COSI' NON E' PERO' PARE

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DI ADRIANO SCIANCA

In un bell’articolo di qualche anno fa
, Charles
Champetier individuava il nuovo volto del nemico in un triplice sistema di
dominio composto da tecnica,
mercato e spettacolo. Le figure tradizionali della
contrapposizione politica, spiegava, Champetier, sono ormai obsolete; al giorno
d’oggi il potere è esercitato da meccanismi impersonali che non vengono
esercitati in momenti e luoghi simbolici, ma in ogni istante e dappertutto. Più
che da una struttura di potere, il sistema è oggi costituito da una dimensione
esistenziale in cui siamo tutti calati. Già, perché la nuova forma del dominio
non prevede una costrizione esterna, quanto piuttosto un assorbimento al suo
interno. Noi viviamo nella tecnica, nel mercato, nello
spettacolo. Ogni aspetto delle nostre esistenze non riconducibile a tale schema
è “normalizzato” o soppresso: ciò che non è efficace è sorpassato, ciò che non è
redditizio è assurdo, ciò che non è visibile è inesistente. Il risultato è il
mondo senza senso: l’economia produce per produrre, la tecnica progredisce per
progredire, lo spettacolo mostra per mostrare. Ciò che un tempo era un mezzo
sottomesso ad altri fini, ora è fine a se stesso. Torna in mente la sentenza di
Nietzsche sul nichilismo come assenza di risposta al “perché?”. Ebbene,
la profezia si è compiuta. Viviamo in un mondo che, come direbbe Alain de
Benoist, non sa dove andare, ma non cessa di affermare che c’è un solo modo per
recarvisi.
Spettacolo e realtà


Lo spettacolo è formato da singoli
aspetti del mercato e della tecnica che vanno a costituire un insieme autonomo
inglobante l’ambito dell’informazione e delle rappresentazioni collettive. Lo
notarono già Adorno e Horkeimer in tempi non sospetti: “il film, la radio ed
i settimanali costituiscono, nel loro insieme, un sistema. Ogni settore è
armonizzato al suo interno e tutti lo sono tra loro
”. E tutto ciò nonostante
il tanto sbandierato pluralismo: “le distinzioni enfaticamente ribadite
tra i differenti prodotti culturali, continuavano i due filosofi ebrei, “più
che essere fondate sulla realtà e derivare da essa, servono a classificare e
organizzare i consumatori, e a tenerli più saldamente in pugno. Per tutti è
previsto qualcosa perché nessuno possa sfuggire; le differenze vengono inculcate
e diffuse artificialmente
[2]. Ciò che vediamo
cambia continuamente, ma rimane costante il dominio della visione dell’immagine
spettacolarizzata. Nella nostra società, infatti, la visione ha sostituito sia
l’azione che la riflessione. Non si crede che a ciò che si vede. Ciò che è visto
soppianta ciò che è vissuto. Lo spettacolo, dice Guy Debord, non è nient’altro
che “l’impoverimento, l’asservimento e la negazione della vita
reale
[3]. La visione spettacolarizzata diviene la sola
possibilità di esistenza degli enti. Da qui si deduce che la società dello
spettacolo non è solo il regno della menzogna (benché di menzogne pure e
semplici ce ne siano a bizzeffe), quanto piuttosto la vera e propria dimensione
della non-verità assoluta, la dimensione in cui è impossibile fare esperienza
della verità, il mondo in cui esiste solo ciò che è posto sotto la luce dei
riflettori, mentre ciò che dimora nella sua esistenza autentica è come se
rimanesse in un’oscurità originaria
[4]. Come
mosche di fronte ad un vetro, sbattiamo la testa per raggiungere una realtà che
non afferriamo senza capire chi e cosa si frapponga tra noi ed essa
[5]. In
questo modo, però, la nostra capacità di comprensione e di comunicazione ne esce
irrimediabilmente compromessa. La società dello spettacolo entra in noi e ci
trasforma dall’interno. In particolare, la nostra personalità viene
disarticolata su tre livelli distinti: livello informativo, livello sociale e
livello psichico.



Vedere e
non capire



Il livello informativo è quello in cui lo
spettacolo agisce deformando la nostra percezione del mondo. Tutto ciò che sai è falso”, ha scritto di
recente qualcuno, ed è difficile dissentire. Noi oggi non siamo più in grado di
comprendere ciò che ci accade intorno senza fare ricorso alle risposte
preconfezionate o a paradigmi semplicistici somministratici ad arte. Lo schema
morale dei “buoni” e dei “cattivi” è stato ormai inserito a forza tra le nostre
strutture mentali implicite, e la nostra “libertà di pensiero” consiste
semplicemente nell’assegnare ogni comparsa allo schieramento cui è destinata ad
appartenere. I tasselli del puzzle ce li dà la TV e l’incastro è necessariamente
quello stabilito, ma in fin dei conti quando mettiamo insieme i pezzi nessuno ci
punta la pistola alla nuca: a qualcuno tanto basta per autodefinirsi “libero”.
La moltiplicazione dei canali informativi ha finito quindi per coincidere con la
totale assenza di reale informazione. Ne è un simbolo eloquente l’attacco alle
Torri Gemelle, allo stesso tempo l’evento e l’anti-evento per
eccellenza. L’11 settembre è il momento della trasparenza assoluta,
dell’informazione globale realizzata, lo spettacolo che riunisce
contemporaneamente tutta l’umanità davanti al teleschermo per assistere in tempo
reale allo stesso evento ripreso da migliaia di telecamere. Ma allo stesso
tempo, siamo di fronte ad un anti-evento, alla mistificazione più totale della
realtà, alla finzione completa. È vero, lo abbiamo visto tutti. Eppure ne
ignoriamo ogni aspetto. Sappiamo con assoluta certezza che qualcosa ha avuto
luogo, ma questo qualcosa è così vicino all’essenza stessa del meccanismo
spettacolare che è concentrato di falsità allo stato puro. Non c’è alcuna
immagine che abbiamo visto tante volte come quella di quegli aerei che si
schiantano; ma allo stesso tempo, non c’è fatto storico di cui sappiamo meno.
Vedere e non capire è ormai il nostro destino. La comprensione o l’analisi ci
sono precluse; ci rimane solo stupore e indifferenza, paura e divertimento,
isteria ed apatia, dispensati a dosi alterne, a seconda delle esigenze del
sistema.



Destrutturazione del sociale



Il livello
sociale
è quello in cui la personalità degli individui ed il loro legame con
gli altri viene destrutturato e riplasmato in base alla logica mercantile.
Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale
tra individui, mediato dalle immagini
”, notava già Debord [6]. Noi non viviamo
che relazionandoci agli altri, ma oggi non esiste legame sociale che non sia
interno allo spettacolo. Qui, più che i telegiornali, possono le fiction,
i reality show e lo star system in generale. Proponendo
determinati modelli, la società dello spettacolo penetra nei rapporti
inter-individuali e si riproduce. La competizione darwinista, il moralismo
ipocrita, l’individualismo decadente, l’etnomasochismo, la vanità narcisistica,
la piccola meschinità, il conformismo più vuoto, la superficialità più
sconcertante e l’ignoranza più abissale elevati a norma: è in tutto questo che
siamo immersi quotidianamente grazie al bombardamento mediatico. Prende il
sopravvento la banalità come linguaggio, il che significa non tanto che si
dicano cose banali, ma che non si sia capaci di comunicare se non attraverso la
banalità. Ovvero: si parla e non si dice nulla. È il culmine dell’alienazione:
La coscienza spettatrice, prigioniera di un universo appiattito, delimitato
dallo schermo dello spettacolo, dietro il quale è stata deportata la sua vita,
non conosce più se non gli interlocutori fittizi che la intrattengono
unilateralmente sulla loro merce e sulla politica della loro merce
[7].



La
Grande Famiglia



Tale meccanismo alienante, per farsi seducente,
non può che vestirsi di finta autenticità. La tendenza al “realismo” della TV
attuale mira infatti a creare una sorta di “familiarità” con la finzione dello
schermo, cercando di far appassionare il pubblico a piccole vicende
insignificanti con cui si possa identificare. “Dicono che avere un secondo
schermo a muro è come sentirsi circondati dalla Grande Famiglia
” dice Julie
Christie in Fahrenheit 451 di Truffaut. È proprio così: la “Grande
Famiglia” ti avvolge e ti ingloba. Ti ritrovi a chiamare per nome degli
sconosciuti visti sullo schermo come se fossero tuoi intimi amici. Li senti
vicini, ti sembrano come te. Ma in realtà sei tu che stai diventando come loro.
Questi show, infatti, non rappresentano la realtà. La costruiscono. Non
sono descrittivi ma normativi. Essi non mostrano ciò che è ma ciò che deve
essere. Lo stesso dicasi per il culto dei VIP e degli aspetti più privati delle
loro esistenze: l’individuo “normale” si trova catapultato nei pettegolezzi
sulla vita sentimentale dei miliardari ignoranti e viziati divinizzati dai media
e fantastica così su di una vita che non potrà avere mai ma che gli servirà da
modello per orientare la sua. Viviamo in un mondo di VIP mancati, che non
sognando nient’altro che lo stile di vita dei divetti straricchi ed annoiati,
mostrano di aver già interiorizzato un certo disprezzo di sé stessi, delle
proprie origini culturali e sociali. Grazie alla società dello spettacolo
cominciamo ad odiare la parte di noi che rimane autentica, vera, radicata,
quella parte che se non venisse disintegrata ci impedirebbe di accedere
all’Olimpo mediatico, come previsto dal classismo post-moderno che separa chi
appare da chi non appare.



La
devastazione del cervello



Il livello
psichico
, poi, è quello
della vera e propria disarticolazione della personalità ad un livello anche
fisiologico. Si pensi all’azione destrutturante esercitata sul cervello umano.
Come si sa, il cervello funziona grazie alla sinergia di emisfero sinistro ed
emisfero destro. I due emisferi elaborano le informazioni in modi differenti
destinati poi ad intrecciarsi armonicamente: l’emisfero sinistro ragiona in un
modo che potremmo definire analitico, lineare, consequenziale, scientifico,
digitale, quello di destra in un modo intuitivo, simbolico, immaginativo,
sintetico, analogico. Ora, è stato rilevato come l’uso delle nuove tecnologie
mediatiche sia in grado di creare strutture mentali prioritarie, favorendo
determinate facoltà (quelle “digitali”) a detrimento di quelle centrali per il
pensiero simbolico e relazionale
[8]. Altri hanno individuato in tale separazione
l’origine dell’imbarbarimento della nostra società e del dilagare della violenza
nichilista fine a se stessa
[9]. Qui non parliamo di atteggiamenti o mentalità,
quanto piuttosto di organizzazione cognitiva e persino neuronale. Si pensi solo
che la televisione ha già modificato il modo in cui usiamo i nostri occhi e sta
contribuendo persino a squilibrare i nostri valori ormonali. E non è tutto:
l’autorevole rivista specialistica Pediatrics, ad esempio, ha compiuto
studi che hanno dimostrato come in America il cervello dei bambini si formi sui
tempi televisivi – in cui tutto avviene velocemente, a lampi brevi e improvvisi
– tanto da non riuscire più a concentrarsi quando non riceve lo stesso tipo di
stimolo veloce. Un numero crescente di bambini, ormai, non riesce a concentrarsi
mai, neanche per qualche minuto. Stiamo dando vita allo zombi globale, unico
cittadino possibile del mondo post-umano che stiamo preparando.


La
ribellione spettacolare



Stando così le cose, come contrapporsi alla
tirannia dello spettacolo? La via istintivamente intrapresa dai più è quella
dell’estremismo. L’estremismo è l’eccessività effimera del gesto,
l’attitudine a conferire ai propri discorsi una visibilità che superi per un
attimo in intensità la monotonia del già-visto, senza però uscire dal paradigma
della visione spettacolarizzata. Esso è, come si intuisce, totalmente interno
alla società dello spettacolo. A livello macrostorico e macropolitico,
l’estremismo diviene terrorismo: in fin dei conti il mito dello “scontro
di civiltà” (Occidente vs Terrorismo Islamico) non è che la versione
globale ed aggiornata del mito degli “opposti estremismi” (anticomunismo
reazionario vs antifascismo reazionario). Cambia l’intensità (e la
tragicità) ma non i risultati. Il potenziale rivoluzionario
dell’estremismo/terrorismo è difatti pari a zero. Anzi: svolgendo un ruolo
all’interno della società dello spettacolo, l’estremista ed il terrorista non
solo non mettono in discussione nulla, ma divengono addirittura funzionali al
sistema che a parole vorrebbero combattere, prendono le fattezze di comparse in
una recita più grande di loro. E spesso non c’è nemmeno bisogno di
casting eterodiretti: essi trovano da sé il proprio posto nella
commedia, viene loro spontaneo
assumere la parte che gli è stata destinata.



Il pensiero
radicale



Fuori dalla commedia, ed anzi impegnato ad
appiccare il fuoco all’intero teatro, è invece chi sappia assumere posizioni
radicali. Il radicalismo è l’antitesi dell’estremismo. Il primo è
silenzioso, vissuto, lungimirante, operativo; il secondo è chiassoso, recitato,
miope, inconcludente. Non incentrato sui gesti ma sulle azioni, il radicalismo
è, etimologicamente, la capacità di andare alla radice. Alla radice di se
stessi, innanzitutto: il pensiero radicale è sempre radicato. O meglio, deve
esserlo: chi si avventura nel regno del nulla deve avere un’identità forte per
non assumere egli stesso le sembianze del nemico. Ma pensiero radicale significa
anche andare alla radice dei problemi, comprendere gli avvenimenti in
profondità, sapendoli mettere in prospettiva. Scuola di autenticità e di
realismo, il pensiero radicale è oggi l’unica via percorribile che possa con
ragione definirsi rivoluzionaria. Già, perché il primo compito di ogni volontà
rivoluzionaria è quella di calarsi concretamente nella realtà, al di là
dell’isteria e dell’utopia, le due sole alternative che la società
dello spettacolo ci offre. Operare per un ritorno al reale, quindi. Generare
nuove consapevolezze. Risvegliare coscienze assopite. Uscire dalla cappa
soffocante della non-verità per tornare finalmente a riveder le
stelle.

Adriano Scianca
FONTE:da Orion n. 241, ottobre 2004


Il mondo in cui vivi non
esiste.


Tutto ciò che sai è
falso.


Apri gli
occhi.


Ora.










[1] Charles
Champetier, Marché – Technique – Spectacle : les formes de la domination.
L’articolo – del 1998 – è reperibile sul sito del GRECE : www.grece-fr.net



[2]
Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi,
Torino 1997. Sul pluralismo come simulacro di libertà vedi pure Guillaume Faye,
Il Sistema per uccidere i popoli, S.E.B. Milano 1997



[3]
Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano
2001.



[4]
Si vede bene come il concetto greco di verità come aletheia
(non-nascondimento) è esattamente ribaltato. Nella società dello spettacolo è
ciò che è vero che risulta nascosto, mentre ciò che è falso è dato in piena
visibilità.



[5]
La metafora è di Baudrillard: “Oggi non siamo noi a pensare il virtuale, è il
virtuale a pensare noi. Separandoci definitivamente dal reale,
quest’inafferrabile trasparenza ci è intelligibile quanto lo è per una mosca il
vetro in cui sbatte, senza capire che cosa la separi dal mondo esterno: nemmeno
può immaginare che cosa le limiti lo spazio
”. (Jean Baudrillard, L’uomo è
una mosca prigioniera del virtuale
, in L’Unità, 28/7/01)



[6] Guy Debord, op.
cit



[7] Guy Debord, op.
cit.



[8]
Cfr. Franco Fileni, Analogico e Digitale, Edizioni Goliardiche, Trieste
1999.



[9]
Penso alle riflessioni di Gabriele Adinolfi sul saggio La violenza dei giovani ed
il cervello rettile
del vietnamita Minh Dung Nghiem. Cfr
www.gabrieleadinolfi.it

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