertà non è più tutelata dalla proprietà privata, bensì dalla creatività collettiva delle comunità che nascono dalla libera associazione degli individui in rete. Resta invece la “classica” opposizione di principio all’ingerenza dello Stato in economia (e nei confronti di quelle forme di socialità in rete che fanno corpo unico con la nuova economia). Riassumendo, tanto Castells quanto Benkler, pur da prospettive ideologiche differenti, prospettano un modello sociale ed economico che non attribuisce più alcun ruolo al conflitto di classe.

Il secondo capitolo sposta l’attenzione su una costellazione di approcci teorici che recuperano la centralità del concetto di classe da una prospettiva antropoligico-culturale più che “strutturale” (nel senso marxista del termine). Vengono così presi in considerazione, nell’ordine, il concetto di “classe creativa” in Richard Florida, quello di “classe hacker” in Wark McKenzie, l’idea di classe come evento storico contingente in Aronowitz, nonché alcuni contributi italiani (Bifo, Revelli, Formenti) sulle trasformazioni della composizione di classe nell’era del capitalismo immateriale.

Pur con accentuazioni diverse (Florida insiste sulla condivisione di valori culturali; McKenzie sul regime della proprietà intellettuale come fattore costitutivo di un’inedita forma di antagonismo fra capitale e lavoro; gli altri autori sull’esistenza di strumenti di autorappresentazione come condizione imprescindibile per la formazione di una identità di classe), da questa panoramica emerge chiaramente la tendenza a una progressiva dissociazione fra fattori oggettivi (classe in sé) e soggettivi (classe per sé) nella definizione della natura di classe dei knowledge workers: individualisti, in serrata competizione reciproca, ideologicamente ambigui, perlopiù refrattari alla partecipazione politica, questi strati sociali emergenti “sono” forse una nuova classe, ma non “fanno” classe.

Nel terzo capitolo viene quindi analizzato quello che rappresenta il più sistematico tentativo di superare tale aporia in una prospettiva neomarxista, vale a dire la categoria di moltitudine elaborata dai teorici del postfordismo. Portando alle estreme conseguenze il concetto di rifiuto del lavoro, ereditato dalla tradizione operaista degli anni Sessanta e Settanta, Antonio Negri e altri autori interpretano la “dissoluzione” del proletariato industriale come compiuta e consapevole “autonegazione” di tale classe sociale. La transizione a un capitalismo che si fonda sulla produzione di comunicazione, linguaggio e servizi di cura (cioè, in ultima istanza, di sentimenti ed emozioni), è prodotta dall’ “esodo” dei lavoratori dalla produzione industriale di massa, che genera a sua volta processi di personalizzazione/individualizzazione di produzione e consumo. Il conflitto, a questo punto, non è più fra classe capitalista e classe operaia bensì fra capitale astratto e moltitudine, nel senso che la forma capitalistica dell’economia sopravvive come una sorta di residuo parassitario che si appropria dell’intelligenza collettiva dell’intero corpo sociale (non si è più soggetti a sfruttamento in ragione del ruolo lavorativo, bensì per il mero fatto di vivere nell’attuale contesto economico).

Nemmeno questa estensione “biopolitica” del rapporto di sfruttamento risolve però il problema di dare un volto concreto alle concrete soggettività in conflitto, al contrario: il capitalismo si trasforma in un’entità spettrale che non offre più il punto di riferimento di un “nemico” da combattere, e la moltitudine, priva di tale riferimento, si riduce a sommatoria di singolarità individuali (non dissimile dalla già citata figura dell’individualismo in rete). In conclusione: delineare una nuova composizione di classe appare impresa ardua, se non impossibile, ma rinunciare all’impresa significa rinunciare alla possibilità di attribuire senso ai conflitti sociali contemporanei.

Se la prima parte fa i conti con la difficoltà di condurre un’analisi di classe, la seconda (”Globalizzazione, media e crisi della democrazia”) affronta due problemi (la crisi dello stato nazione e la colonizzazione dello spazio pubblico da parte di vecchi e nuovi media) che hanno avuto non poco peso nell’aggravare tale difficoltà. Il quarto capitolo riparte dal discorso teorico di Antonio Negri, in quanto il concetto di Impero elaborato da questo autore ha, fra gli altri, due meriti fondamentali: da un lato, analizza con estrema lucidità la “costituzione materiale” dell’ordine mondiale emerso dopo il 1989, descrivendo la complessa stratificazione di istituzioni globali – formali e informali – che ha ridimensionato prerogative e attributi della sovranità nazionale; dall’altro lato, fa piazza pulita delle interpretazioni veteroleniniste di tale evoluzione, in particolare delle letture che indicano nel “superimperialismo” americano il “centro” dell’Impero.

Descrivendo un potere che non si concentra più in nessun “luogo”, che è fatto di flussi (di denaro, merci, servizi, informazioni, conoscenze, ecc.) che viaggiano in tempo reale attraverso le reti informatiche, Negri ci aiuta a capire come le vecchie utopie “internazionaliste” (già ampiamente negate dalla irriducibile vocazione “locale” dei movimenti operai nazionali) appaiono ormai prive di senso. Il capitolo prosegue poi analizzando un tentativo che va in tutt’altra direzione, vale a dire quello, da parte di Anthony Giddens e Ulrich Beck, di accreditare una versione neosocialdemocratica del mito internazionalista. Un mito che, soprattutto in Beck, assume la forma di un cosmopolitismo eurocentrico che mette in secondo piano la problematica del conflitto sociale, cui antepone il tema dei diritti individuali. Infine il capitolo si conclude discutendo le tesi dell’antropologo Arjun Appadurai, che affronta i problemi della globalizzazione dal punto di vista del processo di circolazione/ibridazione degli immaginari innescato dal sistema dei media.

L’importanza del contributo di Appadurai consiste soprattutto: 1) nella decostruzione dei luoghi comuni in merito alla presunta “americanizzazione” e/o omogenizzazione dell’immaginario globale (la capacità di appropriazione dei contenuti mediatici da parte delle “comunità diasporiche” tende piuttosto a favorire la proliferazione di differenze culturali e relativi conflitti); 2) nel mettere in luce il ruolo potente delle immagini mediatiche in quanto materia prima per la costruzione di nuove identità sociali.

La discussione delle tesi di Appadurai anticipa dunque il tema della ridefinizione del concetto di sfera pubblica da parte dei media, al centro del quinto capitolo. Quest’ultimo si articola in due parti: i primi tre paragrafi (dedicati, rispettivamente ai contributi di Richard Sennet, Erwin Goffman e Colin Crouch) analizzano le ragioni di un approccio “critico” al ruolo dei media, in quanto fattore di neutralizzazione del confine fra sfera pubblica e sfera privata; il quarto e ultimo paragrafo – che raggruppa suggestioni “neomcluhaniane” (con riferimento ai lavori di Abruzzese, Cristante, DeKerckhove e Lévy) – presenta viceversa gli argomenti di chi attribuisce ai media elettronici (e in particolare ai nuovi media) un ruolo “rivoluzionario” anche sul piano politico, oltre che sui piani economico, sociale e culturale.

Da un lato, quindi, postdemocrazia come catastrofe, dall’altro, postdemocrazia come utopia. In verità, dei tre autori presi in esame nei primi paragrafi, il solo Crouch si occupa esplicitamente della relazione fra media e crisi della democrazia, attribuendo ai primi la responsabilità dei processi di personalizzazione/spettacolarizzazione della politica e della progressiva riduzione dei cittadini a “pubblico”, tanto più impotente ad agire quanto più impegnato a manifestare sfiducia e disprezzo nei confronti della classe politica.

Tuttavia, sia il concetto di “società intimista” – con il quale Sennett critica la tendenza, già in atto nell’Ottocento ma compiutamente realizzata nel secolo successivo, a giudicare i leader politici in relazione al “carattere” e alle emozioni provate (o meglio recitate) piuttosto che alla capacità di rappresentare interessi collettivi -, sia il concetto di società “antidrammaturgica” – con il quale Goffman descrive “l’eccesso di trasparenza” che rischia di invalidare le regole non scritte che presiedono al reciproco riconoscimento di ruoli sociali – convergono con le preoccupazioni di Crouch, prefigurando un sistema politico in cui diventerebbe impossibile elaborare gerarchie di priorità fra aspirazioni private e interesse pubblico.

Un rischio che si rovescia in opportunità se osservato dal punto di vista delle mediologie “postmoderniste” analizzate nel quarto paragrafo: allo stesso modo in cui i teorici del postfordismo plaudono alla dissoluzione della classe nella moltitudine, vista come un universo di singolarità che esprimono e rivendicano autonomia produttiva nei confronti del capitale, i teorici neomcluhaniani salutano la trasformazione del pubblico “generalista” delle tv nell’arcipelago delle comunità di produttori/consumatori dei nuovi media; un processo di democratizzazione che – nella versione estrema di DeKerckhove – sarà sempre meno costretto a passare attraverso i meccanismi della rappresentanza politica, marciando verso forme di autogoverno in cui la stessa distinzione fra sfera pubblica e sfera privata finirà per perdere senso.

L’interrogativo di fondo che si prospetta alla fine delle prime due parti, e che costituisce il tema della terza parte (”Dai consigli ai cybersoviet”) è dunque il seguente: i processi di disarticolazione delle tradizionali identità di classe e di neutralizzazione della distinzione fra sfera pubblica e sfera privata (accelerati, se non provocati, dalla rivoluzione tecnologica e dai processi di globalizzazione economica, culturale e politica) vanno interpretati come passaggi catastrofici, oppure come opportunità di trasformazione rivoluzionaria?

E’ chiaro che, posto in questi termini, l’interrogativo non può avere una risposta netta e univoca, sul tipo di quelle che tendono a offrire critici ed entusiasti della rivoluzione digitale. Si tratta, piuttosto, di analizzare quali contingenze storiche possono indirizzare nell’una o nell’altra direzione, dando per scontato che aspetti negativi e positivi sono comunque destinati a intrecciarsi, ancorché in diverse proporzioni. Ecco perché la terza parte è interamente dedicata a un excursus storico che mette a confronto i grandi esperimenti di democrazia diretta che hanno scandito la marcia del movimento operaio (dai soviet russi ai movimenti degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso) con le nuove forme di partecipazione democratica rese possibili dalle tecnologie di rete.

Un confronto che non poteva non estendersi alle interpretazioni “ideologiche” che sono state date degli eventi storici in questione; il che comporta, fra le altre cose, sciogliere gli equivoci che nascono quando si ignorano le differenze di valori e di linguaggio fra la tradizione della sinistra europea e quella della sinistra americana (prescindendo dalla quale si rischia di non afferrare il significato delle culture politiche di rete, che hanno tutte la propria culla negli Stati Uniti).

Tenuto conto di quanto appena detto, non è difficile capire perché l’interrogativo che ho enunciato poco sopra abbia assunto di fatto la seguente forma: in che misura le istanze individualiste e libertarie, tipiche della tradizione americana, possono essere fatte proprie dalla sinistra europea, senza che ciò provochi uno slittamento verso esiti liberal-liberisti?

Apparentemente, il sesto capitolo affronta il tema alla lontana, occupandosi delle suggestioni che il modello politico americano ha esercitato sul pensiero di due colossi della cultura europea del Novecento: Max Weber e Hannah Arendt. In effetti, non si tratta affatto di una “deviazione” gratuita. Tentando di rintracciare nel sistema politico americano quel modello di “democrazia plebiscitaria” che, ai suoi occhi, rappresentava una possibile via di uscita dall’impotenza politica dei regimi parlamentari dell’Europa continentale, Weber apre squarci di grande attualità teorica sul ruolo del potere carismatico come fattore, ad un tempo, di rischio e di rinnovamento dei moderni sistemi politici.

Liberate dalla retorica “fordista” della razionalizzazione (la “gabbia d’acciaio” che racchiude imprese e amministrazioni pubbliche nella logica della razionalità burocratica), le “visioni americane” di Weber anticipano il tema del rapporto diretto fra il leader e il pubblico, offrendo un’utile cornice “idealtipica” per comprendere la logica postdemocratica dei media moderni, ivi compresi i nuovi media, per nulla esenti (come tento di dimostrare nella quarta parte) dal rischio di derive “populiste”.

A sua volta Hannah Arendt, mettendo a confronto il “fallimento” delle grandi rivoluzioni europee con il “successo” della rivoluzione americana, mette in luce, fra i fattori differenziali di tale successo, l’ampio spazio accordato – soprattutto nella prima fase della rivoluzione – alla partecipazione diretta dei cittadini, la diffidenza nei confronti di ogni forma di “professionismo” politico e la ricerca di riconoscimento da parte della comunità dei pari come motivazione di fondo dell’agire politico – fattori che i partiti rivoluzionari europei hanno costantemente negato, rivendicando il monopolio assoluto della rappresentanza politica. Si tratta di fattori che, dopo avere subito una lunga eclissi, provocata dai processi di concentrazione economica e dal ridimensionamento dei poteri locali da parte della sovranità federale, ricompaiono oggi come elementi costituivi del bagaglio politico delle culture di rete, giustificando il “fascino” che esse esercitano su una sinistra europea sempre più scettica in merito al valore delle proprie tradizioni culturali.

Al tempo stesso, il pensiero della Arendt anticipa un nodo problematico che può funzionare da antidoto nei confronti di “infatuazioni” superficiali per la cyberdemocrazia. Secondo Arendt, infatti, l’ideale americano di uguaglianza differisce da quello europeo (che affonda le radici nella Rivoluzione Francese) in quanto non rinvia a una presunta uguaglianza “naturale” fra uomini , bensì (sul modello della polis greca) a quell’uguaglianza “artificiale” che è frutto di principi e regole politiche. Il che significa che si dà uguaglianza solo ed esclusivamente sulla base di una rigorosa separazione fra sfera pubblica e sfera privata – separazione che viceversa viene negata nell’ambito della sfera dei media (e in misura ancora maggiore in quella dei nuovi media).

Il settimo capitolo approfondisce ulteriormente il contesto ideologico-culturale che favorisce la crescita di “tentazioni americane” nella sinistra europea, evocando la memoria storica dei “tradimenti” che i partiti e i sindacati (rivoluzionari e riformisti) europei hanno ripetutamente perpetrato ai danni di tutte le esperienze di democrazia diretta del movimento operaio (dalla liquidazione del potere dei soviet da parte del partito bolscevico in Russia nel 1917, all’esautoramento dei consigli operai da parte della socialdemocrazia tedesca nel 1919, alla strenua opposizione di PCI e CGIL nei confronti dei consigli dei delegati di reparto, nel corso delle lotte operaie in Italia fra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta).

Il capitolo si conclude con un paragrafo che analizza brevemente la “mutazione antropologica” che, a partire dalla seconda metà dei Settanta, ha posto fine a tale rapporto di egemonia e disciplinamento repressivo fra partiti e movimenti, spezzando la catena che ancora legava i secondi ai primi: a mano a mano che i nuovi movimenti si emancipano dal riferimento all’identità di classe, aggregandosi piuttosto attorno a identità di genere (femminismo), o a temi “trasversali” (ambientalismo, pacifismo, difesa di identità “locali”, ecc.) essi guadagnano in autonomia quanto perdono in termini di estensione e radicamento sociali, capacità di organizzazione e mobilitazione, durata temporale, ecc.

Questa tendenza evolutiva sembra creare le condizioni – è il tema dell’ottavo capitolo – per una progressiva neutralizzazione delle differenze fra tradizione europea e americana. I valori di quest’ultima – individualismo, populismo anti intellettualista (e quindi anche anti professionismo politico), localismo comunitario, libertarismo anarcoide, ecc – non sembrano più così “alieni” agli occhi dei militanti europei, al punto da consentire un processo di ibridazione culturale che trova un primo terreno di verifica nelle pratiche delle mobilitazioni “no global”.

Ma soprattutto la sinistra europea inizia a guardare con crescente interesse alle esperienze di federazione fra associazioni, gruppi e movimenti e alle pratiche di auto organizzazione politica dal basso mediate dalle reti di computer. Questi “cybersoviet”, che ereditano regole, valori e principi dalla tradizione della cultura hacker e delle prime comunità virtuali, sembrano in grado di garantire la partecipazione egualitaria alla discussione senza rinunciare all’efficienza deliberativa: le decisioni non vengono prese a colpi di maggioranze o minoranze, bensì all’unanimità, attraverso il metodo del convincimento reciproco e/o l’attribuzione di leadership nei confronti di figure che si sono conquistate la fiducia del gruppo (ma la cui autorità dipende esclusivamente dal riconoscimento della comunità dei pari e può essere revocata in qualsiasi momento); qualcosa di simile, insomma, al miscuglio di democrazia deliberativa e carisma personale che già aveva caratterizzato le esperienze consiliari.

Il problema è che, proprio nel momento in cui la sinistra europea inizia ad apprezzare queste forme organizzative e i valori su cui si fondano, esse hanno già subito un processo di marginalizzazione che le degrada al rango di nicchie subculturali da parte dell’ondata “cyberpop”.

Con questo termine (che dà il titolo all’ultimo paragrafo dell’ottavo capitolo), indico gli effetti dei massicci processi di commercializzazione, nonché di normalizzazione politico/culturale, che hanno investito Internet negli ultimi quattro-cinque anni. Così le pratiche di condivisione e cooperazione sociale divengono la base dei modelli di business delle imprese del Web 2.0; i processi di massificazione (o, per usare il termine paradossale degli esperti di marketing online, “la personalizzazione di massa”) dell’utenza, spacciati per “democratizzazione” della comunicazione, producono un generale abbassamento di qualità dei contenuti e danno spazio alle pulsioni esibizioniste di milioni di aspiranti produttori di mini reality show; la comunicazione politica in rete assume caratteristiche analoghe a quella televisiva, riproponendone il gusto per la spettacolarizzazione/personalizzazione, contribuendo a spazzare via ogni residuo confine fra sfera pubblica e sfera privata; l’accumulazione di capitale reputazionale premia le scelte populiste in politica e le scelte commerciali nella produzione culturale; il tutto legittimato dal mito della “oggettività” dei meccanismi di selezione spontanea dei contenuti, fondati sul “passaparola” degli utenti/consumatori, versione postmoderna del mito smithiano della mano invisibile.

In questo mutato contesto storico, la risposta all’interrogativo al centro di questa terza parte diventa obbligata: assumere acriticamente il modello “cyberdemocratico” made in Usa non significherebbe, per la sinistra europea, accogliere la lezione dei cybersoviet americani, bensì arrendersi alla cultura cyberpop e ai suoi valori, inequivocabilmente liberal/liberisti.

Riassumendo, con la terza parte si conclude un percorso teorico che affronta, nell’ordine, i seguenti temi: composizione di classe della società dell’informazione; ridefinizione (o meglio destrutturazione) della sfera pubblica da parte di vecchi e nuovi media; crisi delle forme classiche della politica e utopie postdemocratiche (terreno di un ambiguo intreccio fra concetti e linguaggi neoconsiliari e neoliberali). L’esito di tale percorso è un secco giudizio in merito al tramonto delle aspettative di democrazia diretta (cybersoviet) alimentate dalla prima fase della cultura di Internet, cui è subentrata una ideologia della “democratizzazione” modellata su valori neoliberali e sulle nuove forme di razionalità economica concresciute con le tecnologie del Web 2.0 (cyberpop).

Con la quarta parte (”Il ritorno della mano invisibile”) l’analisi, pur non abbandonando del tutto il piano teorico, si sposta prevalentemente su quello empirico, per cui il giudizio critico sulla vulgata ideologica della seconda ondata dei profeti della Rete, risorta dalle illusioni perdute della prima ondata (incenerite nel 2000/2001 assieme alle supervalutazioni dei titoli tecnologici), viene approfondito esaminando una serie di ricerche che permettono di smantellare tre grandi narrazioni mitiche (analizzate nel nono, decimo e undicesimo capitolo

Dopo avere ricostruito i motivi che hanno permesso al mito della natura “intrinsecamente anarchica” di Internet di sopravvivere a qualsiasi smentita dei fatti (in sintesi, potremmo dire che il mito, nato dalla convergenza fra l’ideologia libertaria dei progettisti di Internet e le soluzioni tecnologiche da essi adottate, è stato “ereditato” da un’utenza di massa che ignora le trasformazioni subite dalla Rete dopo che imprese e governi ne hanno strappato il controllo dalle mani dei “comitati degli ingegneri”), il nono capitolo sfrutta la dettagliata ricerca che Goldsmith e Wu (J. Goldsmith, T. Wu, 2006) hanno dedicato ai processi di “balcanizzazione” di Internet, dimostrando come ormai i governi (con la complicità delle imprese hi tech, che pure non perdono occasione di sbandierare i propri principi “libertari”) stiano rapidamente acquisendo notevoli capacità di controllo sui nuovi media.

Dopodiché il capitolo mette in discussione (nell’ultimo paragrafo) l’idea ultralibertaria secondo cui la Rete dovrebbe essere, per principio e in ogni caso, esente da qualsiasi controllo, idea cui contrappone l’esigenza della creazione di comitati di autocontrollo da parte delle comunità di utenza, in quanto abbandonare completamente il medium alle proprie dinamiche spontanee, “spianerebbe la strada alla legge del più forte” (Rodotà 2007).

Più articolato e complesso il discorso sul tema della trasparenza, affrontato nel decimo capitolo. Partendo dal principio di “trasparenza asimmetrica” – l’ideale democratico che vorrebbe poter controllare l’agire dei governanti come se costoro operassero in una “casa di vetro”, mentre rivendica per i governati il diritto alla privacy -, il capitolo mette in luce come l’avvento dei media digitali non abbia affatto assicurato il trionfo di tale principio.

Se è vero che questi ultimi hanno innescato una crescita generale dei livelli di trasparenza sociale, è infatti altrettanto vero che sono stati soprattutto i cittadini/consumatori a farne le spese, visto che il potere politico ed economico sa oggi infinitamente più cose su di loro di quante essi non ne sappiano sui potenti.

Il capitolo dedica quindi ampio spazio a quei processi di “vetrinizzazione” che vedono gli utenti/consumatori impegnati in una corsa inarrestabile alla autoesibizione. In particolare, vengono esaminate una serie di ricerche empiriche (quantitative e qualitative) sul fenomeno dei weblog, dalle quali emerge come, per la grande maggioranza dei blogger, le finalità di espressione personale e gestione della propria immagine prevalgano sulle velleità di controinformazione. Analizzando criticamente una ricerca (Di Fraia e altri, 2007) etnologica sulla blogosfera italiana, il capitolo torna quindi ad affrontare il tema del rapporto fra sfera pubblica e sfera privata, mettendo in luce il rischio della riduzione della sfera pubblica a sommatoria delle conversazioni privare, ciò che ne indebolirebbe drasticamente la capacità di influire sul sistema politico e sullo stesso sistema mediatico.

L’undicesimo e ultimo capitolo affronta, infine, il tema delle nuove disuguaglianze, smentendo i miti in merito alla “giustizia distributiva” che i meccanismi del Web 2.0 garantirebbero spontaneamente. La discussione prende avvio dalla questione del digital divide, un problema che sembra calamitare sempre meno attenzione, a mano a mano che il numero degli utenti cresce in tutto il mondo. Il che fa sì che si perda di vista l’aspetto cruciale della sfida, che non si riferisce alla possibilità di “chiudere la forbice” fra haves e have nots, bensì alla stratificazione sociale che si crea fra differenti categorie di utenza: l’élite degli utenti colti accede in misura enormemente superiore alle opportunità (economiche, culturali, di partecipazione politica, ecc) offerte dai nuovi media, rispetto alla massa degli utenti di fascia medio-bassa, i quali usano la rete quasi esclusivamente a fini di entertainment e consumo privato.

Ma la distribuzione ineguale di risorse in base al principio paretiano dell’80/20 è un fenomeno che riguarda praticamente tutte le dinamiche di rete: dalla concentrazione dei link (Barabasi 2004), alla costituzione di gerarchie di attendibilità nella blogosfera e nei social network. Dai meccanismi di tagging (l’etichettatura di contenuti affidata alle comunità di utenza) agli algoritmi di Google (che organizzano i risultati delle ricerche assumendo come “voti” di qualità i link che puntano a una determinata pagina web), l’intera impalcatura ideologica del Web 2.0 poggia sul tacito presupposto che l’attendibilità di un’informazione (l’autorevolezza di un blogger, il prestigio di uno scienziato, la competenza di un professionista, l’onestà di un commerciante, ecc) venga misurata “oggettivamente” dalle varie forme di passaparola digitale, laddove questi automatismi socio-meccanici possono tuttalpiù misurare indici di popolarità che, a loro volta, rispecchiano precisi rapporti di forza in campo economico, sociale e politico.

Ecco perché il capitolo si conclude con un paragrafo dedicato al “cyberpopulismo”, vale a dire alle forme di “democrazia plebiscitaria” elettronica, che trovano in Internet uno strumento non meno adeguato del “vecchio” medium televisivo, come ha ampiamente dimostrato il fenomeno Grillo in Italia.

Le conclusioni, come si è detto, sono di fatto anticipate alla fine della terza parte. Nelle ultime pagine mi limito a ribadirle, aggiungendo solo che la possibilità di tenere testa alla “controrivoluzione” liberale che sta affossando l’utopia dei cybersoviet è legata a due condizioni altamente improbabili: il rapido sviluppo di una consapevolezza di classe da parte di strati consistenti dei knowledge workers, e un ridimensionamento della schiacciante egemonia che il pensiero neoliberale esercita sul “popolo della rete” grazie alle seduzioni ideologiche del Web 2.0.

Carlo Formenti

Milano, 25 febbraio 2008

Fonte: http://www.pazlab.net/formenti/
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LE ILLUSIONI PERDUTE DELLA RETE

DI BENEDETTO VECCHI
Il Manifesto

«Cybersoviet», il nuovo saggio di Carlo Formenti per Raffaello Cortina. Finite le speranze di potere sperimentare l’altro mondo possibile nel Web rimane una realtà colonizzata dalle imprese

La dichiarazione di indipendenza del cyberspazio di John Perry Barlow fu lanciata, nel lontano 1996, come un sasso nello stagno e a cerchi concentrici di diffuse su Internet. Un testo che letto ancora oggi ha il fascino indiscusso del pamphlet, con quel misto di preveggenza, semplificazione che raramente hanno i documenti politici. John Perry Barlow aveva fatto parte del mouvement contro la guerra del Vietnam, scritto poesie e, soprattutto, era stato nei Grateful Dead, il gruppo rock interprete di quell’attitudine underground che in California stabiliva una linea di continuità tra il free speech di Berkeley, la produzione artistica «di strada» e le prime tecnologie digitali. La sua dichiarazione di indipendenza divenne così il documento politico di chi considerava la frontiera elettronica il luogo, seppur virtuale, dove sperimentare forme diverse di relazioni sociali, di sottrazione dal potere soffocante delle corporate company e del governo federale, nonché di costruzione della decisione politica all’insegna di una democrazia radicale che vedeva nel principio della rappresentanza un fardello da cui liberarsi al più presto. Per anni quel testo è stato il background teorico a cui attinto filosofi, economisti, sociologi e mediattivisti. Internet, il personal computer e il free software erano una «tecnologia della liberazione» che consentiva al cyberspazio di essere un habitat socio-tecnico altero, se non antagonista dell’economia di mercato.

Pragmatici e visionari

Una convinzione che ha caratterizzato anche la produzione teorica di Carlo Formenti, che ha dedicato a Internet due saggi (Incantati dalla rete e Mercanti di futuro, pubblicati rispettivamente da Raffaello Cortina e Einaudi) fortemente condizionati da quella visione libertaria del cyberspazio, seppure con una capacità innovativa e interlocutoria verso il pensiero critico di ispirazione marxiana. A sei anni dalla pubblicazione dell’ultimo saggio Carlo Formenti affronta nuovamente lo stato dell’arte della Rete nel volume Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media (Raffaello Cortina, pp. 279, euro 23). Gran parte delle tesi del passato sono passate al setaccio di un principio della realtà e con onestà intellettuale l’autore afferma che le speranze riposte nella Rete come laboratorio sociale per sperimentare nuove forme di democrazia – i soviet del postmoderno – e di produzione alternativa della ricchezza – l’«economia del dono» – si sono dissolte al sole della trasformazione di Internet in un luogo dove è invece egemone una logica capitalista.

Saggio autocritico, dunque, che ha il merito di ripercorrere criticamente il meglio della produzione teorica attorno alla Rete – le teorie di Manuel Castells e Yoachai Benkler, ma anche le riflessioni del media theorist Geert Lovink, del «cripto-marxista» Wark McKenzie e del visionario Richard Florida – mettendolo in un rapporto di tensione polemica con il percorso di ricerca che Formenti definisce «postoperaismo», in particolare con il concetto di moltitudine di Toni Negri.

Macchine dell’innovazione

È noto che lo studioso catalano Manuel Castells ha considerato le tecnologie digitali il medium per l’affermazione di un «capitalismo informazionale» che ha «colonizzato» gran parte del pianeta e che è rappresentato come un flusso di capitali, informazioni, merci, uomini e donne che può essere governato solo grazie alla presenza di organizzazioni produttive reticolari e attraverso l’uso intensivo di tecnologie digitali. Allo stesso tempo lo studioso catalano considera le relazioni di complementarietà anche conflittuale delle quattro componenti culturali – tecno-scientifica, hacker, imprenditoriale e degli utenti – presenti nella Galassia Internet come fattori dinamici che garantiscono la costante innovazione della rete sia dal punto di vista del software, dei prodotti e dell’organizzazione produttiva della rete. Una teorizzazione, quella di Castells, che auspica un rinnovamento del compromesso tra capitale e lavoro che consenta una riqualificazione dei diritti sociali di cittadinanza in un mondo che prevede una flessibilità della forza-lavoro complementare a quella dell’organizzazione produttiva reticolare.
Più radicali sono le posizioni di Yochai Benkler, che parla di un «capitalismo in assenza di proprietà privata»; o quelle di Richard Florida che sostiene l’egemonia della «classe creativa» rispetto all’insieme della forza-lavoro; lettura speculare a quella di Wark McKenzie che parla della formazione di una nuova classe sociale che chiama «vettoriale» e caratterizzata da un’etica hacker del lavoro.

Un accumulo di sapere che, seppur diversificato e spesso divergente rispetto agli esiti politici, ha rappresentato Internet come un’anomalia rispetto al mondo fuori allo schermo. Ed è con la convinzione che questi autori siano riusciti a mettere a fuoco alcune tendenze del capitalismo a partire da un’analisi di come funziona Internet che Carlo Formenti giunge alla conclusione che il World wide web è stato colonizzato dalla cultura corporate. Ma più che colonizzato sarebbe meglio parlare del fatto che quel laboratorio chiamato Internet ha funzionato a pieno regime e che ha rotto lo schermo del video, diventando il sistema vigente di produzione della ricchezza. E che i nodi e le aporie nel rapporto tra cooperazione sociale produttiva e capitale cognitivo attendono ancora di essere sciolti in un’ottica di un superamento del regime del lavoro salariato.

Sovranità in formazione

C’è infine un aspetto minore di Cybersoviet che invece apre un terreno di ricerca fin qui poco esplorato. È quando l’autore parla del «neomedievalismo istitutuzionale» che caratterizza le norme internazionali e la legislazione nazionale sulla rete. In questo caso è avvenuto che il processo in corso nella formazione di una nuova sovranità che stabilisca un rapporto dinamico e flessibile tra locale, nazionale e sovranazionale da fuori lo schermo venga esteso anche a Internet. Lo stato, così come gli organismi sovranazionali, hanno infatti perso il monopolio della decisione politica a causa della presenza di factory law private che definiscono norme e regole che spesso aggirano quelle istituzionali. La sovranità ha dunque necessità di una governance dove organismi sovranazionali, stati nazionali, imprese, factory law private e associazioni della cosiddetta società civile «cooperino» tra di loro in un rapporto asimmetrico di potere.

Sgomberato il campo dalle illusioni che il web potesse essere esso solo l’habita per costruire l’altro mondo possibile, il panorama è occupato da quella cooperazione sociale produttiva che deve essere precaria, e quindi assoggettata al capitale cognitivo, senza però che questa precarietà le impedisca di essere la fonte dell’innovazione. Dunque libertà e assoggettamento, gerarchie light ma all’interno del regime del lavoro salariato. Il problema dunque non è immaginare un cybersoviet, ma un soviet adeguato a una forza-lavoro che manipola manufatti linguistici e manufatti «fisici». Un soviet, cioè, che sia dentro e fuori lo schermo. Come dentro e fuori il video è il capitalismo cognitivo.

Fonte: http://www.ilmanifesto.it
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28.05.2008

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