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BERLUSCONI, TREMONTI E LA DECRESCITA

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A cura di Davide
Il 25 Luglio 2010
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DI EUGENIO ORSO
pauperclass.myblog.it

L’accostamento presente nel titolo del mio intervento odierno potrà sembrare ai più una stranezza, una mera ironia, una bizzarria decisamente fuori luogo …

Insorgerebbero, davanti a questo accostamento, sia Badiale e Bontempelli – sostenitori di una via originale alla Decrescita costellata di dure lotte con le oligarchie/ suboligarchie/ caste dominanti, che impongono una crescita distruttiva, per gli umani e per l’ambiente, postulata dalla religione liberalcapitalistica del Progresso – sia un intellettuale come Pallante che rispetto ai primi ha una diversa visione del fenomeno decriscista, certo più “felice” e bucolica, credendo possibile una ricostruzione delle reti sociali di rapporti e di scambi, nella progressiva sostituzione delle merci con i beni, sostanzialmente per via pacifica e al di fuori delle logiche capitalistiche dominanti.
Bisognerebbe però ricordare che c’è anche una “terza via”, per quanto impropria, che porta tutti noi a decrescere, ed è quella della cosiddetta Decrescita Forzata, la quale non può nascere che da drammatiche e penalizzanti – per i paesi dell’Europa mediterranea come l’Italia – interruzioni della crescita del PIL, con abbondanti perdite di posti di lavoro e di quote sui mercati esteri, con contrazioni di consumi sul mercato interno e drastiche riduzioni delle risorse assegnate al welfare.

Deindustrializzazione, delocalizzazioni, chiusure di stabilimenti, disoccupazione, demolizione del welfare e dei servizi sociali sono le condizioni che realizzano la “decrescita forzata”, la quale, a differenza del paradigma della Decrescita di Maurizio Pallante, o di Marino Badiale e Massimo Bontempelli, è destinata a restare del tutto interna – almeno nella sua prima e drammatica fase, caratterizzata da elevati costi e crescenti sofferenze sociali – alle logiche capitalistiche.

Un contributo decisivo, per spingerci con decisione sulla strada della Decrescita Forzata, oltre alla rapacità della finanza internazionale, alla serrata concorrenza “emergente” che ci penalizza e pauperizza rapidamente [in ciò il “multipolarismo” nel suo concreto riflesso economico e commerciale], alla prosecuzione imperterrita dei processi di globalizzazione neoliberisti, può certamente esser dato dai governucoli espressione di una “classe politica” cialtrona, ladra ed incapace, nonché sempre più numerosa, che si struttura al suo interno in comitati d’affari familistico-clientelari e centri di privilegio ingiustificato, insediati nel cuore della cosa pubblica come topi nel formaggio e sempre disponibili a servire i potentati d’oltreoceano, per mantenersi in sella il più a lungo possibile.

Se l’obbiettivo principe di questa suboligarchia degenere, che trova una sponda importante nell’industria infedele e decotta [Fiat, Confindustria] e nel sindacalismo giallo [CISL, UIL, UGL], è sostanzialmente quello di arraffare per garantirsi una vita quanto più possibile comoda a spese di tutti gli altri, la sua azione devastante su vari piani – economico-sociale, etico, culturale, ambientale – nel medio-lungo periodo è in qualche modo funzionale al pieno [e temuto] avvento della Decrescita Forzata, che potrà aprire le porte non necessariamente “ad un nuovo medioevo finale e perenne” di guerre, di caos imperante, di frantumazione della società e di impoverimento generalizzato, ma, bensì, ad una stagione rivoluzionaria del tutto nuova.

La “reinvenzione” della convivenza civile, dei sistemi di potere, della strutturazione sociale su altre basi non potrà che passare attraverso anni difficili, di buio e di incertezza, finanche di lutti.

Di recente è passata al senato la finanziaria “forzatamente decriscista” del colbertian-ragionieristico Tremonti, nonostante i mugugni dell’Ologramma Mediatico di Arcore – il quale avrebbe volentieri procrastinato “la risoluzione dei problemi” in funzione del suo gradimento nei sondaggi – e le proteste delle camarille politiche installate negli enti locali, a partire dalle regioni, che in realtà se ne fregano dei futuri tagli di servizi alla popolazione e pensano alle loro posizioni di potere.

Questa finanziaria colpirà i servizi sociali, il sistema educativo nel suo complesso, i beni pubblici puri e diminuirà ulteriormente il tenore di vita della maggioranza della popolazione italiana.

Quello che non riuscirà a fare sarà “stimolare la crescita economica”, come invece spergiurano i berluscones “occupati in politica”, rianimando il PIL italiano che fra non molto rischierà di finire in permanenza sotto la tenda ad ossigeno.

Nel contempo, si garantiscono l’evasione fiscale ed i patrimoni degli “immobiliaristi”, degli speculatori e della criminalità organizzata.

Continua l’attacco al lavoro in termini di perdita di diritti e di flessibilizzazione/ precarizzazione, di estensione dell’area della precarietà come alternativa concreta alla disoccupazione/ esclusione.

Si tolgono risorse agli enti locali, il che provocherà inevitabilmente un aumento della pressione fiscale già oggi insostenibile, in primo luogo sui redditi da lavoro dipendente, facile bersaglio e preda dei governucoli raffazzonati.

In ciò l’amara ironia del nesso fra Berlusconi, Tremonti e la decrescita [da intendersi come un’impropria Decrescita, Forzata e Infelice] contenuto nel titolo.

Quanto precede confermerebbe, inoltre, il legame direttamente proporzionale che Pallante postula con chiarezza nel suo interessante saggio Decrescita e Welfare State, fra le variazioni annuali del PIL e quelle delle risorse impiegate per alimentare la spesa sociale, legame di diretta proporzionalità messo opportunamente in discussione da Badiale e Bontempelli in Due vie per la decrescita, e da loro considerato un errore, poiché basterebbe fare quello che i subdominanti politici italiani non faranno mai [siamo essi berluscones o pidiini], cioè colpire con un auspicabile “terrore fiscale” attività inutili e dannose come la pubblicità e la finanza, nonché i grandi patrimoni frutto della speculazione e delle pratiche crematistico-immobiliariste, oppure “tagliarsi drasticamente gli stipendi” e ridurre il loro numero in quanto casta [ben oltre quattrocentomila unità, portaborse compresi], per poter mantenere ad un certo livello la spesa sociale, pur a fronte di diminuzioni percentuali del prodotto da un anno all’altro.

Però quanto precede fa sostanzialmente parte della “terza via”, quella della Decrescita Forzata alla quale stiamo andando incontro ad ampie falcate.

Le economie soccombenti seguiranno questa strada, ed in particolare, fra quelle dette “sviluppate”, l’Italia, soggetta alla triplice morsa della finanza anglo-americana affamata di privatizzazioni e infiltrata nell’amministrazione Obama, della concorrenza “emergente” che rappresenta un vero e proprio killeraggio per le attività produttive in loco, ed infine della suboligarchia politica che ormai è senza alcun pudore, gioca allo scoperto e razzia a man salva forse presentendo la fine, possibile già nel medio periodo.

Le scuole senza carta igienica nei bagni e con programmi educativi che tendono drasticamente a ridursi, le manovre per innalzare l’età pensionabile e tagliare le future pensioni, per colpire altresì il pubblico impiego, fino ad ora minimamente garantito a differenza dei dipendenti privati, il volutamente mancato sostegno ai redditi dei “ceti medi figli del welfare” novecentesco, le continue riduzioni percentuali nei consumi interni [anche in quelli alimentari] e l’impennata del tasso di disoccupazione [a sud sembrerebbe che uno su quattro non ha lavoro né fondata speranza di trovarlo] sono niente altro che segnali dell’avvento della Decrescita Forzata, la quale non è un rispettabile paradigma alternativo al capitalismo – che si può civilmente criticare o condividere – come la Decrescita di Pallante o quella di Badiale e Bontempelli, ma qualcosa di molto concreto, di palpabile, che devasta i rapporti sociali di produzione, comprime i consumi, allontana dalla Merce i subalterni precarizzati, non di rado idiotizzati e “bestializzati”, e che forse sortirà lo storico effetto, attraverso la brutalità dell’impoverimento di massa, di tracciare una strada obbligata per l’uscita dal capitalismo così come noi oggi lo conosciamo.

Scrivono Badiale e Bontempelli, prendendo le mosse dal citato saggio di Pallante, che le famiglie potrebbero sostanzialmente “coalizzarsi”, creare una sorta di comunità che porterebbe gli adulti a lavorare un po’ di meno per occuparsi a turno dei bambini, perché il minor reddito [e il minor PIL] sarebbe compensato dal minor costo sostenuto e dall’autoproduzione di un servizio.

Si tratta di buone e condivisibili proposte, ma si può realisticamente chiedere, in questa realtà, a chi ha già un reddito insufficiente, pur lavorando per l’intera giornata, di ridurlo ulteriormente, lavorando di meno?

La proposta, in questi rapporti di produzione che costringono molti a giostrarsi fra due od anche tre lavori [spesso precari] semplicemente per sopravvivere, mi sembra del tutto irrealizzabile.

Pur essendo teoricamente possibile sostituire progressivamente la merce capitalistica con beni e servizi autoprodotti e utili alle persone, la cosa diventa un miraggio dato i meccanismi in atto, che imprigionano fino a stritolare la maggioranza dei subalterni.

Le ferree logiche de-emancipatrici del capitalismo del terzo millennio dominano incontrastate nella società, e impongono ad un numero crescente di persone – attraverso la flessibilizzazione di massa, la distruzione/ privatizzazione del sociale, e lo spostamento di risorse dal Lavoro al Capitale – un superlavoro precario e sottopagato.

In tali condizioni, il pur apprezzabile elogio di Pallante alle famiglie in cui coesistono e vicendevolmente collaborano tre generazioni, con i nonni che si fanno carico dei bambini, partecipano alla loro educazione e garantiscono ai più piccoli un rapporto interpersonale esclusivo, più che rappresentare una possibile resistenza alla mercificazione di tutto [con l’autoproduzione di un servizio non capitalistico] e un “grimaldello” per scardinare progressivamente l’ordine imposto dal Capitale Ultimo, ricorda purtroppo quelle “reti amicali e familiari”, chiamate pelosamente in causa dal macellaio sociale e ministro berluscones, Maurizio Sacconi, nel libro verde/ bianco del suo ministero al solo scopo di falcidiare il welfare e trasferirne le spese sulle spalle dei “privati”.

Inoltre e per soprammercato, l’atomizzazione sociale spinta – che può favorire soltanto la competizione più esasperata fra le persone – isola sempre di più i soggetti e rende difficoltosa una simile collaborazione, pensata con tutta evidenza nel solco dell’alternativa maussiana del “Dono” [Essai sur le don, del lontano 1925] in piena contrapposizione alla mercificazione capitalistica dei rapporti sociali, rispettabile alternativa all’individualismo di matrice liberale che richiederebbe, per essere pienamente operante, una forte coscienza sociale [di classe] e solidarietà diffuse fra i subalterni.

Si può sviluppare in forme nuove la reciprocità del dono, nell’autoproduzione invocata da Pallante, Badiale e Bontempelli con il proposito di sostituire la merce capitalistica, se gli individui sono isolati e deprivati persino dei necessari e più elementari legami solidaristici?

Volendo essere un po’ ironici – per allentare la tensione non mancando di avvertire che viviamo da qualche tempo forzatamente in decrescita – notiamo che i segnali ci sono già praticamente tutti: è recente la notizia che la crisi “morde” alle terga anche il business delle vacanze e che il quarantasei per cento degli italiani, presumibilmente in ambasce e forzatamente in decrescita, resterà a casa per la stagione estiva, se possiamo fidarci dei dati diffusi da Federalberghi.

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Fatte queste debite considerazioni, preciso [se mai fosse necessario] che la Decrescita Forzata e Infelice rappresenta un percorso irto di ostacoli, gravido di sofferenze e di rovine visibili ed invisibili, il cui approdo resta comunque incerto potendo condurci fino all’estremo limite del disastro finale, della dissoluzione completa della società.

Esiste tuttavia la possibilità che una simile situazione favorisca il moltiplicarsi dei “risvegli”, nella parte ancora sana e non completamente obnubilata/ idiotizzata del corpo sociale, e la generale presa di coscienza che il “progresso” capitalistico, così come concretamente oggi si configura, altro non è se non un vicolo cieco, al fondo del quale vi è una grande fossa comune, che potrà democraticamente inghiottire ex borghesi ed ex proletari, ex ceti medi ed operai, disoccupati, precari e parasubordinati, formalmente e concretamente sacrificati per un improbabile “recupero del PIL”, in osservanza del rispetto dei parametri di Maastricht.

Nessuno può escludere che l’approdo, dopo un periodo devastante di Decrescita Forzata e di drammi individuali e collettivi, sia la Decrescita di cui parlano con convinzione e buona fede i nostri teorici alternativi – Pallante, Badiale, Bontempelli – ma non si può neppure escludere che prima di giungere ad un simile cambiamento culturale e di immaginario, ad una piena ricostruzione della rete di rapporti sociali non più fondata sull’inganno del valore di scambio e della creazione finanziario/ crematistica del valore – che potrebbe ben richiedere tempi storici –, si renderà necessario instaurare una dura centralizzazione rivoluzionaria del potere [di stampo quasi “polpotiano”], per impedire l’avvento di un “medio evo senza fine” e delle conflittualità [a quel punto] tribalistico-endemiche, prodotto dell’impoverimento generalizzato, dell’imperante caos politico e sociale, della disgregazione delle istituzioni statuali e della società.

Post scriptum: non me ne vogliano Pallante, Badiale e Bontempelli, ma io non sono affatto ottimista, vista la situazione e dato l’immenso potere di cui dispone il nostro Nemico.

Eugenio Orso
Fonte: http://pauperclass.myblog.it
Link: http://pauperclass.myblog.it/archive/2010/07/22/berlusconi-tremonti-e-la-decrescita-di-eugenio-orso.html
22.07.2010

VEDI ANCHE: DUE VIE PER LA DECRESCITA

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