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DI SERVAAS STORM

ineteconomics.org

La crisi  italiana alimentata dall’austerità è un monito per tutta l’Eurozona

Italia: La terza recessione in un decennio

Mentre si parla sempre di Brexit e di Trump, l’economia italiana è scivolata (di nuovo) in una recessione tecnica. Sia l’OCSE che la Banca Centrale Europea (BCE) hanno abbassato le previsioni della crescita italiana e  gli analisti mettono di nuovo l’Italia in stato cautelativo – mentre la BCE sta rilanciando il suo programma di acquisto di titoli sovrani – dopo che il paese aveva iniziato ad uscire da questo stato solo cinque mesi prima.

“Non bisogna sottovalutare l’impatto della recessione italiana”, ha dichiarato a Bloomberg News (Horobin 2019) il Ministro dell’economia francese Bruno Le Maire . “Parliamo molto della Brexit, ma non parliamo di una recessione italiana che avrà un impatto importante sulla crescita dell’Europa e  che può avere un impatto sulla Francia, essendo uno dei nostri più importanti partner commerciali.”Ma più importante del commercio, tuttavia, e questo  Le Maire non lo sta dicendo, è che le banche francesi hanno in bilancio circa 385 miliardi di euro di debito  italiano, di derivati, impegni di credito e garanzie sul loro bilancio, mentre le banche tedesche detengono 126 miliardi di euro del debito italiano (al terzo trimestre del 2018, secondo la Bank for International Settlements).

Alla luce di queste esposizioni al debito italiano, non c’è da meravigliarsi che Le Maire, insieme alla Commissione europea, sia preoccupato per la terza recessione italiana in un decennio, come pure per la crescente retorica anti-euro e l’atteggiamento del governo italiano composto da una coalizione del Movimento 5 Stelle (M5S) con la Lega. La consapevolezza che l’Italia è troppo grande per fallire sta alimentando l’audacia del suo governo di coalizione nel tentativo di reclamare un proprio spazio in politica fiscale, violando apertamente le regole di bilancio dell’Unione Economica e Monetaria (UEM) dell’EU.

Il risultato è un circolo vizioso. Più la Commissione europea cerca di far allineare il governo italiano, più alimenta le forze anti-establishment e anti-euro in Italia. D’altra parte, più la Commissione europea si arrende alle richieste del governo italiano, più perderà credibilità come tutore del patto di stabilità e di crescita della UEM. Questo stallo non finirà fintanto che l’economia italiana resterà paralizzata.

Una crisi dell’ordinamento post-Maastricht del capitalismo italiano

Perciò è fondamentale comprendere le vere origini della crisi economica italiana per trovare il modo di uscire dalla stagnazione permanente del paese. In un  altro articolo, cerco di formulare una patologia basata sull’evidenza dei motivi che hanno provocato la recessione italiana – che, a mio avviso, deve essere considerata come crisi dell’ordinamento post-Maastricht del capitalismo italiano, come l’ha definita Thomas Fazi (2018). Fino all’inizio degli anni ’90, l’Italia ha vissuto per decenni una crescita economica relativamente robusta, durante la quale è riuscita a raggiungere il reddito (per persona) delle altre nazioni della zona euro (Figura 1). Nel 1960, il PIL pro capite dell’Italia (a prezzi costanti del 2010) costituiva  l’85% del PIL pro capite francese e il 74% (in media ponderata) del PIL pro capite di Belgio, Francia, Germania e Paesi Bassi (le economie Euro-4). A metà degli anni ’90, l‘Italia aveva quasi raggiunto la Francia (il PIL italiano pro capite era pari al 97% del reddito pro capite francese) e anche quelli degli Euro 4 (il PIL pro capite italiano era il 94% del PIL pro capite nell’Euro- 4).

Tre decenni di recupero, 25 anni di ritardo: il PIL reale pro capite in Italia rispetto alla Francia / Euro-4, 1960-2018

Fonte: calcolo dell’autore basato su dati AMECO.

Ma poi è iniziato un declino costante (vedi Figura 1), cancellando il frutto di decenni di convergenza (con gli altri redditi). Il divario di reddito tra Italia e Francia è ora (a partire dal 2018) di 18 punti percentuali ed è  più alto di quello del 1960; Il PIL pro capite italiano è pari al 76% del PIL pro capite nelle economie Euro-4. Dall’inizio alla metà degli anni ’90, l’economia italiana ha iniziato ad inciampare e quindi a restare indietro, infatti tutti i principali indicatori – reddito per persona, produttività del lavoro, investimenti, quote di mercato nelle esportazioni, ecc. – hanno iniziato un declino molto costante.

Non è un caso che l’improvviso rovescio delle fortune economiche dell’Italia si sia verificato dopo l’adozione da parte dell’Italia della “sovrastruttura legale e politica” imposta dal Trattato di Maastricht del 1992, che aprì la strada all’istituzione dell’UEM nel 1999 e all’introduzione del moneta comune nel 2002. L’Italia, come sto cercando di provare è stata l’allieva più brillante nella classe dell’Eurozona, l’unica economia che si è impegnata con la massima forza e coerenza ad applicare l’austerità fiscale e le riforme strutturali che costituiscono l’essenza del regolamento macroeconomico dell’UEM. (Costantini 2017, 2018). L’Italia ha rispettato le regole più di Francia e Germania e ha pagato molto per questo: il consolidamento fiscale permanente, la persistente moderazione salariale e il tasso di cambio sopravvalutato hanno ucciso la domanda aggregata interna – e la carenza di domanda ha asfissiato la crescita della produzione, della produttività, dell’occupazione e dei redditi . La stasi italiana è una lezione oggettiva per tutte le economie dell’Eurozona, ma parafrasando G.B. Shaw: (deve essere un) monito, non un esempio.

Austerità fiscale perpetua

L’Italia ha fatto più della maggior parte degli altri paesi dell’Eurozona in termini di austerità auto-imposta e di riforme strutturali per soddisfare le condizioni dell’UEM (Halevi 2019). Questo risulta chiaramente se si confronta la politica fiscale dell’Italia dopo il 1992 con quella di Francia e Germania. Vari governi italiani hanno registrato delle continue eccedenze nel bilancio primario (cioè nella spesa pubblica escludendo il pagamento di interessi sul debito pubblico, meno le entrate pubbliche), in media del 3% del PIL all’anno nel tutto il periodo 1995-2008. I governi francesi, al contrario, hanno registrato in media disavanzi primari pari allo 0,1% del PIL ogni anno durante lo stesso periodo, mentre i governi tedeschi sono riusciti a generare un avanzo primario dello 0,7% in media annua negli stessi 14 anni. Le eccedenze primarie permanenti dell’Italia nel periodo 1995-2008 avrebbero dovuto far ridurre il rapporto debito pubblico/PIL di circa 40 punti percentuali, passando dal 117% nel 1994 al 77% nel 2008 (mantenendo tutti gli altri fattori costanti). Ma la crescita lenta (nominale) rispetto ai tassi di interesse elevati (nominali) ha fatto salire il rapporto debito/PIL di 23 punti percentuali ed ha cancellato oltre la metà della potenziale  riduzione del debito pubblico vs PIL dei 40 punti percentuali raggiunti grazie all’applicazione dell’austerità. Potrebbe essere vero che la costante austerità messa in campo dall’Italia e intesa a far ridurre il rapporto debito- PIL , facendo appunto registrare eccedenze primarie costanti, le si sia ritorta contro rallentando la crescita economica?

I governi italiani (inclusa la coalizione di centro-sinistra di Renzi) hanno continuato a registrare significativi avanzi di bilancio primario (di oltre l’1,3% del PIL in media all’anno) durante il periodo della crisi 2008-2018. Il dimostrare un ossequio permanente alla disciplina fiscale era una priorità assoluta, come ammise il PM Mario Monti in un’intervista del 2012 concessa alla CNN, anche se ciò avesse significato “distruggere la domanda interna” e spingere l’economia verso un declino. L’impegno è stato quasi “perentorio” in Italia nei confronti della disciplina fiscale che, in qualche modo, è stata contrastata dagli atteggiamenti dei francesi (“laissez aller”): il governo francese ha registrato dei deficit primari in media del 2% del PIL nel periodo 2008-2018 e ha portato il rapporto del suo debito pubblico vs  PIL a quasi il 100% nel 2018. Lo stimolo fiscale cumulativo prodotto dallo Stato francese è arrivato a 461 miliardi di euro (a prezzi costanti del 2010), mentre lo sgravio fiscale complessivo sulla domanda interna italiana è stato di 227 miliardi di euro. I tagli al budget italiano si sono manifestati in modo non banale sulla spesa sociale pro capite, che ora (a partire dal 2018) rappresenta circa il 70% della spesa sociale pro capite pubblica in Germania e in Francia. Non possiamo nemmeno immaginare che tipo di protesta avrebbero messo in atto i “Gilets Jaunes” in Francia se, dopo il 2008 in Francia il governo avesse messo in atto un consolidamento fiscale in stile italiano dopo il 2008.

Contrazione permanente dei salari reali     

Quando l’Italia firmò il Trattato di Maastricht, i suoi alti tassi di inflazione e disoccupazione furono considerati problemi seri. L’inflazione fu attribuita al potere “eccessivo” esercitato dai sindacati e ad un sistema di contrattazione salariale “eccessivamente” centralizzato, che aveva provocato la forte spinta inflazionistica e la contrazione dei profitti e visto che la crescita dei salari tendeva a superare la crescita della produttività del lavoro, la quota di profitto tendeva a diminuire. Visto sotto questa ottica, le responsabilità per l’alta disoccupazione italiana doveva essere attribuita ad un mercato del lavoro “troppo rigido e ad una aristocrazia operaia troppo protetta”. Ridurre l’inflazione e ripristinare la redditività richiedeva pertanto una moderazione salariale, che a sua volta poteva essere raggiunta solo con una deregolamentazione radicale del mercato del lavoro da ottenere con quelle che vengono eufemisticamente chiamate “riforme strutturali”.

L’Italia non ha un salario minimo per legge (a differenza della Francia) e inoltre non dispone di sistema generoso di sussidi alla disoccupazione  (in termini di tassi e durata dei sussidi contro la disoccupazione e di titoli per accedervi) rispetto alla media dei paesi della U.E. La tutela dell’impiego per i dipendenti regolari in Italia è all’incirca allo stesso livello delle protezioni del lavoro di Francia e Germania. Le riforme strutturali del mercato del lavoro in Italia hanno comportato una drastica riduzione della protezione dell’occupazione per il lavoro a termine e, di conseguenza, la quota di lavoratori a termine nell’occupazione totale in Italia è aumentata dal 10% nel periodo 1991-1993 e del 18,5% nel 2017. Tra il 1992 e il 2008, totale (netto ) l’occupazione in Italia è aumentata di 2,4 milioni di nuovi posti di lavoro, di cui quasi i tre quarti (il 73%) di posti di lavoro a tempo determinato. In Francia, l’occupazione (netta) è aumentata di 3,6 milioni di posti di lavoro nel periodo 1992-2008, di cui l’84%  posti di lavoro (permanenti) regolari e solo il 16% a tempo determinato.

Per di più il potere contrattuale dei sindacati si è ridotto dopo l’abbandono dell’obiettivo della piena occupazione per consentire la riduzione del debito pubblico (Costantini 2017) , dell’attuazione di una politica della banca centrale molto più restrittiva (anti-inflazione) e di un tasso di cambio fisso. Di conseguenza, la crescita dei salari reali per dipendente che, in media, era stato  del 3,2% all’anno nel periodo 1960-1992, si ridusse a un minimo dello 0,1% all’anno nel periodo 1992-1999 e allo 0,6% annuo nel periodo 1999-2008. All’interno della UE, l’inversione di tendenza italiana è stata significativa: dal 1992 al 2008, la crescita dei salari reali italiani per lavoratore (0,35% annuo) è stata solo della metà della crescita media dei salari reali negli Euro 4 (0,7% annuo) ed è stata persino inferiore rispetto alla crescita dei salari reali in Francia (0,9% all’anno). È interessante notare che, dal 1992 al 2008, la crescita dei salari reali per dipendente in Italia è stata leggermente inferiore a quella (già avara) della crescita dei salari reali tedeschi (0,4% all’anno). Per vedere una proiezione a lungo termine, la Figura 2 mostra il rapporto tra il salario reale di un lavoratore italiano e il salario reale di un lavoratore medio francese, tedesco e della zona dell’ Euro-4 dal 1960 al 2018.

Agli inizi degli anni ’60, il salario medio dei lavoratori italiani arrivava a circa l’85% della retribuzione francese, rapporto che arrivò al 92% nel 1990-1991. A partire dal 1992, il salario reale italiano ha ripreso un costante declino in termini di salari medi, verso quelli francesi – e nel 2018, l’impiegato medio italiano guadagnava solo il 75% del salario guadagnato da un suo omologo francese. Il divario salariale tra Italia e Francia oggi è maggiore  di quanto non fosse negli anni ’60. Lo stesso schema vale confrontando gli stipendi italiani con gli stipendi tedeschi e/o dell’Euro-4.

Prima tre decenni di rincorsa, poi 25 anni di ritardi: il PIL reale pro capite in Italia rispetto alla Francia / Euro-4, 1960-2018

Fonte: calcolo dell’autore basato su dati AMECO.

La moderazione salariale dell’Italia ha dimostrato una strategia efficace per prender tre (non solo due) fave con un piccione. In primo luogo, la moderazione salariale ha contribuito a ridurre l’inflazione al 3,4% in media all’anno dal 1992 al 1999 (dal 9,6% in media all’anno 1960-1992) e successivamente al 2,5% all’anno dal 1999 al 2008 e all’1,1% dal 2008 al 2018. L’Italia non è più soggetta, in senso strutturale, a un’inflazione alta e accelerata. In secondo luogo, la moderazione salariale ha fatto aumentare l’intensità del lavoro sulla crescita del PIL italiano, riducendo così la disoccupazione. Il tasso di disoccupazione dell’Italia raggiunse il suol picco verso la metà degli anni ’90 (oltre l’11%), ma la deregolamentazione del mercato del lavoro e il contenimento salariale fecero scendere la disoccupazione al 6,1% nel 2007 e al 6,7% nel 2008, inferiore al tasso di disoccupazione della Francia (pari a 8) % nel 2007 e ( 7,4%)  nel 2008) e della Germania (dove la disoccupazione era dell’8,5% nel 2007 e del 7,4% nel 2008). Infine, come previsto, la moderazione salariale ha comportato un aumento sostanziale della quota di profitto del PIL dell’Italia: la quota di profitto è aumentata di oltre 5,5 punti percentuali, dal 36% nel 1991 a circa il 41,5% dal 2000 al 2002, dopo di che si è stabilizzata intorno 40% fino al 2008. Negli anni ’90, la ripresa della quota di utili fu considerevolmente più forte in Italia che in Francia, e paragonabile alla Germania, nonostante il fatto che la quota di profitto in Italia fosse già relativamente elevata.

In altre parole, le riforme strutturali italiane degli anni ’90 hanno dato buoni frutti in termini di maggiore quota di profitto e la quota di profitto dell’Italia è rimasta sostanzialmente superiore a quella di Francia e Germania. Con un’inflazione ridotta, una efficace contrazione dei salari, una diminuzione della disoccupazione, un indebitamento pubblico in declino e una quota di profitto in considerevole in aumento, l’Italia sembrava essere stata pronta per un lungo periodo di forte crescita. Ma non è successo niente. L’operazione è andata bene, ma il paziente è morto. Secondo l’autopsia la causa della morte è stata una mancanza strutturale di domanda aggregata.

Il soffocamento della domanda aggregata italiana dopo il 1992

Attenendosi rigidamente al regolamento EMU, la politica economica italiana ha creato una cronica carenza di domanda (interna). La crescita della domanda interna per italiano in media è stata dello 0,25% annuo dal 1992 al 2014 – in forte calo rispetto alla crescita della domanda interna (del 3,3% annuo) registrata dal 1960 al 1992 e molto al di sotto della crescita della domanda interna (dell’1,1% per persona all’anno) dei paesi Euro-4. Anche la crescita reale delle esportazioni italiane (a persona) è diminuita, passando dal 6,6% in media all’anno dal 1960 al 1992 al 3% all’anno dal 1992 al 2018. La crescita media annua delle esportazioni (a persona) nei paesi Euro 4 da 1992 al 2018 è stata del 4,4%. La penuria di domanda cronica dell’Italia ha ridotto la sua capacità (soprattutto nel settore manifatturiero) e questo, a sua volta, ha fatto scendere il tasso di profitto. Secondo le mie stime, tra il 1992 e il 2015 l’utilizzo della capacità produttiva italiana è diminuito di ben 30 punti percentuali rispetto all’utilizzo della capacità produttiva francese.

Il tasso di utilizzo del manifatturiero italiano rispetto a quello della manifattura tedesca è diminuito dal 110% nel 1995 al 76% nel 2008, ed è ulteriormente diminuito al 63% nel 2015, con un calo di ben 47 punti percentuali. Una minore utilizzazione delle capacità ha ridotto il tasso di profitto della produzione italiana di 3-4 punti percentuali rispetto ai tassi di profitto francesi e tedeschi. Cosa che ha notevolmente depresso investimenti e crescita della produzione italiana. Permettetemi di sottolineare il fatto che il tasso di profitto in Italia è diminuito anche quando la quota di profitti del reddito è aumentata. Ciò significa che la strategia italiana di austerità fiscale e di contenimento salariale si è rivelata controproducente, perché non ha migliorato il tasso di profitto: il calo della domanda e l’uso della capacità hanno avuto un impatto (negativo) maggiore sulla redditività delle aziende rispetto all’aumento delle quote di profitto.

Come sostengo nel mio articolo, questa condizione di carenza cronica della domanda è stata prodotta, in particolare, da (a) austerità fiscale perpetua, (b) contenimento permanente dei salari reali e (c) mancanza di competitività tecnologica che, in combinazione con un tasso di cambio sfavorevole (euro), riduce la capacità delle imprese italiane di mantenere le loro quote di mercato nelle esportazioni a fronte della crescente concorrenza dei paesi a basso reddito (Cina in particolare). Questi tre fattori stanno deprimendo la domanda per un minor l’utilizzo della capacità e della redditività delle aziende, oltre a nuocere agli investimenti, all’innovazione e alla crescita della produttività. Stanno quindi bloccando il paese in uno stato di declino permanente, caratterizzato dall’impoverimento della matrice produttiva dell’economia italiana e dalla composizione qualitativa dei suoi flussi commerciali (Simonazzi et al., 2013).

Il settore manifatturiero italiano non è “ad alta intensità tecnologica” e soffre di una stagnazione della produttività. Come mostrano le figure 3 e 4, la competitività di costo della manifattura italiani rispetto ai paesi Euro-4 dipende dai bassi salari e non da prestazioni di produttività superiori. Mentre i lavoratori dell’industria in Francia e Germania stavano guadagnando 35 euro all’ora (a prezzi costanti del 2010) nel 2015, e i loro colleghi in Belgio e Olanda guadagnavano ancora di più, i lavoratori italiani nel settore manifatturiero stavano portando a casa solo 23 euro l’ora (a prezzi costanti 2010) – un terzo in meno (vedi Figura 3). Ma allo stesso tempo, la produttività del lavoro industriale resta considerevolmente più alto in Francia e in Germania (a € 53 all’ora a prezzi costanti 2010) rispetto all’ Italia, dove è di circa € 33 l’ora (Figura 4). I manufatturieri italiani stanno quindi camminando sul ciglio della strada, mentre le imprese nei paesi Euro-4 viaggiano al centro della strada maestra. In altre parole, rispetto ai produttori tedeschi e francesi, le aziende italiane soffrono di una mancanza di forza tecnologica, che in Germania si basa su alta produttività, sforzi innovativi e alta qualità del prodotto. È pur vero però che le aziende italiane si distinguono per la loro alta qualità relativa nei prodotti di esportazione più tradizionali e a bassa tecnologia, come calzature, prodotti tessili e altri prodotti minerali non metallic, ma perdono costantemente terreno nei mercati di esportazione di prodotti più dinamici e caratterizzati da livelli più elevati di R & S e di intensità tecnologica, come i chimici, i farmaceutici e le apparecchiature di comunicazione (Bugamelli et al., 2018).

Bloccato in una posizione di debolezza strutturale

Ci sono due motivi per cui questa specializzazione in attività a tecnologica bassa e bassa-media ha portato il paese in una posizione quasi permanente di debolezza strutturale. Il primo è che l’elasticità del tasso di cambio della domanda delle esportazione è maggiore per le esportazioni tradizionali che non delle esportazioni di  tecnologia medio-alta . Di conseguenza, l’apprezzamento dell’euro ha danneggiato maggiormente gli esportatori italiani di prodotti tradizionali rispetto alle imprese tedesche e francesi che esportano beni e servizi “più dinamici”. Pertanto, un euro sopravvalutato penalizza più la crescita delle esportazioni italiane che quella crescita di altre economie Euro-4.

Il secondo fattore è che le imprese italiane che operano nei mercati globali sono maggiormente esposte alla crescente concorrenza dei paesi a basso reddito e in particolare della Cina. Nel 1999, il 67% delle esportazioni italiane era costituito da prodotti (quelli tradizionali) più esposti a una concorrenza medio-alta da parte delle imprese cinesi – rispetto ad un’esposizione alla concorrenza cinese del 45% delle esportazioni dalla Francia e del 50% delle esportazioni dalla Germania (Bugamelli et al . 2018). La quota di esportazioni italiane sulle importazioni mondiali è diminuita dal 4,5% nel 1999 al 2,9% nel 2016 e la perdita della quota di mercato si è fortemente concentrata nei segmenti di mercato più tradizionali e caratterizzati da una alta esposizione alla concorrenza cinese (Bugamelli et al., 2018). Mentre le imprese cinesi e delle altre economie in via di sviluppo continuano ad espandere la loro capacità produttiva,  ad aumentare la loro competitività e continueranno ad aumentare anche la loro pressione competitiva nei segmenti tecnologici di livello medio e medio-alto. Le imprese italiane hanno. quindi, difficoltà ad affrontare la concorrenza dei paesi a basso reddito e sono generalmente troppo piccole per esercitare qualsiasi potere di determinazione del prezzo, troppo spesso i produttori di singoli prodotti sono incapaci di diversificare i rischi di mercato e sono troppo dipendenti dai mercati esteri, perché il loro mercato interno è in stasi .

Salario reale per ora di lavoro nel settore manifatturiero: Italia vs i paesi Euro 4, 1970-2015 (euro, prezzi costanti 2010)

Fonte: calcolo dell’autore basato su EU-KLEMS (Jäger 2017).

Produttività del lavoro manifatturiero per ora di lavoro: Italia vs i paesi Euro-4, 1970-2015 (euro, prezzi costanti 2010)

Fonte: calcolo dell’autore basato su EU-KLEMS (Jäger 2017).

La crisi permanente dell’Italia è un monito per tutta l’Eurozona

Esistono modi razionali per far uscire l’economia italiana dall’attuale paralisi, nessuno dei quali facile, e tutti fondati su una strategia a lungo termine che deve “camminare su due gambe”: (1) rilanciare la domanda interna (e delle esportazioni)  (2) diversificare e migliorare la struttura produttiva e le capacità innovative, rafforzando la competitività tecnologica delle esportazioni italiane (per evitare di mettersi in concorrenza diretta sul costo dei salari con la Cina). Questo significa che devono finire sia l’austerità che il blocco della crescita dei salari reali.  Il governo italiano dovrebbe invece mettere in atto una politica che indichi una strada decisa e chiara all’economia del paese attraverso maggiori investimenti pubblici (nelle infrastrutture pubbliche, nei trasporti, nei sistemi energetici “ecologizzando e decarbonizzando” il paese) e con nuove politiche industriali che puntino sull’innovazione, l’imprenditorialità e una maggiore competitività tecnologica.

Non mancano le proposte costruttive da parte degli economisti italiani per tirare fuori l’economia dal caos attuale:  Guarascio e Simonazzi (2016), Lucchese  (2016), Pianta  (2016), Mazzucato (2013), Dosi (2016) e Celi  (2018).  Proposte incentrate sulla creazione di un processo auto-rinforzante di crescita guidata da investimenti e innovazione, orchestrate da uno “stato imprenditoriale” e fondate su relazioni lavoratori-impresa che si muovano coordinatamente in un ambito di regole stabilite e non in un mercato del lavoro liberalizzato e iper-flessibile. Tutte proposte che potrebbero funzionare bene.

Lo stesso non si può dire, tuttavia, dello stimolo fiscale che cammina su “una gamba sola” proposto dal governo di coalizione M5S-Lega, il cui scopo è una ripresa  della domanda interna a breve termine attraverso una maggiore spesa pubblica (consumo). Nessuna delle spese proposte aiuterà a risolvere i problemi strutturali dell’Italia, perché manca completamente di una spinta direzionale a lungo termine, oltre alla seconda parte di una strategia realmente fattibile – che una Lega-neoliberale non vorrà mai approvare e un M5S “progressista solo a parole” sembra incapace di concepire (Fazio 2018) .

Plus ça change, plus c’est la même chose.- tutto cambia perché nulla cambi.

Ancora più importante è il fatto che qualsiasi strategia razionale di sviluppo  “a due gambe” sarà incompatibile con il rispetto del regolamento macroeconomico della UEM e non riuscirebbe a manteneretranquilli i mercati finanziari, che sono fatti per agire come disciplinari della sovranità dell’Eurozona (Costantini 2018; Halevi 2019). Ciò risulta chiaro da quanto accaduto quando il governo M5S-Lega ha elaborato un piano di bilancio espansivo per il 2019. L’impatto totale dello stimolo fiscale, inizialmente proposto nel Piano di bilanciol 2019 ammontava a circa l’1,2% del PIL. nel 2019, l’1,4% nel 2020 e l’1,3% nel 2021 – e anche questa minima espansione di bilancio, in questo momento, ha provocato risposte forti e negative da parte della Commissione europea e un immediato rialzo dei rendimenti dei titoli italiani.

Blanchard  e altri (2018) formalizzano questo status quo in un modello meccanico di dinamica del debito e concludono che il PdB 2019 rischia di innescare “spread ingovernabili e crisi gravi, inclusa la possibile uscita involontaria dall’Eurozona”. Blanchard e al. (2018, pagina 16) propendono per un bilancio fiscalmente neutro, che a loro avviso porterebbe a tassi di interesse più bassi e “probabilmente” (a detta loro) a una crescita più elevata e a nuova occupazione. Equazioni, grafici e paroloni-tecnocratico-economici vengono usati con competenza per trasformare quello che di fatto è solo una modestissima trasgressione del regolamento Europeo, in un evento che difficilmente sarà catastrofico e che tutti vorrebbero evitare (vedi Costantini 2018). Quello che è veramente tragico è che il Piano di Bilancio del 2019 non si avvicina nemmeno lontanamente a quello che sarebbe necessario per una strategia razionale. All the sound and fury is for nothing.Tanto rumore per nulla.

Peggio ancora è il fatto che il mantenimento dello status quo dell’Italia, cioè un bilancio fiscalmente neutro, comporta un rischio reale, di cui si parla sempre troppo poco: il crollo della stabilità politica e sociale nel paese. La continua stagnazione alimenterà il risentimento e le forze anti-establishment e anti-euro in Italia e questo non destabilizzerà solo l’Italia, ma l’intera zona euro. La crisi italiana costituisce quindi un vero monito per tutta l’Eurozona nel suo insieme: Continuare con una politica di austerità e contrazione dei salari reali, in combinazione con la de-democratizzazione imposta dalla macroeconomia ai politici, è un   “gioco pericoloso” (Costantini 2018), un gioco che rischia di potenziare ancora di più le forze anti-establishment anche altrove nei paesi dell’Eurozona.

E’ come aprire il vaso di Pandora. Nessuno può dire dove si finirà. Gli economisti (compresi quelli italiani) hanno un’enorme responsabilità in tutto ciò, sia perché hanno molte colpe per questo caos, sia perché non riescono a mettersi d’accordo su una vera soluzione strategica e razionale per risolvere la crisi italiana. “Forse”, scrisse John Maynard Keynes, “è storicamente vero che nessun ordine della società perisce mai se non per mano propria” (Keynes 1919). Gli economisti razionali devono dimostrare che la sentenza di Keynes è sbagliata, a cominciare con l’Italia, se non altro perché sembra che da quel pasticciaccio della Brexit non si riesca più ad uscire.

 

Servaas Storm  Senior Lecturer of Economics, Delft University of Technology.   Servaas Storm is a Dutch economist and author who works on macroeconomics, technological progress, income distribution & economic growth, finance, development and structural change, and climate change.

Fonte: https://www.ineteconomics.org

Link: https://www.ineteconomics.org/perspectives/blog/how-to-ruin-a-country-in-three-decades?fbclid=IwAR3VFkfav10bVOycYrnkVHprXT5dZT0gYGQbiYv7EmPMfMBO7VTlmuylqUI

10.04.2019

Il testo di questo  articolo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali, citando la fonte  comedonchisciotte.org  e l’autore della traduzione Bosque Primario

 

Referimenti

  • Blanchard, O., Á. Leandro, S. Merler and J. Zettelmeyer. 2018. “Impact of Italy’s draft budget on growth and fiscal solvency.” Policy Brief 18-24. Washington, D.C.: Peterson Institute for International Economics.
  • Bugamelli, M., S. Fabiani, S. Federico, A. Felettigh, C. Giordano and A. Linarello. 2018. “Back on track? A micro-macro narrative of Italian exports.” Ministry of Economy and Finance Working Paper No. 1. Rome: Ministry of Economy and Finance.
  • Celi, G., A. Ginzburg, D. Guarascio and A. Simonazzi. 2018. Crisis in the European Monetary Union: A Core-Periphery Perspective. London: Routledge.
  • Costantini, O. 2017. “Political economy of the Stability and Growth Pact.” European Journal of Economics and Economic Policy: Intervention 14 (3): 333-350.
  • Costantini, O. 2018. “Italy holds a mirror to a broken Europe.” Blog post, Institute for New Economic Thinking, June 14.
  • Dosi, G. 2016. “Beyond the ‘magic’ of the market. The slow return of industrial policy (but not yet in Italy).” Economia e Politica Industriale 43 (3): 261-264.
  • Fazi, Th. 2018. “Italy’s organic crisis.” American Affairs Journal, May 20.
  • Halevi, J. 2019. “From the EMS to the EMU and …. to China.” INET Working Paper. Forthcoming.
  • Horobin, W. 2019. “Le Maire Says Italian Recession Threatens France’s Economy.” February 20, Bloomberg.com.
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