DI CHRISTIAN RAIMO
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Qualche giorno fa ascoltavo una ragazza italiana che vive a Londra tornata a farsi le vacanze in Italia raccontarmi i riots: ho visto un sedicenne, un diciassettenne, diceva, che dopo aver saccheggiato un negozio di smartphone, ne aveva presi così tanti che non sapeva che farci e li rivendeva a cinque pounds l’uno. Ho pensato a questo ragazzino che, seppure per molti versi non sarà un esempio, aveva secondo me la ragione dalla sua per almeno un paio di motivi.
Uno, da un punto di vista dell’economia globale. Magari non aveva letto Il valore delle cose di Raj Patel ma stava comunque a suo modo applicando una forma di giustizia distributiva: cinque pounds è più o meno il prezzo di fabbrica di certi telefonini superaccessoriati usciti dagli stabilimenti cinesi, tipo la Foxconn – questa immensa comunità operaia di 300.000 dipendenti (e qualche decina di suicidi l’anno) dove la paga media è di 130 dollari al mese.
Due. In un certo senso non faceva altro che prendere alla lettera qualche slogan visto in giro, tipo quello della Nike con Wayne Rooney del Manchester che la spara grossa: Don’t be the target, be the weapon. Oppure quello della nuova Lancia Ypsilon che campeggia anche sulla metà dei cartelloni sei per tre in Italia. Che rimproverargli? Come molti suoi coetanei probabilmente cresciuto con il mito del Vincent Cassel che si scontra contro la polizia nelle banlieue dell’Odio, ne ha magari seguito la carriera, cattivo dopo cattivo, e ora sarebbe in grado di interpretare meglio di chiunque altro il senso di quel ghigno sfoderato sempre da Cassel alla fine dello spot girato da quello stesso Aronofsky che l’ha diretto nel Cigno nero: “A cosa serve il lusso se non riesci a godertelo? Il lusso”, pausa attoriale, “è un diritto”. Figuriamoci un bel mucchio di iPhone.
Ci sono queste due ragioni (ragioni che non riescono a far empatizzare in parte con quella rabbia?) alla base della mia sicurezza che siamo alla fine di un’epoca politica anche per l’Italia. E che questa manovra di Ferragosto è il cappio al collo con il quale il governo Berlusconi si sta impiccando da solo senza neanche rendersene conto o non potendo fare altrimenti.
Questa è la sensazione. Ogni giorno che viene fuori un’ulteriore dichiarazione ufficiale o ufficiosa su una correzione aggiuntiva, ogni giorno che i mercati subiscono una tempesta che lascia anche il manifesto a corto di titoli apocalittici, si sente più nitido il rumore di una sega concentrata sul ramo sul quale questo governo e questa classe politica si è seduta.
E allora dà un piacere macabro ascoltare le conferenze stampa di Tremonti e andare a rileggersi le parole che utilizzava nel suo libro La paura e la speranza, giusto un paio di anni fa. La crisi era finita, il futuro era alle porte, gli economisti una manica di menagrami…
Come crea dei cortocircuiti niente male vedere Fiat Industrial sprofondare a meno 12% e ricordarsi che saranno mesi che ci siamo dimenticati: non abbiamo ancora ringraziato l’uomo col maglioncino…
La strategia politica di chi ha gestito e sta ancora cercando di gestire questa crisi si sta rivelando un kolossal del fallimento, una scena tipo una Letizia Moratti che aspetta fiduciosa l’arrivo provvidenziale di un Gigi D’Alessio. Inizia a risultare imbarazzante quest’illusione pervicace dei nostri ministri. Riuscire ancora a incantare qualcuno di essere capaci di guidare un paese: una convinzione che affonda le sue fondamenta su un castello di sabbie mobili.
Oltre i sorrisi laccati, i ghe pensi mì, i siamo solidi, i risorgeremo, va a un certo punto tenuto conto di un principio di realtà. E la realtà è che l’impianto economico, politico, e anche retorico, di questa finanziaria d’emergenza fa acqua: fa acqua per molti motivi strutturali da un punto di vista economico, ma ancor di più si rivela una fata morgana perché fa appello a un senso di responsabilità collettiva che è stato progressivamente smantellato esattamente da chi lo sbandiera ora come un valore comune, assoluto, scontato; demolito in nome di piccoli e grandi tornaconti personali, dei tamponi per salvare i governicchi, dell’incompetenza brada, del menefreghismo rivendicato, dell’evasione fiscale à la page.
Sono stati gli anni delle inaugurazioni dell’anno scolastico del Cepu e ora si chiede senso di responsabilità tagliando i fondi alle province: che dove prenderanno i soldi per rinnovare la scuola? Sono stati gli anni in cui il venticinque aprile qualcuno lo festeggiava a minorenni e barzellette riciclate, e ora a noi viene chiesto di lavorare? È successo neanche un annetto fa che i capitali (un centinaio di miliardi di puro non-ve-dico-come-l’ho-fatti) sono tornati dall’estero scudati fiscalmente al 5% e ora si pretende una tassa di solidarietà?
All’improvviso, come Lochness ferragostani, riemergono spiriti nazionali, europeismi leghisti, Tobin Tax, patriottismi emergenziali, Napolitani santificati ai meeting. Ora pare, si dice, che la barca è la stessa.
Ma qualche dubbio uno può continuare a averlo, no? Anche perché basta sfogliare un qualsiasi giornale di gossip estivo per capire che la barca non è la stessa. Su Chi di questa settimana, per esempio, c’era quella dell’imprenditore Briatore, dell’imprenditore Lucio Presta, o dell’ex-direttore generale della Rai Mauro Masi: persino a una prima occhiata uno si accorge che c’è una differenza tra tutte queste barche e i pedalò che uno continua a affittare nonostante i rincari del 15% rispetto all’anno scorso.
Per anni ci è stato detto che funzionava come la temperatura. Non si trattava di una crisi reale; era una crisi percepita. Ora si ammette che possiamo fidarci dei sensi. Così forse qualcuno di voi non si stupirà a sapere che anche quest’anno c’è stato un aumento nelle richieste di rateazione delle tasse. Siamo circa a un milione di italiani, che finanziano Equitalia e altre compagnie di giro con un paio di miliardi di interessi all’anno. E nemmeno vi risulterà strano immaginare come i piccoli e grandi enti locali reagiranno all’ennesimo saccheggio: utilizzando sempre di più i vigili urbani come agenti di recupero crediti (quanti di voi hanno preso una multa quest’estate su una amena provinciale isolata alle tre del pomeriggio?).
Il senso di collettività non si inventa da un giorno all’altro. Mi dispiace. Altrimenti sembra quello che è: un tentativo goffo, quasi patetico, di mascherarsi da terza classe per poter accedere alle scialuppe. Non è credibile chiedere una legittimazione ulteriore a una rapina perpetrata sulla spesa sociale da parte chi ha speculato per trent’anni sulla deriva del debito pubblico senza un’idea neanche minima di cosa volesse dire pubblico. Come dire, è un trucco scoperto. La finanziarie di emergenza, le tasse di solidarietà si costruiscono predicando per un welfare da difendere, per i beni comuni, per la giustizia sociale, non razzolando sulla intangibilità di privilegi acquisiti.
Altrimenti la prossima volta che uno compila la dichiarazione dei redditi forse sarebbe bene che trovasse vicino all’otto per mille anche una casella per la causale per poter inserire una noticina tipo: grazie mille dell’impegno profuso nel cercare trucchi da commercialisti balneari, ma questa crisi non la pagherei, gradirei invece destinare queste mie tasse a qualcosa che si possa chiamare Stato; nel frattempo che capiate cos’è, decido di destinarli alle scorte di carta igienica utili per l’anno scolastico imminente dei miei figli, così evito di fargliela portare da casa.
Christian Raimo
Fonte: www.minimaetmoralia.it/
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22.08.2011
Pubblicato anche su “Il Manifesto” con il titolo “Il valore delle cose nell’economia globale”, 26.08.2011