LA CARNEFICINA DI GAZA E IL TEMPO IMMOBILE DEGLI INTELLETTUALI

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DI LORENZO GALBIATI

minimaetmoralia.it

Il 14 luglio su questo blog culturale Christian Raimo scrive, citando Vonnegut, che “Non c’è nulla di intelligente da dire su un massacro. Si suppone che tutti siano morti, e non abbiano più niente da dire o da pretendere”. Questa frase presa da Mattatoio n° 5 viene in soccorso a Raimo, che non sa quale narrazione sviluppare sull’attuale carneficina di Gaza. Raimo sceglie il silenzio, che considera l’unica soluzione intelligente: “Se siamo umani, non c’è nulla di intelligente da dire sugli ultimi bombardamenti a Gaza, su questa fase di guerra che non è ancora ufficialmente guerra o lo è appena diversamente dal solito.”

È difficile capire come un intellettuale possa concepire qualcosa di più infelice del proclamare il silenzio l’unica cosa intelligente di fronte a una strage (termine più appropriato di “guerra”).

E certo Vonnegut non può fare velo a Raimo: la sua frase parla del narrare un massacro, non del prender posizione in proposito. Come narrazione, dice Vonnegut, c’è ben poco da dire: son tutti morti. Certo, perché Vonnegut parla di un massacro già finito, passato alla storia. Noi invece stiamo vedendo con i nostri occhi la storia, stiamo assistendo al massacro in diretta, e anche alla sua mastodontica copertura e giustificazione mediatica. L’intellettuale, se è tale, in questi casi alza la voce per denunciare il crimine o sta zitto?

I massacri possono essere noiosi da narrare quando sono già finiti, ciò non toglie che la letteratura possa farli rivivere in modo artisticamente significativo. Ma quale intellettuale può credere di potersi esimere dal denunciare un massacro in corso? Com’è possibile che Raimo abbia scelto di parlare per annunciare il suo silenzio?

Raimo si ispira a uno “status di Ida Dominijanni su facebook che diceva: “Ho letto vari post e relativi dibattiti su quello che sta succedendo a Gaza. Posso dire una cosa che non piacerà a nessuno? Io la ripetitività del conflitto israelo-palestinese non la reggo più. E nemmeno quella dei relativi dibattiti”. Di fronte a una carneficina in corso, Ida Dominijanni dichiara che non regge più “la ripetitività del conflitto israelo-palestinese”. Se questa frase è infelice per uno scrittore, un intellettuale, risulta un assurdo per una giornalista, tanto che diventa lecito per un lettore considerarla organica con la propaganda sionista. E Michele Serra, riprendendo l’articolo di Raimo che cita Dominijanni, non trova di meglio, sdraiato sulla sua Amaca, che accodarsi al silenzio connivente che l’intellighenzia di sinistra coltiva verso la carneficina di Gaza.

Il silenzio è infatti oggettivamente connivente. Se poi ci si chiede: “ma perché proprio per questa carneficina certi intellettuali scelgono il silenzio? Perché tutte le altre volte si condannava il silenzio?” Le uniche risposte sensate sono che gli intellettuali hanno abdicato al loro ruolo; o hanno una sudditanza psicologica verso le parole d’ordine di una precisa propaganda di potere (“l’antisionismo è un travestimento dell’antisemitismo”) che li costringe a mille faticosi distinguo e specificazioni che alla fine perdono il senso di quel che vogliono dire; o hanno perso in lucidità e coraggio (sono forse ottusi?); o… sono organici alla propaganda sionista, cioè sono in malafede.

Poichè evito i processi alle intenzioni, preferisco escludere la malafede e concentrarmi sul perchè gli intellettuali hanno abdicato al loro ruolo. La risposta qual è?

Rileggo Dominijanni e Raimo, e quel che mi stupisce è la loro insistenza sulla parola “ripetitività”, riferita al supposto “conflitto” israelo-palestinese (è una colonizzazione, una pulizia etnica, non un conflitto). Ripetitività suggerisce concetti quali “è sempre tutto uguale”, “la storia si ripete ciclicamente”, “il tempo si è fermato”. È Raimo a scrivere: “Lo scandalo della tragedia lascia il passo, è terribile dirlo ma è innegabile, a una sensazione di ripetitività, di moto inerziale”.

Se la storia è ripetitiva, tutta uguale, ciclica, ferma, allora fermiamoci anche noi dal narrarla: non vorremmo essere noiosi.

Ed ecco che gli intellettuali si fanno strumenti organici della normalizzazione in atto, a ogni livello della vita pubblica occidentale, nell’accettare il crimine dell’embargo su Gaza, così come della colonizzazione di Gerusalemme est e della West Bank.

Del resto, sta forse succedendo qualcosa in Palestina? No, è sempre tutto uguale.

A Gaza l’embargo, che prosegue dal 2007, ha forse ridotto la popolazione al limite della catastrofe umanitaria, a prigionieri di un lager a cielo aperto, cui arrivano a piccole razioni, decise da Israele, alimenti, acqua, materiali, luce? No, è tutto uguale.

A Gerusalemme est continuano forse più numerose le demolizioni delle case palestinesi, al fine di pulirla etnicamente, renderla a stragrande maggioranza ebraica ed integrarla in Israele come capitale unica? No, è tutto uguale.

Nella West Bank prosegue forse a spron battuto la costruzione di nuove colonie, in modo da sottrarre ancora più terra ai palestinesi e rinchiuderli in sempre più piccoli bantustan accerchiati da coloni come i tre adolescenti rapiti e uccisi circa un mese fa? No, è tutto uguale.

È forse vicino il momento in cui lo “stato ebraico” si impossesserà di tutta la terra fino al Giordano e diventerà definitivamente uno stato di apartheid, nel quale i palestinesi vivranno autonomi nelle loro gabbie, amministrate da loro ma in tutto e per tutto controllate dall’esercito e dall’amministrazione sionista? No, è tutto uguale.

È forse vicina la fine della possibilità di uno stato palestinese vero, autonomo? No, è tutto uguale.

È forse vicina la distruzione del popolo palestinese? No, è tutto uguale.

Nella storia si è sempre assistito al genocidio di intere culture o popoli, o parti di essi, come conseguenza della colonizzazione di un invasore. Tutti lo sanno. Ma nel caso della Palestina nessuno lo vede, nessuno lo dice, la storia si ferma e il genocidio diventa per gli intellettuali (Raimo) “una figura retorica” che indica qualcosa di “ricorsivo”.

Ripetitività, figura retorica ricorsiva.

L’intellettuale abdica al suo ruolo perché vede una realtà sempre uguale, crede non ci siano novità da narrare, come se non considerasse suo compito confrontarsi o incidere nella realtà bensì fare narrazioni della realtà, agire su un piano ad essa parallelo e del tutto autoreferenziale. La realtà è fuori, al di là da tutto questo. E quando chi vive nella realtà, e si confronta ponendo la realtà, e non le sue narrazioni possibili, come base di una partecipazione etica al presente, fa notare all’intellettuale che il suo atteggiamento si qualifica come connivenza – se non complicità – l’intellettuale rifiuta sdegnato la critica, di fatto non la capisce nemmeno, perché si pone su un altro piano, quello nel quale, insieme agli altri eletti, si confrontano narrazioni sempre più intelligenti, originali, e soprattutto fini a se stesse – o si tace.

I problemi di cui soffre l’intellettuale hanno quindi due cause. La prima è la miopia, che causa il congelamento del suo sguardo, tanto che vede il tempo fermo in Medio Oriente, se non ciclico. La seconda è la dislessia/disgrafia, che lo porta a credere di dover parlare solo quando può fornire una narrazione originale, altrimenti meglio il silenzio, perciò se un crimine si ripete meglio non denunciarlo (o questo vale solo per la Palestina?).

Parlo dell’intellettuale, dello scrittore, e non solo di Christian Raimo, perché quanto ho descritto è ciò che vedo nel web, nei siti o blog di letteratura e politica.

Un post dal titolo e dall’introduzione in cui l’estrema sintesi coincide con l’estrema ottusità è il pezzo “No” del 15 luglio su Il primo amore, a firma Baratto e Moresco, in cui si legge: “Razzi di Hamas su Israele e bombe israeliane su Gaza: era il gennaio 2009 e l’operazione si chiamava “Piombo fuso”. Di getto, sull’onda dell’emozione e della disperazione, scrivemmo a due mani questo pezzo. Lo ripropongo qui oggi, mentre di nuovo cadono razzi di Hamas su Israele e bombe israeliane su Gaza.”. Sembra che si stia assistendo non a una carneficina criminale ma a uno spettacolo balistico perfettamente simmetrico (razzi da una parte e bombe dall’altra) e uguale al 2009, anno nel quale si direbbe che gli autori abbiano scritto una narrazione definitiva, pronta per essere riciclata in ogni momento, della realtà descritta come “razzi di Hamas – bombe di Israele”. Nessun cenno alle persone, nessuna presa di posizione. Nell’articolo del 2009, che si potrebbe considerare moderatamente filosionista, gli autori sentono il dovere di esplicitare all’inizio il loro debito verso la cultura ebraica e la loro preoccupazione per un presunto antisemitismo di sinistra, per il quale scrivono, parafrasando un discorso del Presidente della Repubblica Napolitano (e della propaganda filosionista): “poiché tale antisemitismo non può essere ammesso col suo vero nome, lo si traveste lessicalmente da antisionismo”.

Andrea Inglese su Nazione Indiana il 21 luglio posta “Il tempo congelato della politica israeliana”, nel quale ricicla un suo articolo del 2006 che “riguardava la politica di “rappresaglia” scelta da Israele in Libano contro Hezbollah. Basterebbe cambiare alcuni nomi e alcune date, per rendere queste riflessioni sinistramente attuali. Hamas al posto di Hezbollah, Gaza al posto di Libano, 2014 (o 2009) al posto di 2006. Come se nulla fosse accaduto. Tempo congelato. Coazione a ripetere.”

Le uniche cose che Inglese modificherebbe, per attualizzare il suo pezzo del 2006, sono che ora “le proporzioni sono più macabre”, e che l’antisemitismo – che Inglese continua a considerare esistente anche quando prende “come alibi” l’occupazione israeliana – non deve diventare a sua volta “un’alibi per legittimare una politica d’occupazione”.

Come si vede, anche in questo caso, la storia non dà adito a una nuova narrazione in quanto la si concepisce come ciclica, come “se nulla fosse accaduto”. Nuovamente non ci si accorge che questa storia supposta immutabile (congelata) in quanto vittima di coazioni a ripetere, è la proiezione della propria visione dell’oppressione israeliana in atto nei territori occupati (considerati pezzi di Giudea e Samaria, per l’ideologia colonialista sempre più diffusa tra gli ebrei israeliani e della diaspora).

Va detto, quanto meno, a merito di Inglese, di non aver messo sullo stesso piano israeliani e palestinesi sia dal punto di vista delle rispettive posizioni morali (il primo è l’oppressore, il secondo è l’oppresso) sia dal punto di vista storico-politico. Inglese, infatti, a differenza degli autori già citati, attribuisce ad Israele la “coazione a ripetere” una politica di rappresaglia, riconoscendo implicitamente alle sue vittime, Hezbollah e Hamas, vale a dire libanesi e palestinesi, la volontà e la legittimità di filarsi la loro storia. Insomma, il congelamento della storia del popolo palestinese oppresso è causato dalla politica di rappresaglia – criminale, aggiungo io – israeliana, non dal “botta e risposta” tra Hamas e il governo israeliano (razzi di Hamas, bombe di Israele).

Su Carmilla non esce nulla sulla nuova carneficina di palestinesi fino al 24 luglio, quando si ricicla un articolo di Moni Ovadia, “Perché Israele non vuole la pace”, scritto appositamente per altre testate per denunciare il massacro in corso. Il sito di “letteratura, immaginario e cultura di opposizione” si affida quindi a un esterno per prendere posizione sui fatti di Gaza.

Su Le parole e le cose, il 14 luglio esce un saggio del 2004 (a firma Daniele Balicco) su Edward Said, riciclato dalla rivista Allegoria, che discute con grande tempismo il problema di quale soluzione adottare per la Palestina: due popoli-due stati o uno stato binazionale? Discutiamone mentre è in atto una carneficina. Poi nulla fino al 27 agosto, quando esce un breve articolo “Fobie contrapposte”, riciclato dalla rivista “il Ponte”, di Rino Genovese, molto politicamente corretto ed equidistante tra le parti in causa. Recita l’incipit: “Il nodo è inestricabile. Islamofobia e giudeofobia si tengono a vicenda.” Ma Genovese sembra più preoccupato della giudeofobia che si starebbe diffondendo in Francia che della carneficina in corso a Gaza.

Solo il 1 agosto compare, su Carmilla, un articolo contro l’attuale carneficina di Gaza. È un articolo di taglio marxista-antimperialista, che prende chiaramente posizione, chiama Israele “stato fascista” e dichiara che “non vincerà mai questa guerra” nemmeno se radesse al suolo Gaza. Motivo? Non perché vincerà Hamas, ma perché vinceranno le petromonarchie del Golfo, a cui Israele diventa sempre più legato.

Come si vede, manca in questo articolo qualsiasi discorso sulla situazione nella quale si inscrive la carneficina di Gaza, che non è una “guerra”, ma uno dei tanti massacri che si verificano nel corso della colonizzazione della Palestina, con annessa pulizia etnica. Israele sta perdendo sul piano dell’immagine mondiale? E forse anche sul piano geopolitico? No, non sta perdendo. Semmai si sta indebolendo. Ma Israele sta riuscendo nel suo scopo, la colonizzazione della Palestina, che comporta inevitabilmente la distruzione della nazione (intesa come popolo che vive sulla sua terra) palestinese.

L’autore, Sandro Moiso attacca, in modo confuso e generico, i pacifisti e i cattolici (uniti da un “umanitarismo becero”), gli occidentalisti e dei non meglio precisati “filistei” (parola fuori luogo, visto il contesto: la carneficina di palestinesi), “soprattutto di sinistra, [che piangono] sugli orrori della guerra. Lasciamoli scoprire che ad ogni tornata di guerra l’antisionismo si trasforma, troppo spesso, nel più bieco e volgare antisemitismo. Lasciamoli credere che il sionismo sia divenuta l’unica espressione possibile dell’ebraismo. Tutti uniti nel dire che non è più possibile schierarsi in questo conflitto, ma lasciateli perdere perché sono già politicamente e socialmente morti.”

Come si vede, anche in questo pezzo si mette in guardia da un presunto antisemitismo di sinistra, ma stavolta l’antisemitismo deriverebbe dall’antisionismo (ne riparlerò). A confondere i piani, arrivano altre affermazioni dell’autore che, contraddicendosi, dopo aver sostenuto che il sionismo non è l’unica espressione possibile dell’ebraismo, arriva a scrivere che “[a Gaza] non vince l’ebraismo che, sempre di più, viene accomunato alla responsabilità dei massacri perpetrati in Palestina, nonostante le voci critiche nei confronti del sionismo armato israeliano che provengono, sempre più numerose, dall’ambito della comunità ebraica internazionale e anche, seppure in maniera minore, dall’interno della stessa Israele. Nel corso degli anni il governo sionista ha spinto il paese tra le braccia dei peggiori avversari e dei più acerrimi nemici dell’ebraismo: le destre di governo occidentali (dal Partito Repubblicano negli USA a Forza Italia qui da noi)” Se il governo sionista ha spinto il paese, cioé Israele, tra le braccia dei più acerrimi nemici dell’ebraismo, allora non si capisce più come si possa distinguere Israele dall’ebraismo. L’autore in pratica ritorce contro di sè le accuse verso i filistei che vedono in Israele l’espressione mondiale dell’ebraismo.

Questo corto circuito è emblematico di una serie di questioni intorno a due temi tra essi collegati: il rapporto tra Israele ed ebrei (israeliani o delle comunità della diaspora), e tra Israele ed ebraismo. Di questi temi, che Moiso ha il merito di sollevare, non vedo tracce di narrazioni da parte dei nostri scrittori o intellettuali.

Il primo tema. Moiso mette il dito nella piaga quando afferma che l’ebraismo è sempre più accomunato alla responsabilità dei massacri in Palestina. Perché basta ascoltare la tv, leggere i giornali e informarsi sul web per capire quanto le comunità ebraiche della diaspora europee, e in parte americane, appaiano come una propaggine di Israele, un suo ufficio di propaganda. Le voci critiche nei confronti del sionismo, che secondo Moiso sono sempre più numerose (forse perché prima si contavano sulle dita delle mani?), sono in realtà pochissime, e del tutto isolate, osteggiate da Israele e da quasi tutti gli ebrei della diaspora.

Tanto per fare alcuni esempi: Gideon Levy, l’unico giornalista di una importante testata israeliana ad aver detto chiaramente che Israele con questa operazione su Gaza ha lo scopo di uccidere arabi, è stato minacciato di morte e ora vive sotto scorta; Ilan Pappé, lo storico autore de La pulizia etnica della Palestina, è migrato in Gran Bretagna perché gli impedivano di lavorare in Israele; gli attivisti nonviolenti Jeff Halper (che si occupa della ricostruzione delle case palestinesi demolite) e Michel Warschawski (che si occupa di informare e manifestare contro l’occupazione della Palestina) sono voci del tutto isolate nel contesto israeliano. Nel mondo, Richard Goldstone dell’ONU, reo di aver redatto un rapporto realistico sulla prima carneficina di Gaza, è stato isolato dalla sua comunità, chiamato “ebreo-che-odia- se-stesso”, cioè ebreo antisemita, fino a quando non ha parzialmente ritrattato; Richard Falk, dell’ONU, e Noam Chomsky, rei di criticare le politiche genocide di Israele, sono stati espulsi da Israele l’ultima volta che ci sono andati, e vengono sistematicamente insultati (come ebrei antisemiti o altro); Norman Finkelstein, l’autore dell’Industria dell’Olocausto, viene sempre contestato, è stato espulso da Israele, e di recente arrestato a New York mentre manifestava contro il massacro di Gaza. Passiamo all’Italia: gli Ebrei contro l’occupazione (che sono pochissimi), che appartengono alla Jewish Voice For Peace, vengono spesso scherniti dagli esponenti delle comunità ebraiche su vari siti web; Gad Lerner e Moni Ovadia sono usciti dalla comunità ebraica milanese per i continui insulti (riconducibili sempre allo stesso: ebreo-che-odia-se-stesso) che ricevevano (Moni Ovadia ha detto di ricevere anche minacce, e del resto basta leggere i commenti alla sua pagina facebook per rendersi conto della quantità e della qualità degli insulti e delle minacce che riceve; di recente, un commentatore, con il nome scritto in ebraico, lo chiamava “goy Ovadia”).

È la stragrande maggioranza degli ebrei, israeliani e della diaspora, con le loro istituzioni, associazioni, che stanno creando l’equivalenza tra Israele e popolo ebraico, e quindi tra l’agire di Israele e l’ebraismo. Ogni ebreo critico delle politiche di Israele viene di fatto estromesso dall’appartenenza al popolo ebraico (e figuriamoci come viene considerato se critica la natura ebraica di Israele!), considerato un traditore, un ebreo che odia se stesso, un antisemita, un goy. Un intellettuale dovrebbe rendersi conto di questa degenerazione in atto nell’ebraismo internazionale, e denunciarla, invece di affaticarsi a ripetere che Israele ed ebrei sono due cose distinte. A sinistra, non è vero che ci sono antisemiti travestiti da antisionisti (come succede invece a destra in alcune formazioni neofasciste o neonaziste, o rossobrune: nazimaoiste?): semmai ci sono degli antisionisti convinti che rischiano di diventare antisemiti perché la propaganda filosionista di molte comunità ebraiche della diaspora è talmente forte e diffusa, talmente capillare e specchiata in quella israeliana (nelle università israeliane ci sono studenti volontari che lavorano nelle “war rooms”, stanze apposite per la propaganda nel web, e alcuni docenti israeliani sostengono che anche all’estero gli ebrei militanti si organizzano per fare propaganda nel web, distribuendosi per aree di azione e target) che la complicità nei crimini di Israele è sempre più distribuita tra gli israeliani e la comunità ebraica internazionale. È infatti difficile distinguere le dichiarazioni di un politico israeliano da quelle di molti esponenti delle comunità ebraiche: entrambi sostengono i crimini di Israele, spesso negando ogni evidenza – di recente un esponente di spicco di una comunità italiana ha proposto il Nobel per l’esercito israeliano, poiché avrebbe il merito di evitare l’uccisione di molte vite; non molti mesi fa, aveva dichiarato che gli ebrei italiani dovevano prepararsi a migrare in Israele a seguito di alcune dichiarazioni di Beppe Grillo.

Sempre meno persone potranno resistere all’incessante propaganda internazionale filosionista che stanno facendo instancabilmente molte comunità ebraiche: sono loro a diffondere l’equazione “Israele uguale ebrei”, vale a dire “criticare Israele uguale essere antisemiti”; perciò è responsabilità degli ebrei filosionisti la trasformazione dell’antisionismo in antisemitismo. Sarà sempre più difficile, per tutti, rimanere su posizioni intermedie, non schierarsi apertamente pro o contro Israele, e di conseguenza non essere considerati amici degli ebrei o antisemiti. Solo chi rimarrà aggrappato alle voci ebraiche – o traditrici dell’ebraismo? – del dissenso potrà evitare di cadere in questi opposti estremi.

Se quindi prosegue questa identificazione tra popolo ebraico ed Israele, e se Israele continuerà a commettere crimini contro l’umanità, con l’aggravante di considerarsi lo stato più morale del mondo, diventerà sempre più insensato distinguere l’antisionismo dall’antisemitismo, il che significa che l’antisemitismo storico, ossia l’odio e la discriminazione degli ebrei in quanto ebrei, è virtualmente finito. Se gli intellettuali si rendessero conto di questo, la finirebbero di fare discorsi intorno a una parola oggi svuotata di ogni significato come ”antisemitismo” e inizierebbero a preoccuparsi dell’antiarabismo di matrice europea e di un altro razzismo oggi sempre più diffuso e pernicioso in Occidente: quello presente in Israele, e in molte comunità ebraiche, verso chiunque si opponga all’ideologia sionista, sia esso ebreo o goy. È infatti questo razzismo che permette di uccidere senza alcun senso di colpa, anzi facendosene vanto, circa 2000 palestinesi, quasi tutti civili, pensando pure che sono loro, i palestinesi, a cercarsela, perché vogliono fare i martiri.

Infine, il secondo tema. Come è cambiato l’ebraismo da quando si è diffuso il sionismo? E, in particolare, da quando si è formato l’autoproclamatosi “stato ebraico”? Chi sostiene la legittimità dell’esistenza di Israele (sarebbe bello capire entro quali confini!), si pone la questione dell’ebraicità dello stato o lo considera, come vuole la propaganda sionista, né più né meno uno stato nazionale come tanti altri?

Perché, se è normale che vi sia uno stato ebraico, dove ogni ebreo può farvi ritorno, significa che le sorti dell’ebraismo sono strettamente collegate a quello stato. Non si può essere indifferenti, se si è ebrei, a quel che fa uno stato che si dichiara ebraico, perché l’identità dello stato richiama l’appartenenza al popolo ebraico. È “ebraica” la carneficina che Israele sta compiendo a Gaza? È connaturata con l’ebraismo? È, cioè, ebraico l’agire politico di Israele?

Mi chiedo se qualche intellettuale, tra quelli che parlano sempre di antisemitismo, si sia mai fatto queste domande. E soprattutto, mi chiedo se c’è qualcuno che si sia mai preso la briga di tentare di rispondervi.

Le domande che ho posto non sono da indirizzare solo a Israele: anche un musulmano non può non interrogarsi sull’agire politico di una repubblica islamica. E un italiano su quel che fa l’Italia, o meglio, su quali siano le peculiarità di uno stato italiano. Nel caso di Israele, però, la situazione è più complessa poiché essendo l’ebraismo una religione, oltre che l’identità storica di un popolo, essere ebraico significa contemporaneamente appartenere a un popolo e a una religione (un ebreo che cambia religione perde il diritto al ritorno in Israele, un goy che si converte all’ebraismo diventa ebreo e lo acquista). Quindi, il carattere ebraico di Israele interroga tutta la tradizione ebraica, dall’appartenenza per sangue alla cultura, dalle idee politiche alla religione. E la natura ebraica di Israele poteva NON portare alla pulizia etnica della Palestina, terra abitata da non-ebrei, alla colonizzazione della West Bank e di Gerusalemme est, all’embargo di Gaza, alle croniche, ripetitive carneficine di Gaza che tanto annoiano i nostri intellettuali? È ebraico tutto questo, è questo che è diventato l’ebraismo? O tutto questo è un tradimento dell’ebraismo, una sua degenerazione? È ebraico che uno stato sia “ebraico”?

Le risposte a queste domande non potranno essere eluse ancora per molto tempo, e non potranno che essere nette, perché la storia, per quanto annoi i nostri intellettuali, non è ferma, anzi in Medio Oriente sta andando avanti e si approssima a soluzioni sempre più radicali.

Lorenzo Galbiati

Fonte: www.minimaetmoralia.it

Link: http://www.minimaetmoralia.it/wp/e-possibile-difendere-gaza-per-gli-intellettuali-italiani-e-possibile-parlare-di-israele-senza-essere-tacciati-di-antisemitismo/

8.08.2014

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