DI MICHAEL T. KLARE
Lentamente si sta rivelando l’imponente strategia dell’amministrazione Bush. Essa non è principalmente mirata alla difesa dal terrorismo globale, a fermare l’azione degli stati canaglia, o ad esportare la democrazia nel Medio Oriente. Questi motivi potranno certamente dominare l’arena della retorica o essere le apparenti cause, ma non sono certamente le motivazioni vere del dispiego di tali risorse militari. Il vero ed imperativo obiettivo dell’installazione di basi e di questo schieramento di truppe militari a lungo termine è il contenimento della Cina.Questo obiettivo perpetrato dalla Casa Bianca, che fu lungamente pianificato e studiato, ma messo da parte per evidenziare, come era d’obbligo, la lotta al terrorismo dopo l’11 settembre, viene ora alla luce. E benché sia chiara la preoccupazione di Bush riguardo l’Iraq e l’Iran, la Casa Bianca sta ora dando nuova enfasi ai suoi progetti sulla Cina, rischiando che l’Asia si armi, con potenziali conseguenze veramente catastrofiche.Il presidente Bush e i suoi aiutanti in campo fecero il loro ingresso alla Casa Bianca nel 2001 con un chiaro obiettivo strategico: rispolverare la dottrina del dominio-permanente, esposta dettagliatamente nel Defense Planning Guidance (DPG) per l’esercizio finanziario 994- 99, il primo piano formale degli obiettivi statunitensi nell’era post Sovietica. Secondo le prime bozze officiali del documento, come dichiarato alla stampa nel 92, il primo obiettivo della strategia degli U.S.A. sarebbe stato fermare l’avanzata di ogni futura concorrente che avrebbe potuto compromettere la supremazia miliare dell’America.
“Il nostro primo obiettivo è di prevenire il riemergere di nuovi rivali… che possano essere una minaccia, come quella che fu rappresentata dall’Unione Sovietica” si affermava nel documento. E così. “…dobbiamo cercare di prevenire ogni potere ostile di qualsiasi regione le cui risorse siano sufficienti a divenire un potenza globale.”
Quando fu resa pubblica, questa dottrina fu condannata dagli alleati dell’America e da molti leader interni che la ritennero un inaccettabile imperialismo, costringendo il primo presidente Bush a calare il tiro, ma l’obiettivo di rendere l’America la sola superpotenza non è mai stato abbandonato dagli strateghi dell’amministrazione della Casa Bianca. Infatti, divenne il primo obiettivo della politica militare statunitense quando il più giovane Bush divenne presidente nel febbraio 2001.
OBIETTIVO CINA
Quando venne enunciata per la prima volta nel 92, la dottrina della dominazione permanente non identificava i futuri concorrenti, la cui crescita doveva essere impedita con metodi coercitivi. A quel tempo, gli strateghi degli U.S.A. si preoccupavano di un’accozzaglia non meglio definita di rivali tra cui la Russia, la Germania, il Giappone, e la Cina: ognuno di questi, si pensava, potesse emergere in qualche decennio e diventare una superpotenza, e così tutti andavano dissuasi dal muoversi in questa direzione. Nel momento in cui la seconda amministrazione Bush entrò alla Casa Bianca, il range dei potenziali rivali era stato ristretto alla sola Repubblica Popolare Cinese. Solo la Cina, venne evidenziato, possiede le capacità economiche e miliari per competere con gli Stati Uniti ed aspirare a divenire una superpotenza; così perpetuare la dominazione globale degli USA significava contenere il potere cinese.
L’imperativo di contenere la Cina era già stato definito dalla Condoleeza Rice, quando era consigliere per gli esteri dell’allora governatore Gorge W. Bush, durante la campagna alle elezioni politiche del 2000. Su un articolo molto citato del Foreign Affairs, definì la Repubblica Popolare come una potenza ambizioso, che sarebbe inevitabilmente divenuta concorrente agli interessi degli USA: “La Cina è una grande potenza, con interessi vitali tuttora insoluti, come la questione di Taiwan” scrisse “ed inoltre risente del ruolo degli Stati Uniti nella regione Asia-Pacifico.”
Per queste ragioni, affermò “la Cina non è uno status quo, ma una potenza che potrebbe alterare l’equilibrio asiatico a suo favore. La qual cosa, da sola, la rende una rivale strategica, e non un ‘partner strategico’ come prima la definiva l’amministrazione Clinton.” Era essenziale, sottolineò, adottare una strategia tale da prevenire il sorgere della Cina come potenza regionale. In particolare, “Gli Stati Uniti devono approfondire la cooperazione con il Giappone e la Corea del Sud, e mantenere una robusta presenza militare nella zona.”
Washington avrebbe dovuto inoltre “fare molta attenzione al ruolo dell’India nell’equilibrio regionale” e portare quel paese in un sistema di alleanze anti-cinese.
Guardando indietro nel tempo, colpisce come questo articolo abbia sviluppato la dottrina del non-permettere-alcun-concorrente del DPG 1992 in una vera strategia, che è stata ora implementata dall’amministrazione Bush, nel Pacifico e nell’Asia del sud. La maggior parte delle politiche perorate allora, dal rafforzo dei legami con il Giappone alle aperture verso l’India, sono state oggi portate a termine.
Nella primavera-estate del 2001, l’effetto maggiore di questo lavoro strategico è stato quello di distrarre la Rice dall’incombente minaccia di Osama bin Laden e Al Qaeda. Durante i suoi primi mesi come ministro per la sicurezza nazionale, la Rice si votò completamente all’implemento del piano che già avevo definito su Foreign Affairs.
I suoi principali obiettivi, nel primo periodo, erano cancellare il Trattato missilistico anti-balistico con la Russia, e legare Giappone, Corea del Sud e Taiwan in un sistema congiunto di difesa missilistica, che, come sperato, si sarebbe evoluto in una alleanza anti-cinese, ancorata al Pentagono.
Richard A. Clarke, responsabile del contro-terrorismo alla Casa Bianca, punterà il dito contro la Rice che, a causa delle sue preoccupazioni per la Russia, la Cina e le politiche da grande potenza, trascurerà le minacce di un possibile attacco di Al Qaeda agli USA e così di fatto non mise in atto azioni difensive che avrebbero potuto impedire l’11 settembre. Benché la Rice sia sopravvissuta ai problemi sollevati durante i lavori della commissione 11 settembre senza dover riconoscere le accuse di Clark, qualsiasi storico attento, cercando risposte per il fallimento senza scuse dell’amministrazione Bush che non ascoltò le minacce di un possibile attacco terroristico nel paese, dovrebbe iniziare con il focalizzare l’attenzione sul contenimento della Cina in questo periodo critico.
LA CINA ACCANTONATA
Dopo l’11 settembre, sarebbe sembrato sconveniente per Bush, la Rice e gli altri alti funzionari dell’amministrazione, spingere l’agenda Cina — e in ogni caso spostarono rapidamente il loro centro d’interesse su di un obiettivo neo-conservatore a lungo termine, il rovesciamento di Saddam Hussein e la proiezione della potenza americana nel Medio Oriente. Così la “Lotta Globale al Terrore” (o GWOT, come si dice al Pentagono) divenne l’argomento di discussione principale e l’invasione dell’Iraq l’interesse principale. Ma l’amministrazione non aveva mai in realtà completamente perso di vista la sua strategia sulla Cina, benché potesse fare poco a proposito. Piuttosto, la guerra lampo in Iraq e la futura proiezione del potere americano sul Medio Oriente sarebbero dovuti essere intesi, almeno in parte, come un monito alla Cina, ricordandole lo schiacciante potere militare americana e l’inutilità di tentare di competere con gli USA.
Per i successivi due anni, quando tutti gli sforzi venivano diretti alla ricostruzione dell’Iraq ad immagine degli USA e a contrastare una così inaspettata e potente insurrezione irachena, la Cina è stata sicuramente messa nel cassetto. Nello stesso tempo, gli investimenti cinesi in moderne tecnologie militari e la sua crescita economica nel Sud Est asiatico, in Africa e in America Latina – con molti legami tesi all’approvvigionamento del petrolio e di altri prodotti vitali – hanno raggiunto livelli che non si possono ignorare.
Dalla primavera del 2005, la Casa Bianca è tornata indietro e ha ripreso la grande strategia mondiale della Rice. Il 4 giugno 2005, in una conferenza a Singapore, il segretario alla difesa Donald Rumsfeld si pronunciò con enfasi riguardo al crescente sviluppo militare cinese, indicando il pericolo che esso rappresentava per il mantenimento della pace e della stabilità regionale.
La Cina, dichiarò, stava “espandendo le sue forze missilistiche, con la possibilità di raggiungere obiettivi in molte aree del mondo” e stava migliorando le sue capacità di potenza” nell’area Asia-Pacifico. Con sublime ingenuità, aggiunge, “dato che nessuna nazione sta minacciando la Cina, uno dovrebbe chiedersi: perché sta accrescendo i suoi investimenti? Perché questo continuo e crescente acquisto di armi? Perché questo robusto dispiego di energie?” Anche se Rumsfeld non ha risposto alle sue domande, l’implicazione è chiara: la Cina ha ora intrapreso una corsa che la renderà una potenza regionale, minacciando un giorno di competere con la presenza americana in Asia.
Questo primo segno di ripresa del chiacchiericcio retorico anti-cinese è stato in seguito accompagnato da atti più concreti. Nel febbraio 2005, Rumsfeld e Rice hanno ospitato un incontro a Washington con alti funzionari giapponesi, firmando un accordo di cooperazione militare tra i due stati. Conosciuto come “Dichiarazione congiunta del Comitato Consultivo USA-Giappone sulla Sicurezza”, l’accordo richiamava una più grande collaborazione tra le forze americane e giapponesi nel condurre operazioni militari in un’area che si estende dal Nord Est asiatico al mare del sud della Cina. Richiamava anche una consultazione più rafforzata riguardo alle politiche su Taiwan, indicando implicitamente che il Giappone sarebbe pronto a sostenere gli USA contro la Cina nel caso che Taiwan avesse dichiarato la sua indipendenza.
Questo accadeva nel momento in cui Pechino stava esprimendo un crescente allarme riguardo le mosse pro-indipendenza di Taiwan, e quello che i cinesi vedevano come una rinascita del militarismo in Giappone – il che evoca dolorose memorie della seconda guerra mondiale, quando i giapponesi invasero la Cina e si resero responsabili di vaste atrocità nei confronti dei civili cinesi. E’ comprensibile quindi come l’accordo possa apparire alla Cina, in modo lapalissiano, come espressione della determinazione dell’amministrazione Bush di consolidare un sistema di alleanze in chiave anti-cinese.
LA NUOVA GRANDE SCACCHIERA
Perché la Casa Bianca si è decisa in questo particolare momento a far rivivere il suo progetto di contenimento della Cina? Molti fattori possono avere contribuito a questo, ma sicuramente il più significativo è la percezione che la Cina alla fine fosse emersa di diritto come una principale potenza regionale e cominciasse a contrastare il predominio militare americano nella regione Asia-Pacifico. Questo si era manifestato fino ad una certa misura – come affermato dal Pentagono – in termini militari, quando Pechino ha iniziato a rimpiazzare armi tipo-sovietico di annata-guerra-coreana con progetti russi più moderni (anche se difficilmente all’avanguardia).
Ma non sono state propriamente le mosse militari della Cina ad allarmare realmente i politici americani – la maggioranza degli strateghi professionisti continuano a sostenere l’inferiorità militare cinese – ma piuttosto il successo di Pechino nell’usare il suo enorme potere d’acquisto e appetito di risorse per stabilire relazioni amichevoli con alleati americani di vecchia data, come la Thailandia, l’Indonesia e l’Australia. Poiché l’amministrazione Bush, concentrata sulla guerra in Iraq, ha fatto poco per contrastare questo andamento, i rapidi guadagni della Cina nell’Asia sud orientale hanno fatto alla fine suonare l’allarme a Washington.
Allo stesso tempo, gli strateghi repubblicani stavano diventando sempre più consapevoli del crescente influsso della Cina nel Golfo Persico e nell’Asia centrale – aree considerate di importanza geopolitica vitale per gli Stati Uniti, a causa delle grandi riserve di gas naturale e petrolio che vi sono sepolte. Influenzati da Zbigniew Brzezinski che, nel suo libro del 1997, The Grand Chessboard: American Primacy and Geostrategic Imperatives [La grande scacchiera: il primato Americano e gli imperativi geostrategici], gli strateghi repubblicani hanno cercato di contrastare le scorrerie cinesi. Benché Brzezinski sia stato in gran parte escluso dai circoli dell’elite repubblicana per la sua collaborazione con la disprezzata amministrazione Carter, i principali strateghi dell’amministrazione hanno fatto proprio il suo appello per una spinta coordinata degli USA per dominare sia i confini orientali che quelli occidentali della Cina.
In questo modo, la preoccupazione di Washington, riguardo la crescente influenza cinese nel sudest asiatico si è venuta ad intersecare con i piani statunitensi per il predominio e l’egemonia nel Golfo Persico e nell’Asia centrale. Questo ha portato Washington a dare alla questione Cina un ancora maggiore peso — e ci fornisce la spiegazione del suo passionale ritorno, nonostante le preoccupazioni a tutto campo della guerra in Iraq.
Qualunque sia l’esatto contrappeso dei fattori, l’amministrazione Bush è ora chiaramente coinvolta in uno sforzo sistematico e coordinato per contenere la potenza cinese e la sua influenza in Asia.
Questo sforzo appare avere tre chiari obiettivi: convertire le esistenti relazioni con Giappone, Australia e Sud Corea in una robusta ed integrata alleanza anti-cinese; portare altre nazioni, specialmente l’India, a far parte di questa alleanza; ed espandere le capacità militari degli USA nella regione dell’Asia-Pacifico.
Da quando, due anni fa, è cominciata la campagna tesa a stringere legami con il Giappone, i due stati si sono incontrati continuamente per definire protocolli tesi all’implementazione di accordi strategici entro il 2005. In ottobre, Washington e Tokio hanno rilasciato il protocollo sulla “Trasformazione dell’alleanza e il riallineamento” che dovrà guidare la futura integrazione delle forze statunitensi e giapponesi nel Pacifico e la simultanea ristrutturazione del sistema di basi militari americane in Giappone. (Alcune di queste, specialmente quelle di Okinawa, sono diventate causa di attriti tra USA e Giappone, così il Pentagono sta ora pensando di ridimensionarne le installazioni più grandi). Funzionari giapponesi ed americani sono anche impegnati in uno studio congiunto di “inter-operabilità”, che ha lo scopo di aggiustare tra i due paesi l’interfaccia fra i sistemi di comunicazione e combattimento. “Questa stretta collaborazione si sta facendo più forte anche nel campo della difesa missilistica” ha detto l’ammiraglio William J. Fallon, comandante in capo del Comando Statunitense nel Pacifico (PACOM).
Grandi passi sono stati fatti anche nell’avvicinare la Corea del Sud e l’Australia all’alleanza americana–giapponese. La Corea del Sud è molto riluttante ad accogliere questa alleanza, vista la pesante occupazione militare che subirono da parte dei giapponesi dal 1910 al 1945; ma l’amministrazione Bush sta spingendo verso ciò che essa chiama “ Cooperazione Militare Trilaterale” tra Seoul, Tokyo e Washington. Come indicato dall’ammiraglio Fallon, questa iniziativa ha un’esplicita dimensione anti-cinese. I legami dell’America con la Corea del Sud devono adattarsi ai “mutamenti della situazione di sicurezza” rappresentati dalla “modernizzazione militare cinese”, ha detto Fallon il 7 marzo al Comitato delle Forze Armate del Senato. Cooperando con gli USA e il Giappone, – ha continuato – la Corea del Sud si muoverà da un prevalente interesse focalizzato sulla Corea del Nord verso il mantenimento di una maggiore stabilità e sicurezza regionale.
Portare l’Australia a far parte di questa emergente rete anti-cinese è stata una delle principali priorità di Condoleeza Rice, che vi ha passato diversi giorni a metà marzo. Benché sia stata pianificata in parte per rinsaldare i legami tra USA e Australia (largamente deterioratisi durante gli ultimi anni), il principale scopo della sua visita era di tenere un incontro con alti funzionari australiani, americani e giapponesi per sviluppare una strategia comune con il fine di frenare la crescente influenza cinese in Asia. Non sono stati annunciati risultati formali, ma il 19 marzo Steven Weisman riportava sul New York Times che la Rice aveva convocato tale convegno per “approfondire un’alleanza regionale a tre indirizzata a bilanciare la crescente presenza della Cina”.
Un ulteriore guadagno, secondo il punto di vista di Washington, sarebbe l’integrazione dell’India in questa emergente alleanza, una possibilità già espressa dalla Rice nell’articolo di Foreign Affairs. Ma questa possibilità è stata a lungo fermata dalle continue obiezioni del Congresso al programma di proliferazione nucleare dell’India e dal suo rifiuto a firmare il patto di non proliferazione nucleare. Secondo la legge americana, nazioni come l’India che si rifiutino di cooperare alla non proliferazione possono essere escluse da varie forme di aiuto e cooperazione. Per superare questo problema, il presidente Bush si è incontrato con funzionari indiani a Nuova Delhi a marzo, e ha negoziato un accordo nucleare che aprirà i reattori civili dell’India alle ispezioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, che fornirà una copertura di cooperazione sulla non proliferazione al cospicuo programma di armi nucleari dell’India. Se il Congresso approva il piano di Bush, gli USA saranno liberi di fornire assistenza nucleare all’India e, in questa azione, espandere in modo significativo i legami militari tra i due paesi già in crescita.
Firmando il patto nucleare con l’India, Bush non ha alluso all’agenda anti-cinese dell’amministrazione, dicendo solo che avrebbe posto le fondamenta per una “duratura relazione di difesa.” Ma pochi si sono lasciati giocare dalle sue parole. Secondo Weisman sul Times, la maggior parte dei legislatori americani vedono l’accordo nucleare come un’espressione del desiderio dell’amministrazione di convertire l’India in un “contrappeso alla Cina”.
COMINCIA IL POTENZIAMENTO CINESE
Quello che ha accompagnato tutte queste trattative è stato un vigoroso sforzo del Dipartimento della Difesa di mantenere il ruolo militare USA nella regione Asia-Pacifico.
L’ampia portata della strategia americana è stata spiegata in dettaglio nel più recente lavoro politico del Pentagono, Quadrennial Defense Review, [Revisione del Piano di Difesa Quadriennale], rilasciato il 5 febbraio 2006. Nel discutere le minacce a lungo termine alla sicurezza americana, il QDR inizia con il riaffermare il DPG del 1992: che gli USA non permetteranno la crescita di una superpotenza competitiva. Questo stato “cercherà di dissuadere ogni concorrente militare dallo sviluppare tecnologie distruttive o altre capacità che potranno essere ostili all’egemonia degli Stati Uniti”, sostiene il documento.
Identifica poi la Cina come il più probabile e pericoloso concorrente a questo proposito. “Delle più grandi ed emergenti potenze, la Cina ha le più grandi potenzialità di competere militarmente con gli Usa e di mettere in campo tecnologie militari distruttive che potrebbero nel tempo abolire i tradizionali vantaggi militari statunitensi” – e poi rimarcando, “in mancanza di strategie americane di contrasto”.
Secondo il Pentagono, il compito di contrastare le capacità militari future della Cina richiede in gran parte lo sviluppo, e quindi il dotarsi, di sistemi più grandi di armamento che assicurerebbero agli Stati Uniti il successo in un confronto militare su larga scala. “Gli Stati Uniti svilupperanno capacità che dovrebbero mettere l’avversario in difficoltà con opzioni complesse e multi-dimensionali e complicare così i suoi sforzi offensivi,” spiega il piano quadriennale. Questo include l’aumento costante di tali “vantaggi permanenti americani” come “offensiva su lungo raggio, invisibilità, manovra operativa e sostentamento delle forze di aria, mare e terra a distanze strategiche, dominio aereo, e guerra sottomarina”.
Prepararsi alla guerra con la Cina, in altre parole, è il futuro obiettivo dominante per le giganti corporazioni americane di fabbricanti d’armi del complesso industriale-militare. Questo rappresenterà, per esempio, la prima giustificazione per l’acquisizione di nuovi sistemi militari costosi come i caccia F-22A Raptor, il caccia multi-uso Joint Strike, la fregata DDX destroyer, il sottomarino nucleare classe-Virginia, e un nuovo bombardiere capace di voli intercontinentali e dotato di armi penetranti le difese del nemico – armi che potranno rivelarsi solamente utili in un assalto disperato contro un’altra grande superpotenza, tipo quella che prima o poi potrà essere rappresentata dalla Cina.
In aggiunta a questo programma di riarmo, il QDR inoltre richiede un rafforzamento delle forze di combattimento statunitensi attualmente presenti in Asia e nel Pacifico, in particolare della Marina, (il braccio armato che è stato meno utilizzato nella guerra in Iraq). “La flotta avrà una maggiore presenza nel Pacifico”, annota il documento. Per fare questo “La marina pianifica di aggiustare le sue basi e posizioni di forza in modo tale da fornire almeno 6 portaerei operativamente disponibili e il 60% dei suoi sottomarini nel Pacifico da usare come unità da combattimento, come deterrente e presenza”. Poiché ciascuna di queste portaerei non è che il nocciolo di un grande dispiegamento di navi d’appoggio e di aerei di difesa, questa mossa implica un reale e vasto incremento delle forze navali americane nel Pacifico occidentale e comporterà necessariamente una sostanziosa espansione del complesso di basi americane nella regione — una necessità che è già stata più volte delineata dall’ammiraglio Fallon e dal suo staff della PACOM. Per valutare le richieste operative per questa crescita, inoltre, la marina USA condurrà quest’estate manovre nel Pacifico occidentale, tra le più estese dalla fine della guerra in Vietnam, con 4 gruppi di portaerei e molte navi di sostegno.
Metti tutto quanto insieme e la strategia risultante non può essere vista se non come una sistematica campagna di contenimento. Nessun funzionario di alto livello dell’amministrazione può definire quello che sta avvenendo con queste parole, ma è impossibile interpretare i recenti movimenti della Rice e di Rumsfel in un’altra maniera. Dalla prospettiva di Pechino, la realtà deve essere indubbia: un accumulo costante di forze militari americane lungo i confini orientali, occidentali e meridionali della Cina.
Come risponderà la Cina a questa minaccia? Per il momento pare fidarsi dei benefici economici derivati dall’alto grado di sviluppo per allentare i legami tra gli Stati Uniti e l’Australia, la Corea del Sud e l’India. Da un certo punto di vista, questa strategia sembra incontrare successo, dato che questi stati cercano di trarre profitti dalla straordinaria esplosione economica della Cina – alimentata da considerevoli quantità di materie prime quali petrolio, gas, ferro, legno ed altri materiali che sono forniti dagli stati vicini in Asia. Una versione di questa strategia è stata anche impiegata dal presidente Hu Jintao durante la sua recente visita negli Stati Uniti. Poiché il denaro della Cina è disseminato liberamente fra aziende influenti, quali la Boeing e la Microsoft, Hu ricorda all’ala corporativista del partito repubblicano che ci sono grandi benefici economici che possono essere guadagnati se non si spinge su una linea di minaccia verso la Cina.
La Cina comunque ha sempre risposto alle minacce di accerchiamento in maniera vigorosa e mostrando i muscoli, e così possiamo ritenere che Pechino voglia bilanciare la sua tranquillità con un proprio accumulo di forze militari. Tale spinta non porterà la Cina a raggiungere la capacità militare statunitense, per lo meno nel prossimo decennio, ma questo implemento militare fornirà ancora maggiori giustificazioni a coloro che negli Stati Uniti sostengono la necessità di accelerare il processo di contenimento della Cina, e questo porterà ad un circolo vizioso di sospetti, competizioni e crisi. Ciò renderà molto difficile l’appianamento amichevole del problema di Taiwan e del programma nucleare della Corea del Nord, e aumenterà il pericolo di una non intenzionale escalation fino ad una guerra asiatica su vasta scala. Potrebbero non esserci vincitori in un tale conflitto.
Michael T. Klare è professore di Studi per la Pace e la Sicurezza Globale al College di Hampshire e autore del libro” Sangue e Petrolio: i pericoli e le conseguenze della dipendenza americana dall’importazione del petrolio” (Owl Books, 2005)
Fonte: http://www.zmag.org
Link: http://www.zmag.org/content/showarticle.cfm?ItemID=10119
18.04.06
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GRUBERIO