COLPITI NEL PORTAFOGLIO DUE SECOLI DOPO CHARLES BOYCOTT

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“Inventato” nel 1800 in Irlanda, il boicottaggio resta ancora oggi
un efficace strumento di protesta. Soprattutto contro le multinazionali

DI SABINA MORANDI

Il capitano inglese Charles Boycott non sarebbe stato contento. Per uno che si compiaceva di spremere sangue dai contadini irlandesi che lavoravano le sue terre non deve essere una grande soddisfazione trovare l’immortalità proprio grazie ai suoi nemici. Eppure, nel redigere la cronaca del primo boicottaggio della storia, durante il quale i contadini guidati dal reverendo O’Malley smisero di comprare i prodotti del padrone, un giornalista americano di fine ‘800 ricavò il fortunato neologismo proprio dal suo nome.

Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti ma il boicottaggio è restato un importante strumento di lotta nel mondo anglosassone e oggi, nella globalizzazione delle transnazionali, rivela inaspettate potenzialità. Gli scioperi fanno il solletico a un’azienda che ha sparpagliato le sue fabbriche nei luoghi più remoti del pianeta ma una campagna ben orchestrata può fare davvero male e, conti alla mano, finisce per costare più delle misure – sanitarie, ambientali o riguardanti i diritti del lavoro – che si vogliono imporre.

In principio fu Gandhi

La filosofia di Gandhi non si può ridurre al boicottaggio, tuttavia troppo spesso si dimentica l’aspetto più incisivo della sua teoria della non violenza. Il primo boicottaggio delle merci inglesi venne organizzato nel 1919, iniziativa accompagnata da una minacciosissima obiezione fiscale. Nel 1930 Gandhi lanciò il boicottaggio dei tessuti e la “marcia del sale” durante la quale, per protestare contro le altissime imposte indirette, guidò una sterminata folla fino al mare, dove invitò i concittadini a servirsi da soli. In realtà Gandhi fu fortemente influenzato da Henry David Thoreau (1817-1862), il cui saggio sulla disobbedienza civile venne dato alle stampe nel 1849 con il nome di Resistance to Civil Government. Fondamentale, nella prassi gandhiana come nelle versioni più recenti, è la calibrata escalation delle forme di lotta. Secondo Gandhi bisogna sempre partire dal negoziato, passare attraverso l’arbitrato, l’agitazione e lo sciopero generale, per poi approdare al boicottaggio, il digiuno, l’obiezione fiscale, la non collaborazione, la disobbedienza civile e il governo parallelo, quando non si riconosce più la legittimità di quello reale.

Nel 1955 fu la volta del reverendo Martin Luther King. Per quindici giorni decine di migliaia di neri smisero di utilizzare i mezzi pubblici a Montgomery, in Alabama, dopo che una signora era stata arrestata perché aveva rifiutato di cedere il posto a un bianco. King venne a sua volta imprigionato e minacciato di morte, ma le proteste innescate dal boicottaggio non si placarono e accesero la coscienza civile dei neri di tutto il paese tanto da costringere la Corte Suprema, nel dicembre 1956, a dichiarare illegale la segregazione. In seguito, il boicottaggio tornò a essere un’arma di emancipazione razziale quando contribuì a far crollare il regime dell’apartheid in Sudafrica: gli studenti delle università statunitensi lanciarono una campagna contro la Barclays Bank, pesantemente coinvolta con il governo di Pretoria. Nell’arco di pochi mesi la banca vide scendere dal 27 al 15 per cento gli studenti correntisti, e venne spinta a scaricare il regime razzista.

Gli anni sono passati ma l’arma del boicottaggio continua a essere estremamente efficace soprattutto nei confronti delle grandi corporation transnazionali che riescono facilmente a sottrarsi alle classiche forme di lotta così come alle leggi dei singoli stati ma sono molto vulnerabili quando si tratta d’immagine. Per marchi abituati a spendere milioni di dollari in pubblicità la sola minaccia di una campagna stampa sfavorevole può bastare per riportare a più miti consigli. Se la campagna viene ben costruita – con obiettivi chiari e un’escalation che renda sempre possibile alla controparte fare marcia indietro – qualsiasi azienda può venire costretta ad accogliere le richieste per mostrarsi “socialmente responsabile”, anche quando questo comporta dei costi. E’ bastata una campagna informativa mirata ai titolari dei fondi pensione per costringere Glaxo-Wellcome, Bristol Myers Squibb, Roche, Merck e Boehringer Ingelheim, le cinque sorelle della salute globale, a ritirarsi dal processo contro il governo sudafricano colpevole di voler acquistare farmaci fuori brevetto contro l’Aids. Sempre nel 2000, il gigante nipponico Mitsubishi ha firmato un accordo con il Rainforest Action Network – organizzazione internazionale che si occupa di difesa delle foreste – nel quale si è impegnata ad abbandonare alcune delle tecniche di deforestazione più devastanti. In seguito alle pressioni degli ambientalisti la corporation giapponese ha deciso di abbandonare anche un progetto di estrazione di sale marino in Messico, che avrebbe pesantemente danneggiato una zona costiera. Nel 2001 la Del Monte, dopo avere ammesso che nella piantagione di ananas di Thika, in Kenia, le condizioni di lavoro e di vita erano scandalose, si è formalmente impegnata a mettere in atto un drastico piano di riforma. Nel 2002 è stata la volta della Triumph: terrorizzata dalla campagna stampa lanciata dall’inglese Burma Campaign, che accusava la compagnia di fare affari con la giunta militare che governa la Birmania, ha annunciato la chiusura dei suoi stabilimenti a nord di Rangoon.

Le campagne in corso

Sarà uno strumento prevalentemente anglosassone ma agli italiani comincia a piacere. Secondo un sondaggio realizzato nell’estate del 2003 dalla Gpf & Associati di Milano, 14 milioni di italiani – ovvero il 31 per cento – hanno rinunciato ad acquistare alcuni prodotti per motivi etici. Dal boicottaggio si passa quindi a una nuova fase, quella dei consumatori consapevoli – aumentati del 20 per cento rispetto all’anno prima – che evitano un prodotto perché viene sperimentato sugli animali, perché la ditta che lo produce sfrutta i lavoratori, distrugge l’ambiente o fa affari con regimi che hanno una pessima reputazione nel rispetto dei diritti umani. Talvolta succede però che le campagne si dilunghino troppo: ottima cosa per la coscienza critica dei consumatori ma pessima per convincere le aziende a cambiare linea di condotta.

E’ il caso ad esempio della Nestlè, sottoposta al più lungo boicottaggio della storia. Ventisette anni di pressione non sono riusciti a costringere la multinazionale svizzera a rispettare il Codice internazionale sulla commercializzazione dei sostituti del latte materno, promulgato dall’Oms dopo quattro anni di campagna internazionale che aveva denunciato le pesanti conseguenze sanitarie della diffusione del latte in polvere. Mentre le denunce venivano rinnovate, sia da parte degli attivisti che di organismi come l’Unicef, Nestlè continuava a crescere diventando in pochi anni una delle più potenti corporation alimentari del mondo. Le ragioni possono essere molteplici. In primo luogo è passato forse troppo tempo da quando l’International Nestlé Boycott Committee ha denunciato per la prima volta il comportamento della corporation nella promozione del latte in polvere e, in secondo luogo, il marchio si è “diluito” in una grandissima varietà di prodotti rendendolo di fatto distinguibile solo ai consumatori più informati. In questo caso sono state le dimensioni stesse dell’azienda a limitare l’efficacia del boicottaggio.

Un’altra storica campagna è quella contro la Nike: dieci anni di pressioni ininterrotte e ben articolate per spingere l’azienda a rispettare uno standard minimo di diritti del lavoro. A livello locale si sono registrate importanti vittorie come quando, nel 2001, i lavoratori di una maquilladora messicana sono riusciti a creare un sindacato indipendente – e momenti di forte adesione – come durante i mondiali del 1998 e del 2002, quando la denuncia di Mani Tese ha fatto luce sullo sfruttamento dei bambini per la realizzazione di articoli sportivi. La Nike, però, è molto abile nel dribblare le denuncie trasferendo la produzione in paesi sempre più compiacenti. Memorabile è il caso indonesiano: da un giorno all’altro 7 mila persone sono state licenziate senza alcuna indennità o liquidazione mentre gli stabilimenti venivano trasferiti in Cina.

Altro gigante nel mirino degli attivisti è la Coca Cola, già alle prese con uno spontaneo calo delle vendite nei paesi islamici. Nel 2003, dalla Colombia, dopo che scioperi e proteste non avevano ottenuto alcun effetto, è partito un boicottaggio internazionale che si è rapidamente esteso negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Spagna, in Germania e in Irlanda, dove molti pub hanno smesso di dispensare la bevanda. La campagna colombiana, che mirava a denunciare il comportamento anti-sindacale della corporation di Atlanta, si è spontaneamente allacciata con il boicottaggio lanciato dalla Norvegia per costringere l’azienda a risarcire i contadini indiani danneggiati dagli impianti, e alle pressioni provenienti dal Canada e da alcuni Stati Usa che tentano di arginare la diffusione di consumi alimentari insalubri nelle scuole.

E parlando di alimenti non si può dimenticare Mc Donald’s, praticamente il simbolo della globalizzazione che sfrutta, inquina e avvelena. La corporation non viene solo accusata di diffondere abitudini nutrizionali sbagliate ma anche di inquinare sia direttamente – promuovendo un insostenibile consumo di carne – che indirettamente, attraverso l’utilizzo di una mole impressionante di imballaggi non degradabili. Inoltre è noto il livello di sfruttamento cui sono sottoposti i dipendenti dei fast food e quelli degli allevamenti che forniscono la materia prima della polpetta più famosa del mondo. McDonald’s ha risposto aprendo le proprie cucine ai clienti per “disinnescare” l’ondata delle cause intentate per disturbi alimentari ma non ha modificato la propria strategia generale né si registrano sostanziali miglioramenti nelle condizioni di lavoro.

Sabina Morandi  
Fonte:www.liberazione.it
4.11.04  

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