DI WILLIAM BOWLES
Strategic Culture
Facebook trasforma quello che sei,
quello che ti piace, quello che non ti piace, il tuo credo e le tue fantasie, tutto questo in un bene economico che ha accesso a 600 milioni di profili personali di gente come me e te…
Molte lune fa, quando il Web era ancora in fasce, scrissi che il modo in cui la rete si stava evolvendo avrebbe necessariamente portato alla formazione di monopoli del contenuto o dell’accesso all’informazione. All’inizio c’erano i portali, il “posto” dove entravi nel Web, in Netscape, Microsoft, CNN o in qualsiasi altro sito, e il “valore” era dato dai comandi. Il successo, e
di conseguenza il valore implicito, era misurato dagli “hits” o, per fare una parafrasi, dai proverbiali “boots on the page” (ndt: gioco di parole intraducibile, in parallelo ai “boots on the ground”, che indicano i militari in guerra). Si pensava
che la pubblicità sarebbe stata la fonte delle entrate grazie agli
utenti che cliccavano sui link, sperando in qualche acquisto.
Tornando agli anni ’90, gli editori
tradizionali su carta (molti dei quali ancora non si erano accorti né
di Quark Xpress oppure delle e-mail) si stavano scervellando
per capire se la rete era amica o nemica? Ma già dall’inizio ha favorito
i grandi editori, specialmente quelli dei contenuti multi-media.
Non solo avevano i soldi per investire nello sviluppo di nuove applicazioni,
ma già possedevano e già producevano il contenuto. Metterlo su una
pagina Web era solo una questione di aggiornamento delle notizie, chiamata
in modo fuorviante “convergenza”. In una frase, una licenza per
stampare moneta se riesci a trovare il tuo mercato di nicchia (quella
di Facebook sembra essere una nicchia da 600 milioni di dollari!)
Qui si parla di numeri e, per fare
un esempio, le pubblicità mandate per mail dalla tua abitazione hanno
circa il 2% (o anche meno) di coefficiente di successo. Ciò significa
che devi spedire molte mail se vuoi fare dei soldi. Immagina cosa sarebbe
possibile se tu potessi ottenere l’1% dei 600 milioni di utenti di
Facebook per fargli cliccare su un “click/buy” o qualsiasi
altra cosa mentre sono su Facebook?
Apparentemente, anche se io non sono
uno di questi, ci sono persone che sono drogate da Facebook e passano
una quantità smisurata di tempo a cincischiare, contribuendo alla
creazione della “cultura” online
di FB, che non proprio una “cultura” quanto un valore economico
che, alla fine, non appartiene agli utenti ma agli azionisti di Facebook.
Social media? Pensaci un po’. Io penso proprio di no.
Per fare un esempio, Facebook rende
veramente difficile cancellare la mole di materiale che hai parcheggiato
nei suoi server (mi ci è voluta più di mezza giornata per cercare
di ripulire il mio account Facebook e non sono ancora sicuro di aver
veramente rimosso tutto). Tim Berners-Lee, uno degli inventori di
Internet e dei browser ha da dire questo su FB:
Berners-Lee ha analizzato
Facebook, LinkedIn and Friendster, notando che questi siti sequestrano
i dati. “Il vostro sito di social network
diventa una piattaforma di riferimento, un silo chiuso ai contenuti
esterni, e non ti dà il pieno controllo sulle informazioni che lo riguardano. Tim Berners-Lee warns of
threats against web, PC
Pro, 22 novembre 2010
Facebook non sta facendo niente di
nuovo, lo sta solo facendo molto meglio delle (ormai) tradizionali imitazione
delle notizie stampate sulle pagine e dei siti d’intrattenimento.
È la natura dell’interazione, con il sito Web che fa da intermediario
virtualmente trasparente tra le persone: questo è il segreto del successo
di Facebook. E niente di tutto questo sarebbe possibile senza
la banda larga, qualcosa che non esisteva nei primi giorni del Web,
tranne che per i governi e le grosse aziende.
Ma dietro lo sviluppo della rete c’era
la forza trainante del settore finanziario e di quello militare. E così
all’improvviso, le banche e i servizi finanziari con le più grosse
catene di media, ad esempio il Wall Street Journal, erano
occupati nel costruire un’infrastruttura, che si espandeva in tutto
il mondo, legata ai satelliti fin dagli anni ’70. Una volta che i
problemi tecnici più grossi erano stati risolti, quest’allegra compagnia
si era unita per la produzione e la distribuzione, per formare delle
catene. Insieme con lo Stato e le forze armate, hanno formato la base
di quello che chiamiamo Internet. È anche ciò che ha reso la versione
capitalista della globalizzazione possibile.
È solo da poco tempo che la vendita
al dettaglio ha assunto una grande importanza, aiutata dalla morte di High Street, da una massa critica di connessioni a banda
larga e da metodi di pagamento più affidabili, il tutto per la gioia
di fare soldi sul Web. Una volta che la tecnologia è stata sistemata,
la grandi catene al dettaglio sono salite a bordo, semplicemente aggiornando
il negozio fisico on line, appoggiandosi sull’infrastruttura e con
le scorte di magazzino già presenti.
Ma, mentre il Web si stava evolvendo,
molti hanno capito che il vero valore del Web era proprio negli
utenti stessi, oppure nei dati degli utenti che potevano essere usati
per il marketing oppure, ovviamente, per spiarli, attività in
cui i social media sono perfetti, specialmente se quasi tutti
sono sulla stessa piattaforma. Questo è il motivo per cui Facebook
è così pericolosa a causa dei 600 milioni di utenti, una bella fetta
della popolazione mondiale!
Ma hanno davvero bisogno degli utenti
che spendono i soldi? Non direttamente, anche se tutte le entrate sono
comunque benvenute perché, grazie alla “buona reputazione” di FB,
sono poi riuscite a incassare somme per comprare vere aziende
che producono beni utili per il Web e per i media
digitali in generale! Dietro questa mossa perspicace c’era Goldman
Sachs che ha investito un sacco di palanche in Facebook (1,5 miliardi
di dollari): non perde tempo quando deve giocare con le tre carte.
Il perché Facebook ce l’abbia
fatta mentre altri hanno fallito nel tentativo di comandare lo spazio
Web in modo così pervasivo è dovuto alla legge della giungla capitalista.
Ma a chi interessa tutto questo? Il
maggior competitore di Facebook, MySpace (posseduto dalla News Corp
di Murdoch), era sgraziato al confronto e non così ‘user-friendly’
ma, quando poi è riuscita a farsi il lifting
era ormai troppo tardi e Facebook aveva già raggiunto la “massa critica”
di utenti. Così ora, quando entri nella rete e vuoi connetterti ai
tuoi amici, dove vai se non in FB? Altri stanno ai margini come Linkedin
ma è indirizzato soprattutto a utenti del mondo degli affari.
Così ci viene detto che Facebook
“vale”(uso il termine con cognizione di causa) 50 o 60 miliardi
di dollari! Basati su cosa? Con un volume di affari presunto sui 2 miliardi
di dollari, non si parla certo di incassi. Cosa sta succedendo da queste
parti? Un’altra bolla delle Dotcom sta per scoppiare? O è la versione Internet
dei mutui complicati e dei derivati pericolosi?
Il valore ipotetico di
mercato di Facebook ha subito un colpo significativo quando un gruppo
di azionisti, che voleva vendere azioni di questa compagnia per un valore
di un milione di dollari, ha dovuto abbassare il prezzo di vendita.
La valutazione di FB al momento della vendita andava dai 90 a 70 miliardi
di dollari. E anche se era ancora ben al di sopra della teorica valutazione
di mercato di 50 milioni di dollari data al social network
quando nel gennaio raccolse fondi da Goldman Sachs e da Digital Sky Technologies, questo riposizionamento ha evidenziato le
preoccupazioni degli azionisti sul fatto che la valutazione di mercato
di Facebook non possa sostenere la sua crescita. Tutto ciò introduce
una domanda importante: si può shortare Facebook? Can Goldman Sachs Short
Facebook?, Wall Street
Pit [1]
Goldman Sachs è molto abile nello
shortare, hanno shortato un paese intero, la Grecia! Quello che ci dimentichiamo è che alla fine
degli anni ’90 quando scoppiò la bolla informatica, molte persone
se ne fuggirono via con un pacco di soldi prima che tutto andasse in
malora. Denaro che è poi stato investito da qualche altra parte. Le
similitudini con la crisi odierna fino a questo momento sembrano ovvie
visto che anche quella fu causata da una massiccia speculazione e dalla
conseguente smobilitazione dei pezzi di carta senza più valore, con
gli speculatori che se ne uscivano con i milioni nelle tasche.
Per sei anni ho diretto una delle prime
compagnie di sviluppo di Internet in Sud Africa (1994-2000, fino allo
scoppio della prima bolla) e mi ricorderò sempre dello scambio di battute
che venne trasmesso una sera dalla CNN business news, al culmine
della crisi (alla fine del 1999). Fu una cosa del genere:
CNN al guru degli affari: Allora
lei avrà consigliato agli investitori di ripulirsi dalle partecipazioni
delle compagnie di Internet?
Il guru del business: Oh no!
Si deve continuare a investire, non c’è altra scelta.
CNN: E perché?
GB: Perché la tecnologia si
deve sviluppare e, se non viene sostenuta, si va fuori strada.
Se niente ci può illustrare quanto
il denaro sia diventato privo di significato per misurare il vero valore
– ma la cosa importante è che di qui ci siamo già passati – allora
siamo nel territorio di Marx e di Engels. Si tratta di una seconda rivoluzione
industriale simile a quella sviscerata così accuratamente da Marx e
Engels, così in profondità che quasi nulla è cambiato negli ultimi
150 e più anni.
Marx e Engels descrissero in dettaglio
come le rivoluzioni nella produzione tecnologica siano altrettanto veloci
di quelle che si verificano oggi nel mondo della “produzione” digitale.
Un proprietario di un’industria poteva investire in una macchina che
sostituiva il lavoro di venti lavoratori solo per scoprire pochi mesi
più tardi che una fabbrica rivale aveva installato una nuova macchina
che faceva il lavoro di cento operai. Il primo proprietario o lo comprava,
o ne inventava una migliore, o se ne usciva dal mercato. Le similitudini
sono anche in questo caso ovvie.
Ecco perché il guru del business
ha consigliato che bisogna investire ancora di più, altrimenti si va
sotto. Lo sviluppo delle tecnologie basate sul Web sono comparabili
allo sviluppo delle infrastrutture produttive dell’epoca di Marx e
Engels per quanto attiene alle misurazioni degli standard, ai macchinari
automatizzati sempre più efficienti e alla quota sempre maggiore di
capitale intellettuale legato alle macchine.
Era inevitabile: l’i-Pad
Assieme a questo processo c’è l’insidia
di un nuovo sviluppo, quello dell’i-Pad e simili. Quando furono realizzati
non riuscivo a immaginare a cosa diavolo servissero, poi sono arrivato
a capire: perché Apple diventava un fornitore di contenuti oltre a
essere il produttore, e inevitabilmente avrebbe prodotto quelli che
sono veicoli per la vendita di contenuti. Ma l’aspetto cruciale è
dato che aveva bisogno al suo interno di un provider wireless.
In fondo, l’i-pad è un telefono che non
puoi usare per telefonare a qualcuno. È una macchina che mastica i
contenuti, sia che le comunicazioni col tuo cellulare servano a fornire
profitti a Apple o se è Apple stessa che fa ciccia con le canzoni,
i libri, i video, i giochi o le applicazioni, tutto all’interno di
una gestione proprietaria opposta a quella, auspicata da Tim Berners-Lee,
a favore di un protocollo aperto (la ragione per la quale il Web si
è all’inizio diffuso così velocemente).
Un processo paragonabile a questo si
sta verificando con l’uso della banda larga o la cosiddetta Net
Neutrality o in questo momento la sua mancanza:
Nel mondo dei limiti ai
dati trasmessi della banda larga, quelli recentemente implementati da
AT&T sono davvero aggressivi. Al contrario dei competitori,
i cui tetti di traffico sembrano essere almeno nominalmente collegati
alle congestioni durante i periodi di picco, AT&T cerca di convertire
i limiti in una fonte di reddito, addebitando il cliente che eccede
il tetto di traffico. Oltre a sollevare questioni relative alle limitazioni
in generale, questa politica produce un incentivo perverso per evitare
di innalzare il tetto anche se le sue capacità si espandono. 56% of US internet connections
capped by providers,
RT
I produttori diventano fornitori dei
contenuti dalla fine degli anni ’80 quando AT&T, dopo aver
acquistato i contenuti digitali dopo aver automatizzato la sua voice
network, non riusciva più a fare abbastanza profitti per soddisfare
i suoi azionisti. Microsoft prese la stessa strada, acquisendo nello
stesso periodo i diritti digitali del museo del Louvre.
L’i-pad
è la versione digitale della videocamera Kodak che fu progettata per
essere un veicolo per la vendita e lo sviluppo delle pellicole perché
lì si potevano fare i veri
soldi e in modo continuato nel tempo.
Quello che connette tutti questi processi
è la crescente monopolizzazione dei contenuti e dei provider
in una manciata di gigantesche corporation che hanno una forte
presenza sul Web ma anche in quasi ogni altro aspetto dell’odierna
produzione di contenuti e della sua distribuzione, dai chip dei computer
ai DVD con tutto quello che sta nel mezzo.
E l’i-phone
naviga nelle stesse acque pericolose di Facebook, spifferando le informazioni
degli spostamenti degli utenti, su cosa leggono, cosa comprano, e tutto
questo, fino ad ora, con gli utenti che ne sono all’oscuro.
Alcuni ricercatori hanno
scoperto che l’iPhone tiene traccia di dove sei e immagazzina
quell’informazione in un file che è archiviato – non criptato e
non protetto – su qualsiasi apparecchio con cui sincronizzi il tuo
telefono. Non è chiaro perché Apple stia raccogliendo questi dati. ‘Your iPhone Is Tracking
Your Every Move’, Readwriteweb
Ma qualcuno si preoccupa di tutto questo?
Sembra che non siano così tanti per incidere in qualche modo,
in larga parte perché non riesci a saperlo prima che sia troppo
tardi per farci qualcosa. Va in parallelo all’attivazione della cosiddette
legge anti-terrore, che hanno tutte una componente di un aumento della
sorveglianza fino a spiare i cittadini con una sempre maggiore intrusività.
E il business è stato proprio felice di essere coinvolto nella “guerra al terrore” aprendo i suoi server a tutte le pratiche di sorveglianza.
Ma è stato quando il marketing
e le spie si sono associati che abbiamo iniziato a comprendere a che
livello era arrivata quest’intrusione. Quando non c’è demarcazione
tra le informazioni destinate al marketing
e quelle al controllo del territorio, si permette la posa di un’altra
pietra miliare destinata alla creazione dell’alleanza tra Stato e
aziende. Immaginatevi l’NSA o il GCHQ che hanno accesso a 600 milioni di profili di Facebook: e chi ci dice che già non ce l’abbiano?
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Note:
1. Shortare consiste nello scommettere che il valore futuro di un’azione o di una divisa sarà più basso di quello che è al momento dell’acquisto.
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Fonte: http://www.strategic-culture.org/news/2011/05/26/in-your-face.html
26.05.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE