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La Redazione

 

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COME IN GUERRA
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A cura di Davide
Il 20 Marzo 2007
96 Views

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DI MASSIMO FINI
Il Gazzettino

Un classico scambio di prigionieri come in guerra

Le modalità del rilascio di Daniele Mastrogiacomo dimostrano ciò che vado sostenendo da tempo. Che si può pensare ciò che si vuole del movimento talebano ma non si può considerarlo né un movimento banditesco né terrorista. Quando hanno fermato il giornalista italiano, l’interprete e l’autista lo hanno definito un “arresto”, perché i tre, secondo la loro prospettiva si erano introdotti illegalmente nel territorio da loro controllato. L’autista era una spia perché, in una situazione analoga quando aveva accompagnato un giornalista per un’intervista a un comandante talebano, aveva fornito agli inglesi le coordinate del luogo
dove si trovava consentendogli di catturarlo.

E l’hanno giustiziato come si fa, in guerra, con le spie. Accertato invece che né Mastrogiacomo né l’interprete erano spie non hanno richiesto denaro o «aiuti umanitari» ma uno scambio di prigionieri. Come si fa in guerra. Mastrogiacomo l’hanno trattato duramente, a causa delle condizioni difficilissime in cui si trovano ad operare (sono settimane che la Nato sta bombardando il sud dell’Afghanistan) ma con correttezza e, come avevano fatto con una giornalista inglese durante l’attacco americano del 2001, l’hanno restituito fisicamente integro.Del resto non si capisce da dove derivi questa bolla di infamia di movimento terrorista affibbiata ai Talebani. Non c’era un solo afgano nei commandos che attaccarono le Torri Gemelle e il Pentagono. Non un solo afgano è stato trovato in seguito nelle cellule, vere o presunte, di Al Quaeda. Ci sono arabi sauditi, yemeniti, giordani, egiziani, tunisini, marocchini, ma non afgani. La pratica terrorista è estranea alla cultura e alla tradizione afgana e quindi talebana. Non si registra un solo atto di questo tipo, tantomeno kamikaze, durante i dieci anni di pur impari conflitto con gli invasori sovietici. E se dagli inizi del 2006 anche la guerriglia talebana ha cominciato a far uso di terrorismo – niente comunque in confronto con quanto avviene in Iraq – è per due ragioni sostanziali.

1) Cinque anni di presenza occidentale in Afghanistan hanno inquinato la loro cultura più di quanto avessero fatto i sovietici in dieci.
2) L’esasperazione e la frustrazione di dover battersi con combattenti che non combattono, ma con macchine, con aerei come i Predator e i Dardo americani, che non hanno equipaggio ma missili micidiali, i cui piloti, copiloti e puntatori stanno comodamente seduti a una consolle, manovrando il tutto da Nellis nel Nevada. Nonostante questo, si sa che cè un forte contrasto fra il mullah Omar, il leader carismatico del movimento, che è contrario, in armonia con la cultura afgana, ad attacchi terroristici che «colpiscano anche civili innocenti», e uomini come Dadullah che, agendo sul campo, possono vantare l’efficacia di simili metodi (e sono abbastanza convinto che se Mastrogiacomo ne è uscito indenne è perché il canale di Gino Strada era Omar che durante gli anni in cui era al potere lasciò lavorare liberamente Emergency).

La colpa dei Talebani è di essersi trovati in casa, al momento dell’attacco alle Torri Gemelle, Bin Laden, questo ricchissimo e ambiguissimo arabo saudita che proprio gli americani avevano piazzato da quelle parti e foraggiato in funzione antisovietica. Ma Bin Laden era un problema anche per loro. Tanto è vero che quando Bill Clinton propose ai Talebani di ucciderlo si mostrarono disponibili. Il braccio destro del mullah Wakij, si incontrò due volte segretamente col presidente americano, il 28 novembre e il 18 dicembre 1988, e gli propose di fornirgli le coordinate esatte del luogo dove si trovava Bin Laden perché potessero colpirlo. Ma la responsabilità, spiegò Wakij, dovevano assumersela per intero gli americani, lasciando fuori il governo di Kabul, perché Osama in Afghanistan aveva costruito ospedali, scuole, strade, ponti, godeva quindi di grande prestigio presso la popolazione che non avrebbe accettato un suo assassinio per mano talebana. Ma inspiegabilmente Clinton, che pur aveva preso l’iniziativa, all’ultimo momento rinunciò.

In ogni caso sono passati sei anni e Bin Laden non è stato preso e non è più possibile sostenere che gli americani e i loro alleati sono ancora in Afghanistan per dargli la caccia. Sono truppe di occupazione. Così almeno le considera l’88% dei maschi afgani interpellati dal britannico Senlis, uno dei più importanti centri studi di politica internazionale. Né è lecito dire che, Bin Laden o no, stiamo facendo la guerra ad Al Quaeda. Secondo lo stesso Senlis «nel movimento insurrezionale afgano… Al Quaeda non riveste un ruolo significativo».

Adesso emergono anche sui media occidentali, sia pur timidamente, le ragioni per cui a suo tempo i Talebani si affermarono in Afghanistan e perché ottennero l’appoggio della stragrande maggioranza della popolazione. Perché tagliarono le unghie ai «signori della guerra» che, dopo dieci anni di conflitto con i sovietici, erano diventati più feroci che mai e vessavano la popolazione, taglieggiando, rubando, rapinando, ammazzando, stuprando. Talebani riportarono la legge e l’ordine, sia pure una dura legge e un duro ordine, nel Paese. Cosa che cercano di fare anche ora nelle zone da loro controllate impedendo gli arbitri della corrottissima polizia afgana (formata peraltro da poveracci che hanno accettato questo pericolosissimo ingaggio per potersi sfamare). Ma questo punto non è più nemmeno una questione talebana, con tutta evidenza è la rivolta di un popolo fiero e orgoglioso che non ha mai accettato occupazioni di stranieri, che li ha sempre cacciati come fece con gli inglesi e, recentemente, con gli invasori sovietici. Non è più una guerra talebana, è una guerra di popolo, dove ai Talebani si mischiano coloro che talebani non sono mai stati. Questa è la realtà. Continuare cocciutamente a ignorarla è un errore che ci potrebbe costare caro.

Massimo Fini (http://www.massimofini.it.)
Fonte: http://www.ilgazzettino.it
21.03.2007

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