A quelli che l’uscita dall’Euro…(la fanno facile)

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DI ANDREA CAVALLERI

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Nel dibattito pubblico si percepiscono argomentazioni fondamentalmente incoerenti le une con le altre, in quanto spesso le parti si rispondono in base a presupposti completamente differenti.

Quando si parla dell’euro i vari interlocutori intervengono con uno stile che potrebbe essere quello del seguente dialogo: “Mangiamo mele perché sostengono l’economia nazionale, no mangiamo arance perché fanno bene alla salute, no mangiamo fragole perché sono buone di gusto, no mangiamo banane perché contengono potassio…”

Vorrei allora mettere un pochino di ordine nella materia con un piccolo prospetto e spiegare in seguito perché l’uscita dall’euro è al tempo stesso facilissima e molto difficile da gestire.

 

Ragioni politiche.

I sostenitori dell’euro lo individuano, correttamente, come punto di partenza quasi fondativo di un’unione politica europea. Non si può dimenticare la dichiarazione di Jean Monnet, secondo cui occorreva stabilire un’unione mercantile e bancaria, in modo che quella politica seguisse necessariamente di conseguenza. Quindi, dicono i sostenitori, se vogliamo restare in Europa e promuovere l’unione europea, dobbiamo restare anche nell’euro.

I detrattori dell’euro, rilevano che un conto è un sogno roseo e astratto dell’Europa, tutt’altra cosa è questa Europa, che si sta rivelando oppressiva, invadente, burocraticamente ipertrofica e corrotta e, alla prova dei fatti, fallimentare, in quanto si stava meglio prima della sua istituzione.

Quindi dicono: “via dall’euro e via dall’Europa”.

I sostenitori rispondono che l’isolamento della Nazione, a seguito di un abbandono della Comunità Europea, la renderebbe vulnerabile, debole, soggetta a ogni tipo crisi. Inoltre l’Italia non conterebbe più nulla nella negoziazione delle norme internazionali e resterebbe eternamente penalizzata nei futuri sviluppi politico-economici. Per questa ragione occorre restare nella UE e dall’interno modificare quegli aspetti che ci penalizzano eccessivamente.

I detrattori notano che i meccanismi decisionali della UE sono opachi e impermeabili alle riforme che non vengano dall’alto (dalle stesse oligarchie che dirigono la UE) e che la posizione dell’Italia nella UE è già totalmente marginale, cioè come sarebbe nello scenario peggiore in caso di uscita dalla Comunità. E in questo contesto l’idea di una riforma dall’interno appare totalmente utopistica.

 

Ragioni economiche.

Su questo argomento sono stati scritti parecchi libri, pertanto mi si scuserà se in meno di una pagina non potrò approfondire il tema, ma dovrò limitarmi a richiamare qualcuno tra i punti più evidenti.

I sostenitori sottolineano i vantaggi di una moneta convertibile (spendibile a livello internazionale) e stabile, grazie a cui ci si può indebitare a tassi più bassi. Inoltre alludendo al concetto che “l’unione fa la forza” hanno prospettato un futuro di grande crescita e prosperità economica per l’area euro.

I detrattori rispondono che l’euro non è pienamente spendibile perché non ci si acquista il petrolio. Poi i tassi sono “più bassi” rispetto a cosa? Ad esempio per il debito pubblico italiano i tassi reali sono più alti rispetto al periodo 1948-1981, quindi il “più basso” è riferito solo al disastroso periodo seguito al divorzio Tesoro-Banca d’Italia e all’internazionalizzazione del debito voluta da Ciampi.

Economicamente, fiscalmente e produttivamente non c’è nessuna unione che possa fare la forza, anzi c’è una feroce concorrenza intracomunitaria che ha prodotto la posizione egemone della Germania, che ha cannibalizzato i partner; e non c’è nemmeno unione finanziaria, come risulta dal fenomeno dello “spread”.

Per finire le “magnifiche sorti e progressive” le vedremo sempre l’anno prossimo; intanto quest’anno c’è la crisi ed è da un pezzo che va avanti così.

I sostenitori negano che l’euro sia una delle cause della crisi (in realtà senza provarlo in alcun modo) e scaricano le colpe sulla concorrenza cinese, sulla crisi finanziaria del 2008 e sugli sprechi e la corruzione dell’apparato pubblico. E a dire tutta la verità in difesa di questa posizione assumono i tipici caratteri ciarlataneschi, anche se sono accademici titolati.

E poi estraggono l’asso dalla manica: l’uscita dall’euro sarebbe comunque un disastro.

E qui la fantasia si sbizzarrisce, ipotizzando iperinflazione, fuga di capitali, rincaro stellare dei beni di importazione e delle bollette, fallimento dello Stato e cittadini in miseria.

I detrattori notano che l’abnorme avanzo commerciale della Germania corrisponde al calo di fatturato e conseguente fallimento delle nostre aziende. Lamentano la mancanza della funzione riequilibratrice del mercato dei cambi sulla bilancia dei pagamenti esteri e sottolineano che in un mercato totalmente aperto avviato in disparità di condizioni iniziali, colui che ha un vantaggio competitivo piglia tutto (ciò che si è visto).

Per quanto riguarda i pericoli dell’uscita, si richiamano all’uscita dallo SME. Dato che l’euro, in assenza di unità politica, fiscale, economica e finanziaria non è una moneta in senso pieno, ma nei fatti si riduce a un sistema di cambi fissi, come lo SME, l’antefatto storico è che si paventavano gli stessi rischi per l’uscita dal serpente monetario. I fatti hanno dimostrato che uscendo non solo non è accaduto nulla di catastrofico, ma che l’Italia ebbe una decisa ripresa economica.

 

L’equivoco delle proiezioni.

Nel delineare gli scenari futuri, in caso di uscita dall’euro, si assiste tra sostenitori e detrattori a un dialogo tra sordi.

I sostenitori dell’euro infatti avanzano previsioni sul presupposto che le regole del gioco restino le stesse in vigore adesso: mercato aperto a persone, merci e capitali, modello di finanziamento dello Stato, acquisti esteri gestiti nel circuito SWIFT, totale priorità del mercato rispetto all’apparato pubblico etc etc.

Ovviamente, in questa prospettiva, molte delle loro previsioni hanno senso.

Ciò che non ha senso sarebbe recuperare la sovranità, monetaria e legislativa, e non usarla in modo favorevole all’Italia (Stato e cittadini).

E’ chiaro che un recupero della sovranità servirebbe a dettare nuove regole che consentano di giocare a un gioco più equo.

E qui si rivela l’altra faccia della medaglia, ovvero che queste nuove regole più favorevoli sarebbero interne e non rispettate internazionalmente. Quindi i detrattori dell’euro non possono fare previsioni senza considerare un mutato atteggiamento dei partner, che in molti casi diventerebbero da (falsi) amici a (dichiarati) nemici.

Il predatore che stava spolpando la preda ringhia e morde se qualcuno gliela sottrae.

D’altro canto, un piano per eludere le ritorsioni della speculazione e dei potentati vari non può essere esibito pubblicamente in anteprima, perché darebbe il tempo ai nemici dell’Italia di approntare le opportune contromisure.

 

L’uscita dall’euro in termini formali.

Non entro nei dettagli, ma mi limito a citare due studi pluripremiati di due valenti economisti.

Il primo è di Roger Bootle, che nel 2012 ha vinto il “Wolfson economics prize”, battendo la concorrenza di alcuni tra i più grandi economisti del mondo e lo ha fatto con un lavoro intitolato: “Lasciare l’euro, una guida pratica”.

La giuria l’ha premiato giudicandolo “ positivo per la crescita e la prosperità”, valutando, dunque, come attendibile il suo piano per abbandonare l’euro salvando i risparmi europei, l’occupazione e la stabilità del sistema bancario.

Il dettagliato lavoro di Bootle prevede che lo Stato membro che intende uscire dall’euro debba introdurre una nuova moneta e abbattere una larga parte del suo debito, poiché il tentativo in atto di recuperare la competitività e ridurre il peso del debito attraverso i soli programmi di austerità, è destinato a fallire.

Il motivo per cui è opportuno uscire dall’euro è perché conviene, in quanto l’euro ha prodotto problemi finanziari ed economici.

Il problema finanziario dell’euro è legato agli alti livelli di indebitamento, mentre il problema economico deriva dalla disomogeneità dei costi e dei prezzi tra i vari Paesi.

Gli aspetti economici e finanziari della crisi sono tra loro collegati e dipendono in buona misura proprio dall’architettura dell’euro.

Bootle analizza anche le modalità politiche con cui affrontare il passaggio dell’uscita dall’euro spiegando che sarebbe opportuno organizzarlo segretamente, dando l’avviso ai partner europei e alle organizzazioni internazionali solo tre giorni prima.

Al termine delle analisi, il lavoro prospetta degli scenari assolutamente positivi prevedendo una fase di crescita per tutta l’Europa.

Il secondo studio è di Jonathan Tepper, un economista che ha vinto, all’inizio del 2012, un concorso sul tema dell’uscita dall’euro, indetto dal Policy Exchange (il più importante think tank conservatore britannico). Il suo lavoro, intitolato “A Primer on the Euro Breakup” invece di basarsi su formule algebriche dalla natura incerta, ricerca nella storia recente i casi già avvenuti di rotture monetarie.

La prima constatazione che risulta dal suo lavoro è che l’evento è frequente: solo nell’ultimo secolo vi sono state oltre 100 rotture monetarie. Tepper ha studiato specificamente 69 casi di rottura di unioni monetarie. A parte le uscite dovute alla decolonizzazione, molti di questi casi riflettono situazioni simili alla zona euro. E quasi sempre la transizione dalla moneta unica alle monete nazionali “è stata dolce”. Nient’affatto catastrofica.

La fine dell’Impero austro-ungarico nel 1919 è passata senza creare alcuna catastrofe monetaria-finanziaria, quando una mezza dozzina di nazioni unite sotto l’imperial-regio scellino adottarono le rispettive monete nazionali.

La separazione della Cecoslovacchia nel ’93 non solo è stata incruenta, ma monetariamente ben guidata, senza troppi problemi.

Così, nella separazione fra India e Pakistan nel 1947, l’adozione di due monete non è stato certo il problema. La separazione monetaria fra Pakistan e Bangladesh (ex Pakistan Orientale) nel 1971 è avvenuta pacificamente mentre le due entità erano addirittura in stato di guerra civile politica.

Insomma, Tepper ha dimostrato che la fine di unioni monetarie è un fenomeno banale nella storia economica recente e che si possono descrivere con precisione i meccanismi dell’uscita.

E, infine, che il cambiamento è stato morbido “anche quando c’è stata ristrutturazione del debito”.

 

L’uscita dall’euro in termini sostanziali.

L’inserimento nella UE conferisce all’Italia una rispettabilità internazionale che le consente di approvvigionarsi all’estero di quasi tutto, pagando con una moneta generalmente accettata.

Il prezzo di questo privilegio è da individuare nel crollo della produzione interna e nella conseguente disoccupazione.

Purtroppo non è possibile trarre la conclusione speculare che, chiudendo il proprio mercato, si produrrà tutto per conto nostro tornando alla piena occupazione. Infatti le devastazioni nei comparti agricoli e industriali perpetrate nell’ultimo decennio rendono molto problematico persino il soddisfacimento dei bisogni primari. E quanto tempo ci vorrebbe per tornare a un livello soddisfacente di produzione (per non ridurre il popolo alla fame)? Io credo un tempo misurabile non in mesi ma in qualche anno.

La morale è che per un’economia autosufficiente ogni riforma finanziaria o monetaria è facile, per un’economia fortemente dipendente dall’estero no.

Quindi, anche se in teoria è certamente meglio uscire dall’euro piuttosto che rimanervi, non è detto che la cosa migliore sia uscire subito. Un periodo di transizione o di preparazione potrebbe essere necessario. Periodo in cui avviare la ricostruzione del potenziale produttivo autoctono e in cui verificare la disponibilità di nuovi partner alla futura collaborazione, o anche la disponibilità di vecchi partner a collaborare a nuove condizioni.

Che l’oligarchia predatoria preferisca che l’Italia resti nell’euro (cioè tra i suoi artigli) è stato chiarito anche da uno dei suoi massimi rappresentanti. Draghi infatti ha detto che “L’Italia può uscire dall’euro se prima restituisce 359 miliardi di euro sul circuito Target2” e qui uno statista munito di attributi gli avrebbe dovuto rispondere “Ma l’Italia può restare nell’euro se prima la BCE le restituisce le 100.000 aziende fallite tra il 2009 e il 2016”.

In ogni caso, per i problemi che suscita, un’uscita dall’euro non può essere lasciata accadere, ma va gestita. E a questo fine, almeno in una fase di transizione, l’atteggiamento dello Stato deve essere assolutamente dirigista, ignorando allegramente le pretese del mercato.

Come fare poi a prepararsi a quell’azione che la UE non vuole, imbastendo una fase di transizione nella UE, cioè rispettando quelle regole che ci penalizzano e al tempo stesso ci scoraggiano ad abbandonarle?

E’ ovvio che bisogna giocare d’astuzia. Hjalmar Schacht dimostrò che anche in condizioni penose e subalterne è possibile elaborare stratagemmi funzionali alla ripresa.

Al futuro governo l’onere e l’onore di elaborare un piano adatto ai nostri tempi e alla nostra situazione.

 

Andrea Cavalleri

Fonte: www.comedonchisciotte.org

28.01.2018

 

 

 

 

 

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