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La Redazione

 

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COMMISSIONE D'INCHIESTA SUL SISTEMA BANCARIO: MASSONERIA DI PROVINCIA VS MASSONERIA INTERNAZIONALE

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A cura di Davide
Il 29 Gennaio 2016
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DI FEDERICO DEZZANI

federicodezzani.altervista.org

È un Matteo Renzi già emarginato dalle oligarchie euro-atlantiche e indebolito sul piano interno quello che, sull’onda del decreto salva banche, caldeggia l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario: conscio che l’affaire Banca Etruria è una minaccia mortale per il suo esecutivo, il presidente del Consiglio brandisce l’arma della commissione minacciando di disseppellire cadaveri eccellenti, capaci di compromettere i vertici di Bankitalia e (soprattutto) di Francoforte. Nonostante l’iniziativa sia destinata a scomparire nei marosi dell’eurocrisi, è interessante il quadro d’insieme. Ne emerge una massoneria di provincia che, temendo di essere estromessa dal potere a causa di uno scandalo che impallidisce di fronte ad altri dissesti finanziari, minaccia di far luce sulle nefandezze bancarie della grande massoneria internazionale. Estendere l’inchiesta a 15 anni indietro, significa infatti scavare sulla defenestrazione da Palazzo Koch di Antonio Fazio e sulla vicenda Monte dei Paschi di Siena: in una parola, investigare sugli scheletri nell’armadio del venerabile Mario Draghi, un massone più vicino alla corona d’Inghilterra che al direttore commerciale dei materassi Permaflex, Licio Gelli.

I ruspanti massoni di provincia contro…

Il Pd vuole chiarezza assoluta, per salvaguardare i risparmiatori. Per questo abbiamo depositato un disegno di legge per istituire nel più breve tempo possibile una commissione d’inchiesta bicamerale sugli stati di crisi e di dissesto degli istituti bancari a partire dal 2000. L’obiettivo della commissione è quella di valutare la condizione del sistema nel suo complesso e di verificare l’efficacia delle attività di vigilanza e controllo negli ultimi 15 anni” dice1 all’antivigilia di Natale il deputato Andrea Marcucci, renziano di ferro. Sono i bollenti giorni di dicembre, quando si accavallano il decreto salvabanche, l’esplosione della rabbia dei risparmiatori ed il tragico suicidio di un pensionato 68enne di Civitavecchia, distrutto dalla perdita di 110.000 euro investiti in obbligazioni emesse da Banca Etruria.

Il clima che si respira a Palazzo Chigi è pesantissimo: non solo il salvataggio dei quattro istituti bancari (Banca delle Marche, Banca Etruria, CariChieti e CariFerrara), il primo attuato secondo i criteri del bail-in che azzera gli investimenti di azionisti ed obbligazionisti subordinati, colpisce gli storici feudi dei PCI-PDS-PD, ma, attraverso Banca Etruria, sferra un durissimo colpo all’intera impalcatura dell’esecutivo: nell’istituto con sede ad Arezzo ricopre la carica di membro del cda dal 2011, e vicepresidente dal 2014, Pier Luigi Boschi, padre di quella Maria Elena che rappresenta la declinazione al femminile del “renzismo”, oltre ad essere ministro per le Riforme Costituzionali ed intestataria del disegno legge per il superamento del bicameralismo perfetto, su cui l’ex-sindaco di Firenze punta tutto.

La mossa della commissione d’inchiesta ha tutto il sapore del gesto stizzito, se non della rappresaglia: “Volete mettermi all’angolo? Bene, anch’io posso farvi male!” deve essere il ragionamento che frulla nella testa dell’ex-sindaco di Firenze.

Non c’è alcun dubbio che Matteo Renzi avrebbe voluto agire diversamente nel salvataggio delle quattro, per una lunga serie di motivi: non contraddire il mantra che “le banche italiane sono solide”, evitare effetti a cascata sul sistema creditizio (vedi fuga dai depositi da MPS), non interrompere “la narrazione” del Paese in ripresa e, soprattutto, per circoscrivere il più possibile la vicenda Banca Etruria-Boschi. Se il presidente del Consiglio è costretto ad imboccare la strada del decreto salvabanche, lo fa perché obbligato dalle circostanze, ed in particolare dalle istituzioni brussellesi: a dicembre le quotazioni dell’ex-enfant prodige Matteo Renzi presso le oligarchie euro-atlantiche sono già precipitate e non è azzardato ipotizzare che, dietro l’obbligo di anticipare di un mese l’applicazione del bail-in (entrato formalmente in vigore il 1º gennaio 2016) e lo scandalo Banca Etruria, si nasconda il progetto di estrometterlo da Palazzo Chigi.

Era intenzione dell’esecutivo ricorrere infatti al Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fidt) che, alimentato dalle banche italiane, avrebbe evitato di azzerare il valore delle obbligazioni subordinate (al costo di 350 mln 2, quasi la stessa cifra che Renzi nega ora alla UE per gestire la crisi migratoria in Turchia): è l’Unione Europea che, tacciando l’intervento come aiuto di Stato (in quanto esproprierebbe risorse private per usarle secondo i fini del governo 3), obbliga Renzi e Padoan ad agire secondi i canoni di quel bail-in che, agendo a dicembre, si sperava di evitare.

Le pressioni esercitate su Roma dai commissari europei ai Servizi finanziari e alla Concorrenza, il britannico Jonathan Hill e la danese (quindi anch’essa in quota inglese) Margrethe Vestager, contro l’impiego del Fitd, sono contenute nella lettera, datata 19 novembre, che il governo italiano rende pubblica ed appare il 23 dicembre nientemeno che sull‘agenzia Reuters,4. Si tratta ovviamente di un grave sgarro da parte di Renzi, perché il documento è riservato e chi l’ha scritto non ha certo ipotizzato un suo impiego nell’agone politico.

Renzi compie quindi il secondo strappo con l’establishment, dopo avere già annunciato che i parziali rimborsi agli obbligazionisti saranno erogati attraverso procedure di arbitrato, gestite dalla Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac) presieduta dal renziano di ferro Raffaele Cantone. “Vorrei che l’arbitrato fosse gestito non dalla Consob, non da Bankitalia ma dall’Anac di Raffaele Cantone, un soggetto terzo, autorevole e dunque massima trasparenza e rigore” dice il 17 dicembre Matteo Renzi5.

Il soggetto cui sarebbe spettata naturalmente la questione è, ovviamente, Bankitalia, dove il governatore, Ignazio Visco, è però ascrivibile alla cerchia di Mario Draghi, uno dei massimi esponenti di quell’establishment euro-atlantico che, dopo averlo insediato a Palazzo Chigi, meditano ora di sbarazzarsi di Matteo Renzi. Che il governatore della Banca Centrale italiana non presenti, secondo il presidente del Consiglio, le caratteristiche di imparzialità, autorevolezze e rigore è un pesante affronto: attorno al 20 dicembre circola la notizia che Visco mediti le dimissioni, peraltro prontamente scartate dal presidente della Repubblica6 Sergio Mattarella, garante come il predecessore degli interessi delle oligarchie finanziarie.

Dulcis in fundo, è la volta, il 23 dicembre, dell’annuncio di una commissione d’inchiesta bicamerale sul sistema bancario, con un raggio d’azione dilatato sino al lontano 2000. Portare le lancette indietro di sedici anni, significa in sostanza rivangare due dossier molto scottanti: le dimissioni da Palazzo Koch di Antonio Fazio (2005) e l’acquisto di Antonveneta da parte di Monte dei Paschi di Siena (2008). In entrambi i casi la commissione d’inchiesta (che rispecchia la maggioranza renziana in Parlamento) avrebbe gioco facile a gettare così tanto fango sul governatore della BCE, Mario Draghi, da sommergerlo: immediata, come nel caso delle dimissioni di Visco, scatta quindi la reazione del presidente Sergio Mattarella, preoccupato dall’esito potenzialmente esplosivo che avrebbe un’inchiesta parlamentare animata da un Matteo Renzi senza più niente da perdere. “La nostra democrazia è connotata dal pluralismo istituzionale e dal mutuo bilanciamento dei poteri. (…) E’ confortante constatare come questa collaborazione sia abitualmente praticata. Talvolta si registra invece competizione, sovrapposizione di ruoli, se non addirittura conflitto, e questo genera sfiducia” dice Mattarella alla cerimonia degli auguri di fine anno7.

Il conflitto di cui parla Mattarella, più che uno scontro tra poteri dello Stato, si profila come uno scontro tutto interno alla massoneria che occupa le più alte cariche istituzionali, italiane ed europee.

Da un lato la ruspante massoneria di provincia dei clan Renzi e Boschi, catapultata ai vertici della Repubblica italiana con la presunzione (errata) di essere artefice delle proprie fortune; dall’altro l’algida massoneria internazionale di Mario Draghi, il direttore generale del Tesoro che nel 1992 calpesta il ponte del panfilo Britannia, passato poi alla vicepresidenza di Goldman Sachs International, subentrato ad Antonio Fazio a Bankitalia ed infine installatosi nel tempio della Banca Centrale Europea.

I massoni di pronvincia sono i cugini un po’ sempliciotti di campagna, gettati nel rutilante mondo dei palazzi romani e delle passerelle dei G20 dagli astuti e spregiudicati massoni cosmopoliti: è affidata loro la missione di vendere quello che resta dell’argenteria (Poste, Enav, Fincantieri, Fs, etc.) e rimettere in moto il Paese applicando le “riforme strutturali” basate sui triti e ritriti dogmi neoliberisti (abolizione art. 18, tagli alla sanità, etc.).

Renzi e Boschi, a forza di leggere sui giornali che sono “fuoriclasse della politica”, “energici e spregiudicati come il Fanfani degli anni ’50”, “l’ultima speranza della classe dirigente italiana”, commettono l’errore di credere a quanto la stampa scrive, dimenticando gli alti gradi della massoneria internazionale, come li ha trasportati sul tappeto magico dalla provincia toscana ai dicasteri romani, così può rompere l’incantesimo quando meglio crede.

Terminata l’età dell’oro del renzismo (i tre mesi che intercorrono tra l’insediamento a Palazzo Chigi e le elezioni europee del maggio 2014), inizia il rapido appannarsi del più giovane presidente del Consiglio della storia italiana. Il piano di Renzi di rilanciare l’economica con un’iniezione mediatica di fiducia si schianta contro il concreto muro dell’austerità: l’Italia stagna dopo anni di recessione, le finanze pubbliche peggiorano ed il sistema bancario scricchiola paurosamente, mentre il suo indice di gradimento, sceso per la prima volta sotto il 50% nell’autunno del 2014 8, si sgretola fino al 30% attuale. A questo punto la massoneria internazionale constata che è il momento di liberarsi dei consunti cugini di campagna e lo fa colpendo con un’inchiesta giudiziaria, Banca Etruria, e l’assalto speculativo alle pericolanti banche italiane, su cui pende la ghigliottina del bail-in.

In ossequio al principio risalente all’impero britannico per cui i fantocci locali non devono mai essere personaggi autorevoli ed inattaccabili, ma deboli e discussi, cosicché non accarezzino sogni di indipendenza, la libera muratoria internazionale installa infatti alla guida dell’Italia due clan, quello Renzi e quello Boschi, strutturalmente deboli. Si tratta di personaggi ruotanti attorno ad opache consorterie locali, coinvolti nelle classiche attività della massoneria di piccolo cabotaggio: un piede nella banca del capoluogo, un prestito senza garanzie per avviare un’attività commerciale, una consulenza al “Maestro” di turno per condurre in porto un grosso affare, etc. etc.

Sulla filiazione di Matteo Renzi alla libera muratoria non si dispongono sufficienti informazioni ma, di certo, si può affermare che di stampo massonico è tutta la galassia del presidente del Consiglio. Grazie alla pervasiva massoneria di Firenze (ambiente in gioca un ruolo di rilievo l’allora braccio destro di Silvio Berlusconi, Denis Verdini) Renzi vince “a sorpresa” le primarie del PD contro il favorito Lapo Pistelli; grazie ad accordi di natura massonica il PDL schiera alle elezioni comunali del giugno 2009 un candidato debole come l’ex-calciatore Giovanni Galli, abbandonato per di più dal centrodestra quando Renzi manca l’obbiettivo di vincere al primo turno 9; uno “stantio odore di massoneria” è emanato anche dal Patto del Nazareno, secondo quanto scrive Ferruccio De Bortoli nel settembre 2014 (manifestando il disprezzo della grande massoneria che siede nel cda del Corriere della Sera diretto da De Bortoli, per il parvenu di Firenze); di chiara natura massonica è infine l’intesa tra Denis Verdini e Matteo Renzi per il progressivo ingresso dei “verdiniani”, decisivi in Senato, nella compagine di governo.

I rapporti del clan Renzi con la Banca Etruria sono di diversa natura e spaziano dal finanziamento alla kermesse della Leopolda 11, agli investimenti immobiliari con il presidente dell’istituto12 Lorenzo Rosi, culminando con i tentativi di salvataggio in extremis attraverso Davide Serra (fondo Algebris) e Marco Carrai (gli israeliani di Bank Hapoalim)13.

Ancora più forti sono i legami tra il clan Boschi e l’istituto di Arezzo che, si ricordi, era il feudo di Licio Gelli, il direttore commerciale della Permaflex, assurto a “burattinaio d’Italia” nella veste di venerabile maestro della loggia P2. Nel consiglio di amministrazione di Banca Etruria, travolta dal cocktail micidiale di recessione e prestiti clientelari, siede dal 2011 Pier Luigi Boschi, salito alla vice-presidenza nel 2014. Il padre del ministro delle Riforme Costituzionali bazzica, pure lui, negli ambienti toscani della libera muratoria: quando Boschi, in qualità di vice-presidente di Banca Etruria, cerca denaro fresco per il pericolante istituto, l’uomo interpellato è nientemeno che il faccendiere Flavio Carboni, il cui nome appare a fianco a quello del venerabile maestro Licio Gelli in molti controversi dossier della Prima e Seconda Repubblica.

Ne esce il quadro di una ruspante massoneria della provincia toscana, invischiata nella gestione parecchio opaca dell’istituto di credito del capoluogo, “la gallina dalle uova d’oro” grazie cui si può possono ottenere finanziamenti facili, per la costruzione di ipermercati o “shopping mall” (che fa più fine, perché americano): il fatto che, nonostante i disperati tentativi dei Renzi e dei Boschi, nessun investitore anglosassone od israeliano abbia soccorso Banca Etruria, è sintomo della progressiva emarginazione del Presidente del Consiglio, perché difficilmente un simile incidente sarebbe mai avvenuto nel primo rutilante anno di governo.

Al punto in cui si arrivati, è sufficiente un avviso di garanzia per il fallimento di Banca Etruria affinché Maria Elena Boschi sia travolta, trascinandosi con sé il presidente del Consiglio: la scelta dei fantocci cade sempre su personaggi fragili e ricattabili, in modo da potersene liberare al momento opportuno.

È quindi un Matteo Renzi amareggiato ed irato quello che brandisce l’arma della commissione d’inchiesta sul sistema bancario: dopo aver assaporato per nemmeno due anni il comando, già sente che la grande massoneria, quella delle oligarchie anglofone, vuole sbarazzarsi di lui e, di conseguenza, reagisce al motto di “muoia Sansone con tutti i filistei”. Non c’è infatti alcun dubbio che un’inchiesta che scavasse sul sistema creditizio italiano dal lontano 2000 coinvolgerebbe il venerabile Mario Draghi, più vicino alla Loggia Madre inglese che al direttore commerciale della Permaflex, Licio Gelli.

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