DI FEDERICO ZAMBONI
ilribelle.com
Bossi, un paio di settimane fa, ha dichiarato che la Lega
si prenderà le banche del Nord.
Molti insorgono: niente outsider,
nella galassia dorata del credito
Fermatevi alla superficie e le dichiarazioni dei leghisti, a meno che non siate dei loro, vi daranno quasi certamente fastidio. È una questione di forma, assai prima che di sostanza. Bossi e i suoi non si limitano a dire ciò che pensano. Lo affermano. Lo proclamano. Ve lo sbattono in faccia con una totale indifferenza per le vostre reazioni. Se siete d’accordo, bene. Se non lo siete, pazienza. Il loro messaggio sottinteso, il loro leitmotiv permanente, è che sanno benissimo quel che devono fare e che prima o poi lo faranno. Il parere degli altri non è mai un motivo di riflessione e di possibile ripensamento. È solo un ostacolo lungo il cammino. Un ingombro da rimuovere o da aggirare, in attesa di riprendere la “marcia trionfale” dell’autonomismo padano. In attesa di restituire alla popolazione del Nord, stufa di essere limitata dal potere centralistico di “Roma ladrona” e appesantita da una pressione fiscale troppo alta e dovuta agli sprechi altrui, e innanzitutto del Sud, la possibilità di fare di testa sua. E di godersi appieno i frutti della propria operosità e della conseguente ricchezza.
L’approccio è questo, e lo è stato fin dall’inizio. La parola d’ordine del pensiero leghista è altrettanto perentoria, ancorché assai più prosaica, del primo comandamento del decalogo cristiano: “non avrai altra verità al di fuori della nostra”. Ovvero, per dirla in modo più brutale, “o con noi o contro di noi”. Come si è visto anche nelle ultime settimane, con la vicenda del Comune bresciano di Adro (che se lo leggi al contrario diventa, guarda caso, “Orda”), per i leghisti la giustizia e la morale coincidono con gli interessi della popolazione locale, intesa come quella che si trova lì da prima dell’afflusso, o dell’invasione, degli stranieri in genere e degli extracomunitari in particolare.
Sarà anche un modo rozzo di ragionare – e di sentire – ma è così che stanno le cose. E al fondo, bisogna riconoscerlo, qualcosa di vero c’è. Quantomeno fuori dalle grandi città, che costituiscono la modalità più innaturale e spersonalizzante e nevrotica di far convivere delle persone nel medesimo luogo, e all’interno del medesimo contesto, le comunità popolari non sono affatto un’astrazione teorica ma una realtà viva e pulsante. Qualcosa che si è formato col tempo e che ha elaborato la propria identità, e il proprio equilibrio, a poco a poco. Che tali comunità tendano a perpetuarsi per come sono, piuttosto che ad aprirsi a qualsiasi contaminazione proveniente dall’esterno, non è affatto una pretesa isterica e una manifestazione del peggiore egoismo. È un proposito istintivo e comprensibilissimo, che ha precise motivazioni di carattere psicologico e che scaturisce dalla necessità di ancorarsi a valori condivisi e di inscrivere la propria vicenda individuale in un quadro più ampio che le dia senso e stabilità. Non c’è nulla di male nel voler vivere in un posto in cui tutto, o quasi, ci restituisca un’impressione di familiarità con quello che conosciamo dalla nascita e in cui, si suppone, ci identifichiamo d’istinto – e in qualche modo con amore.
Perché? Perché “l’è el me”
I leghisti si esprimono in maniera sbrigativa e spesso irritante, dando l’impressione che alla fine si tratti solo di interessi materiali e, quindi, di grettezza allo stato puro, ma dietro la loro pretesa di aver capito tutto e di sapersi gestire benissimo da soli c’è dell’altro. Dietro quell’apparenza così ottusa c’è una verità umana che potrà non piacere ma che ha radici profonde e ragioni tutt’altro che inconsistenti. E, per alcuni aspetti, tutt’altro che disprezzabili.
Sempre meglio, del resto, questa rivendicazione aperta, fino alla crudezza, dell’ipocrisia dei troppi liberali che pretendono di far marciare di pari passo la competizione economica e i diritti universali: e che poi, quando la massa dei “meno fortunati” finisce nei ghetti, come avviene sistematicamente dalla rivoluzione industriale in avanti, si guardano bene dall’assumersene la responsabilità. Addebitando la cosa – sgradevole e persino drammatica, ahimè, ma tuttavia necessaria allo sviluppo complessivo – a quelle leggi economiche che nessuno può permettersi di ignorare, pena un rapido e intollerabile tracollo degli standard generali di produzione e di consumo. Non hanno nessun bisogno di teorizzare esclusioni a priori, loro. O di stabilirle per legge, quand’anche con una normativa di livello secondario come i regolamenti locali adottati da certe amministrazioni leghiste che riservano gli alloggi comunali a chi è residente da più lungo tempo (previa verifica, c’è da supporre, delle risultanze anagrafiche e salvo riservarsi di ampliare il termine laddove fosse necessario per continuare a escludere gli immigrati).
Ma non ce l’hanno, questo bisogno di ricorrere allo strumento legislativo, solo perché al raggiungimento dei loro scopi bastano e avanzano le esclusioni a posteriori determinate dai meccanismi del “libero mercato”, che in teoria è aperto a tutti e che a tutti permette di competere e di trovare una collocazione adeguata. Salvo poi, una volta calato nella realtà, andare in direzione diametralmente opposta e determinare la solita miriade di squilibri sociali. In linea di principio non c’è nessuna barriera preventiva nei confronti di nessuno, che sia nato qui o che arrivi da chissà dove. Di fatto c’è un filtro implacabile e onnipresente che limita al massimo l’ascesa dei poveri e il passaggio da un ceto all’altro, concentrando la massima parte della ricchezza nelle mani di un piccola parte della popolazione e lasciando il resto a barcamenarsi alla meno peggio tra un modesto benessere e un’insicurezza crescente.
Proprio come nelle banche, dove l’ingresso è libero e chiunque può provare a chiedere un prestito, ma dove l’attenzione che si riceve è subordinata ai vantaggi che si possono apportare come clienti. Le banche in cui il rapporto non è mai basato su considerazioni di carattere umano, ma soltanto su valutazioni di natura economica. Garanzie da offrire, interessi da pagare, reddito attuale e prospettive per il futuro. La dura legge degli affari. A meno che, certo, non si sia già così ricchi, e conosciuti, da godere di un trattamento anomalo e privilegiato. Ivi inclusa la possibilità di trasformare, vedi il caso Parmalat, un dissesto aziendale incombente in un gigantesco raggiro ai danni dei piccoli e ignari risparmiatori: una massiccia e appetitosa offerta di obbligazioni, emesse dalla società ma collocate (consigliate) dalle banche, e il gioco è fatto. Gli effetti del crac si trasferiscono dalle casse degli istituti di credito alle tasche di migliaia e migliaia di privati cittadini. Lo smisurato debito dell’imprenditore si trasforma in un’occasione di lucro.
È stato davvero sbagliato prestare tanti soldi al Tanzi di turno, che non se li meritava affatto e che era già in odore di fallimento? La risposta è nei bilanci. Magari un po’ nascosta ai profani, poiché le sofferenze sui crediti e i proventi delle commissioni da intermediazione sono registrate in maniera ben distinta, così come prescrive, correttamente, la tecnica ragionieristica. Però è lì.
In difesa del sistema
Appena Bossi ha rilasciato la sua drastica dichiarazione, affermando che «è chiaro che le banche più grosse del Nord avranno uomini nostri a ogni livello. La gente ci dice “prendete le banche” e noi lo faremo», le reazioni non si sono fatte attendere. Specie da parte di chi vede come il fumo degli occhi qualsiasi cambiamento dell’impostazione attuale, dominata dai “salotti buoni” dell’imprenditoria (non di rado assistita dallo Stato, vedi la Fiat e il ricorso continuo, e distorto, alla Cassa integrazione) e della finanza.
Tra i più espliciti nel prendere posizione e nello scagliare i propri strali c’è stato, manco a dirlo, l’ormai ottuagenario Eugenio Scalfari, che nonostante gli 86 anni continua a imperversare sulle pagine di Repubblica col fatidico, e lunghissimo, editoriale della domenica. Nel quale, non contento di dire la sua su un singolo argomento, spazia a piacimento da una tematica all’altra, in una sorta di requisitoria onnicomprensiva su ciò che di rilevante è accaduto, a suo avviso, nella settimana precedente. Lo scorso 18 aprile l’arringa si apriva su Gianfranco Fini e sulla sua levata di scudi contro il dispotismo berlusconiano, ma nella seconda parte si concentrava sulla sortita di Bossi, finendo col dedicarle all’incirca lo stesso spazio.
Con toni quanto mai allarmati, e persino indignati, Scalfari denunciava i rischi insiti nelle ambizioni leghiste. «La Lega vuole instaurare una sorta di autarchia finanziaria e bancaria nordista. Il senso della banca territoriale è questo. Se riescono in questo intento sarà una catastrofe per l’intero sistema economico italiano. (…) La conclusione sarà l’isolamento del sistema bancario italiano dal sistema internazionale. Un’aberrazione che basterebbe da sola a squalificare un intero sistema politico.» Toni da tragedia, come si vede. E, allo stesso tempo, la ben nota litania sulla necessità di rimanere agganciati, a qualsiasi costo, al sistema economico e finanziario internazionale, con la scusa che da soli saremmo troppo fragili per resistere alla pressione della competizione globale e agli attacchi della speculazione monetaria sulle valute più deboli, e abbandonate a se stesse.
Eppure, l’asserzione più interessante era altrove. Era nel punto in cui si diceva, con la disinvoltura – e la sicumera – di chi cita un assioma, che «il credito è una linfa che circola in tutto l’organismo e affluisce là dove c’è bisogno ed è il mercato a stabilire la sua locazione ottimale». Che questo sia falso è sotto gli occhi di tutti, a meno che per “locazione ottimale” si intenda quella più remunerativa per chi presta i soldi senza preoccuparsi delle conseguenze negative che ne derivano, nel qual caso gli strozzini si ergono a esempio imperituro di lungimiranza e di pragmatismo. Che Scalfari se lo sia dimenticato, o che gli faccia comodo non ricordarlo, la realtà non cambia: la crisi nella quale siamo sprofondati da quasi due anni è da addebitare innanzitutto alle banche, fermi restando i vizi intrinseci di un sistema economico basato sulla produzione forsennata e sul consumo compulsivo. Alle banche e alla loro pessima, occhiuta, insana gestione degli investimenti e del credito.
Come sa perfettamente la grande maggioranza degli imprenditori, e la totalità o quasi degli artigiani, i rubinetti dei finanziamenti si aprono o si chiudono in misura inversamente proporzionale allo stato di bisogno del richiedente. Quando le cose vanno bene ottenere ulteriore liquidità è facile. Quando si è in difficoltà, sia pure senza avere nessun’altra colpa che l’insolvenza di qualche cliente, magari dei più grossi e apparentemente affidabili, le cose si complicano moltissimo. O si bloccano del tutto. L’atteggiamento dei funzionari diventa burocratico fino all’ostruzionismo, e cauto fino all’ignavia. Piuttosto che correre dei rischi, ed entrare nel merito valutando non solo e non tanto i bilanci quanto le capacità professionali e la serietà personale, preferiscono rifugiarsi nell’analisi distaccata, e fintamente obiettiva, della documentazione presentata. Che per di più, e non è un dettaglio da poco, non può che corrispondere a quella richiesta, risentendo così di una limitazione preventiva dei criteri di giudizio e degli elementi da prendere in esame.
«Linfa che circola in tutto l’organismo e affluisce là dove c’è bisogno», scrive Scalfari. Ma non è vero. Semmai, acqua venduta a caro prezzo e solo a chi si vuole, come nella Sicilia assetata da una carenza endemica e, soprattutto, dal controllo mafioso sui pozzi.
Federico Zamboni
www.ilribelle.com
10.5.2010
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