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La Redazione

 

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CHI E' DANIEL PIPES, L'ISPIRATORE DELLE VIGNETTE

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A cura di Davide
Il 6 Febbraio 2006
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DI MAURIZIO BLONDET

Aveva detto giusto il professor Mikael Rothstein, docente all’università di Copenhagen.
Intervistato dalla BBC sulle famigerate vignette anti-islamiche, Rothstein (un galantuomo, evidentemente) aveva parlato di un’operazione condotta a freddo da «agenti di una certa ideologia».
Come primo «agente» locale, varrà la pena di citare Flemming Rose.
E’ il direttore delle pagine culturali del Jylland-Posten (JP), il principale giornale della piccola Danimarca: l’uomo che ha commissionato e pubblicato, a settembre, le dodici vignette che offendevano Maometto e l’Islam.
Persino l’Herald Tribune ha notato che la libertà d’espressione di questo Rose incontra precisi limiti, tutti a favore d’Israele.
Il direttore culturale danese ha infatti dichiarato al giornale americano: «io non pubblicherei una vignetta che mostrasse Ariel Sharon mentre strangola un bambino palestinese, perché è razzista».
Intervistato dall’amico e coraggioso giornalista Chris Bollyn (1) il Rose continua a difendere la sua posizione.
«Sono convinto di aver fatto la cosa giusta a pubblicare le vignette», dice.
Ma si rendeva contro, gli ha chiesto Bollyn, di quali reazioni avrebbero suscitato?
Risposta: «pormi una tale domanda è come chiedere alla vittima di una violenza carnale se si pente di avere indossato una minigonna per andare in discoteca».

Bollyn ha scoperto che Rose ha intimi legami con precisi ambienti neoconservatori USA.
Nell’ottobre 2004 il giornalista «culturale» danese è stato ospite a Philadelphia di Daniel Pipes, uno dei più rabbiosi propagandisti anti-musulmani in America.
Americo-israeliano, Daniel Pipes è membro di vari think tank neocon, come il Washington Institute for Near East Policy e il Project for a New American Century (PNAC), nonché di gruppi di facciata creati dai neocon, come l’US Committee for a free Lebanon.
Scrive regolarmente per il Jerusalem Post.
Nel 2000, Daniel Pipes, con il cappello del Committee for a free Lebanon, ha scritto un documento dal titolo «Finirla con l’occupazione della Siria in Libano: il ruolo USA».
In esso, Pipes criticava il governo americano perché secondo lui negoziava, anziché abbatterlo, col regime di Damasco.
L’uso della forza è il solo argomento che gli islamici capiscono, insisteva Pipes (un concetto che ha imparato in Israele), tanto più, assicurava, che la Siria dispone ormai di armi di distruzione di massa (2): «gli USA sono entrati in una nuova era di indiscussa supremazia militare, con una vistosa diminuzione delle perdite umane sul campo di battaglia [in Iraq]…questo apre la porta a decisioni simili per il Libano, le cui libertà e pluralismo sono in pericolo. Questa opportunità non durerà a lungo, in quanto, espandendosi la disponibilità di armi di distruzione di massa, i rischi dell’azione militare cresceranno rapidamente».

A firmare l’appello di Pipes sono stati praticamente tutti i neocon ebrei più noti: Richard Perle, Douglas Feith (l’ex viceministro al Pentagono), David Wurmser, Michael Leeden, Frank Gaffney, Jeane Kirkpatrick, Elliott Abrams, e la sottosegretario di Stato per gli Affari Globali Paula Dobriansky: tutta gente dell’American Enterprise e del PNAC.
Come si sa, questo appello ha avuto un evidente effetto: il misterioso attentato al libanese Hariri, i disordini «spontanei» scoppiati in Libano che hanno portato al ritiro della Siria, la quale nonostante ciò resta nel mirino della Casa Bianca come candidata per un’aggressione.
In USA, Daniel Pipes si è distinto per uscite ferocemente anti-islamiche con offese dirette di tale violenza, da essere condannato in giudizio per «hate crime» contro un professore universitario secondo lui troppo amico degli arabi.
Lo ha difeso Karl Krauthammer, un altro energumeno ebreo che scrive per il Washington Post, con questi argomenti: «gli attacchi a Pipes non sono altro che un sintomo ulteriore dell’assurda correttezza politica che circonda il radicalismo islamico…Perché dobbiamo fare finta di dedicare i nostri sospetti di intenzioni terroristiche a tutti indistintamente?».
E faceva il caso dei passeggeri di un aereo: «perché dobbiamo perquisire allo stesso modo una suora di 70 anni, un seminarista ebreo di 50 (sic) e un trentenne saudita? Poniamo che sull’aereo salga vostra figlia. A chi vorreste che le guardie di sicurezza prestassero più attenzione?».

Ovviamente Daniel Pipes è anche l’ispiratore del «Jerusalem Summit», il gruppo di pressione secondo cui «due pericoli minacciano l’Occidente: il fondamentalismo islamico, la nuova forma del totalitarismo, e il relativismo morale».
Ne abbiamo parlato su questi sito («Jerusalem Summit centrale neocon», 13/11/2005).
La tesi centrale di Pipes è che l’Islam va «provocato» per suscitare al suo interno la «Riforma», analoga a quella che Lutero fece scoppiare nella Chiesa cattolica e che l’ha resa «ragionevole».
Un’altra sua tesi, come abbiamo visto, è la battaglia per fare il «profilino» degli arabi, sull’esempio israeliano: tutti gli arabi-americani sono sospetti di terrorismo e perciò passibili di sorveglianza speciale.
A questo scopo, Pipes ha fondato due «istituzioni culturali» specifiche: una l’ha battezzata Center for Islamic Pluralism e l’altra, più brutalmente, Anti-Islamic Institute.
Per questa sua posizione, nel 2003 il presidente Bush lo ha messo a capo di un organismo governativo che si chiama US Institute for Peace: nome orwelliano per un ente che si dedica ad aizzare lo scontro di civiltà (3).

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Sono evidenti i punti di contatto fra le vignette danesi e l’ideologia di Daniel Pipes.
Quando il giornalista danese Flemming Rose è andato a trovare l’individuo nel 2004 a Philadelphia, è stato evidentemente per organizzare insieme la provocazione internazionale; che doveva, per ovvi motivi, partire dall’Europa.
Al ritorno, Rose ha infatti scritto un articolo in lode di Pipes e della sua tesi, secondo cui l’Islam è la forma estrema del fascismo (4).
A questo proposito, vale poco la tesi ventilata dai giornali italiani servi dei neocon, secondo cui i musulmani hanno fatto finta di nulla quando le vignette sono state pubblicate a settembre, per scatenarsi a freddo mesi più tardi.
In realtà, nessuno si sarebbe accorto delle vignette blasfeme se non le avesse ripubblicate il New York Times quattro mesi dopo: il giornale della famiglia Meyer in cui Daniel Pipes ha voce in capitolo.
Subito dopo, almeno una decina di giornali in tutta Europa hanno ripreso le vignette: simultaneamente in Francia e Italia, Germania, Olanda, Spagna e Svizzera, tutti il primo febbraio.

Tutti con la stessa giustificazione: «difesa della libertà d’opinione».
La simultaneità rivela una mano unica nella vicenda.
E l’identità dei giornalisti che hanno sfidato l’Islam a comando aggiunge qualche sospetto.
In Francia, il direttore del disastrato France Soir che ha pubblicato per primo le immagini si chiama Arnaud Levy.
Ma non è stato lui che l’editore del giornale, il magnate franco-egiziano (ma cristiano, non islamico) Raymond Lakah ha licenziato: ad essere licenziato è stato Jacques Lefranc, direttore esecutivo, di fatto il redattore-capo.
Levy, intoccabile, resta al suo posto.
L’ha difeso anche Reporters sans Frontières, per opera del suo segretario Robert Ménard: «tutta l’Europa deve appoggiare i danesi in difesa del principio che un giornale può scrivere quel che vuole, anche se offende della gente».
Un principio innovativo, che legalizza ogni diffamazione e vilipendio.
«Posso capire che la faccenda sconvolga i musulmani», aggiunge Ménard, «ma essere sconvolti è il prezzo che si paga per essere informati».
Sic dixit.

La Danimarca (che ha 500 soldati in Iraq al seguito degli americani) sta pagando cara la sua libertà di insulto.
Il boicottaggio delle meri danesi nei paesi musulmani sta mettendo in ginocchio una delle più grosse aziende del Paese, la danese-svedese Arla Foods, che vende latte burro e formaggi al Medio Oriente: un giro d’affari di 480 milioni di dollari.
«Ci abbiamo messo 40 anni a costruire il nostro business in Medio Oriente, ed ora tutto è crollato completamente in cinque giorni», ha detto alla BBC la portavoce dell’azienda, Astrid Gate.
Ma rischi peggiori sono ipotizzabili, come nota Chris Bollyn.
Tra i giornali che hanno irresponsabilmente ripubblicato le immagini blasfeme c’è La Stampa di Torino che le ha pubblicate il primo febbraio (due giorni dopo il Corriere della Sera di Mieli).
La Stampa, il giornale della città che sta per ospitare le Olimpiadi invernali.
Tutto il clima è pronto per un «attentato islamico» in coincidenza con la manifestazione sportiva, che porterà folle e celebrità a Torino.
Un attentato, magari, false flag.
Insomma la prima impressione è confermata: si è trattato di un’operazione neocon-israeliana dal principio alla fine.
E la fine ancora non è arrivata.

Maurizio Blondet
Fonte: www.effedieffe.com
Link: http://www.effedieffe.com/interventizeta.php?id=936&parametro=esteri
6.02.06

Note

1) Chris Bollyn, «Cartoons are a purposeful provocation», American Free Press, 4 febbraio 2006. Bollyn collabora con Jimmy Walter, il miliardario americano che lotta per far conoscere la verità sull’11 settembre.

2) Per giustificare l’attacco all’Iraq, Pipes scrisse che Saddam poteva avere la bomba atomica «entro due-tre anni». Più tardi ha scritto: «la vera causa per cui gli USA hanno invaso l’Iraq non sono mai state le armi di distruzione di massa, né la minaccia che Saddam rappresentava per i suoi vicini [leggi Israele]…La campagna contro l’Iraq ha a che fare col mantenere gli impegni verso gli Stati Uniti o pagarne le conseguenze…Mantieni le promesse o sei finito».

3) I senatori democratici si sono opposti alla nomina dell’energumeno Pipes a un istituto che secondo il suo statuto «promuove la soluzione pacifica dei conflitti internazionali» (sic). Bush ha superato l’ostacolo nominando Pipes direttamente, mentre il Congresso era chiuso.

4) La tesi è stata ricalcata di recente da Angela Merkel, che ha definito il regime iraniano una replica del Terzo Reich.

VEDI ANCHE:DISUMANIZZARE IL NEMICO

DANIEL PIPES, ESPERTO DELL’ODIO

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