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apo1DI IRA CHERNUS
TomDispatch.com

Al di là delle apparenze, noi americani siamo minacciati dall’apocalisse.

Sono due i nuvoloni che incombono sul nostro mondo: lo sterminio nucleare e l’estinzione ambientale. Se fossero tenuti nella considerazione che meritano sarebbero in cima alla lista delle priorità politiche.

E invece riescono a malapena ad attirare la nostra attenzione, buttati come sono in mezzo a una serie di altri pericoli altrettanto definibili come “apocalittici”: il debito federale in aumento, il piano governativo per sottrarci le armi, il controllo di Internet da parte delle multinazionali, la catastrofe delle fusioni operate dalla Comcast-Time Warner, la piaga dell’inquinamento di Pechino, il disastro seminato dalle nevicate in America, per non parlare dei terremoti e delle epidemie. La lista dei problemi che tanto la destra quanto la sinistra ed il centro ci scaricano addosso continua ad allungarsi.

Poi ci sono il mondo dell’arte e dell’entertainment, per i quali il pericolo dell’apocalisse si è dimostrato essere un affare assai remunerativo. Date un’occhiata al sito “Romantically Apocalyptic”, all’album di Slash “Apocalyptic Love” o al documentario “Viking Apocalypse” per i principianti. Oggi persino i matematici hanno il loro “apocalyptic number”.

Ebbene sì, la parola che inizia per A è ovunque, e la maggior parte delle volte non coincide con “la fine di tutto”, ma con “la fine in ogni dove”. Indubbiamente vivere un’esistenza appesantita dall’incombere di simili pericoli ha un prezzo, anche se non se ne parla mai.

Alziamo quindi il velo sulla parola che inizia per A, diamole un’occhiata dentro, e vediamo fino a che punto ha un peso nella nostra vita di tutti i giorni. Visto che non si tratta esattamente di un bello spettacolo, è abbastanza facile dimenticare come l’apocalisse abbia rappresentato sia un motivo di speranza che di paura. Forse persino adesso potremmo trovarvi una qualche speranza se la esaminiamo con attenzione.

Una breve storia dell’Apocalisse

Le leggende sull’Apocalisse esistono almeno dai tempi della Bibbia, se non prima. Si palesano in molte religioni, sempre con la solita struttura di base: la fine è vicina, la battaglia cosmica tra il bene e il male (o tra Dio e il Diavolo, come dice il Nuovo Testamento) porterà al caos totale, allo sterminio di massa e alla fine del mondo che conosciamo.

Questo, comunque, è solo il primo atto, in cui noi facciamo tabula rasa del passato e lasciamo spazio al secondo: un mondo nuovo, infinitamente migliore, forse addirittura perfetto, che sorgerà dalle ceneri di quello attuale. Spesso si tende a dimenticare che le apocalissi religiose, con i loro scenari di distruzione, sono in ultima istanza storie di speranza. E infatti ne hanno data a milioni di persone che hanno creduto alla venuta di un mondo migliore, non riuscendo a notare nulla di buono in questa valle di dolore.

Le apocalissi religiose sono anche state parte integrante della vita politica americana da quando in “Common Sense” Tom Paine incitò le colonie a ribellarsi, assicurando loro che avevano “il potere di rifare il mondo da capo”.

Passando all’era nucleare, la Seconda Guerra Mondiale – già in sé definibile come apocalisse – ha sgominato questa idea. Così come lo scrittore Kurt Vonnegut denunciò che il pericolo nucleare ci ha privato di una “morte semplice e tranquilla” (cioè della possibilità di morire ognuno per i fatti suoi, pianto da coloro che gli sono sopravvissuti), anche i teologicamente educati piangono la fine della vecchia e semplice apocalisse descritta dalla religione.

Quando le “armi della vittoria” di questo paese distrussero due città giapponesi nell’agosto del 1945, molti americani tirarono un sospiro di sollievo per la fine della Seconda Guerra Mondiale. In pochi, tuttavia, credevano alla possibile nascita di un mondo migliore generato dalle ceneri radioattive del conflitto. Persino negli anni ’50, quando dal punto di vista economico le cose andavano bene, la paura americana del nucleare portò alla creazione di qualcosa di inedito nella storia, di sinistro, un’immagine completamente secolare dell’apocalisse. Questa è la prima definizione che trovereste digitando “definisci l’apocalisse” nella barra di ricerca di Google: “la distruzione finale del mondo”. In altre parole, una grande pulizia e poi… il nulla. L’annientamento totale. La Fine.

L’apocalisse come sparizione completa era un’idea nuova. Eppure la maggior parte degli americani si è abituata in tempi sorprendentemente brevi (per riadattare una celebre frase del regista Stanley Kubrick) a non preoccuparsi e ad accettare l’idea di un grande “whoosh”. Con la fine della Guerra Fredda il timore dell’annientamento causato da un conflitto nucleare mondiale è fondamentalmente svanito, anche se gli arsenali di quell’epoca non sono mai stai smantellati.

Nel frattempo si è fatto gradatamente strada un altro tipo di apocalisse: una distruzione dell’ambiente così radicale da implicare comunque la fine di ogni forma di vita.

Ma questa si è dimostrata del tutto nuova sotto diversi punti di vista. Si tratta, come l’ha definita alla perfezione Todd Gitlin, della prima apocalisse in slow-motion della storia. Il mutamento climatico, così è stato chiamato, si è fatto largo poco alla volta, a singhiozzo, senza che nessuno se ne accorgesse per due secoli. Completamente diverso da quello che Gitlin chiama “lo scatenarsi improvviso di flagelli stile Genesi” o dal tipico “fulmine a ciel sereno”, ha rappresentato un cambiamento scioccante. Dopotutto il termine “apocalisse” viene utilizzato da un paio di millenni senza essere mai stato connotato come un qualcosa di graduale.

L’eminente studioso delle religioni Mircea Eliade ha ipotizzato che il motivo per cui le persone sembrano afferrare al volo il concetto di apocalisse nucleare è perché somiglia moltissimo all’atto primo della sconfinata produzione di miti apocalittici dell’umanità, dove la fine arriva in un istante folgorante, come se non fosse previsto un secondo atto. Questo retaggio mitologico è oramai radicato nell’inconscio di ognuno di noi, e questo è il motivo per cui viene percepito come familiare.

Eppure, in mezzo secolo di studi dedicati ai miti, passati e presenti, nemmeno lui è riuscito a trovarne uno che rappresentasse la fine del mondo come qualcosa che si avvicina lentamente. Questo significa che non abbiamo un immaginario inconscio che possa fungere da metro di paragone, né dei topoi culturali o delle tradizioni che possano aiutarci nel nostro tentativo di figurarci qualcosa di simile.

Il che, ovviamente, rende molto più difficile pensare a una fine della vita per cause ambientali. La definizione stessa di “apocalisse” sembra non essere appropriata. Senza la spinta di questo immaginario apocalittico e le paure che ci spingono a fare qualcosa, manca la ragione di un’azione impellente che possa evitare una catastrofe che emerge a poco a poco.

Tutto ciò (insieme, naturalmente, ai vari interessi contro qualsiasi tentativo di regolamentare l’industria dei carburanti fossili) spiega la totale passività verso la tematica del pericolo ambientale, che difatti viene puntualmente relegata in fondo all’agenda degli impegni politici americani. Ma, come direbbe il dottor Seuss, non è tutto! Oh no, la cosa non finisce qui.

Apocalisse in ogni dove

Se andiamo in Google a cercare la definizione di “apocalisse”, la prima che troviamo è quella che va più di moda, ovvero: “Qualsiasi evento che comporti distruzione a livelli impressionanti; (ad esempio) ‘l’apocalisse del mercato azionario’”. Benvenuti nell’era dell’apocalisse in ogni dove.

In mezzo a tutti questi allarmismi gratuiti, diventa difficile discernere tra le vere minacce di estinzione e le sciocche imitazioni. L’urgenza, dettata dal significato del termine, dell’apocalisse viene stemperata al punto che questa parola rischia di essere completamente svuotata del suo senso. Il risultato è che la nostra epoca sembra da un lato vivere sotto una costante minaccia di sfacelo, mentre dall’altro ci insegna a volgere lo sguardo dalle minacce di una catastrofe definitiva.

Certo, l’America è ancora preoccupata per la bomba atomica, ma solo quando si trova nelle mani di qualche nazione “cattiva”. Una volta ciò significava Iraq, nonostante il fatto che nel 2003, quando l’amministrazione Bush decise di invadere il paese che era sotto il regime di Saddam Hussein, questo stato non aveva in programma di dotarsi di ordigni nucleari. Ora invece vuol dire Iran – un’altra nazione che non ha bombe atomiche e che non ha intenzione di averle, ma che continua a essere guardata in modo apocalittico come se ne possedesse già un arsenale – e Corea del Nord.

Al giorno d’oggi, in effetti, si tende ad affibbiare l’etichetta di “minaccia apocalittica” a ogni paese ritenuto pericoloso, escludendo dal campo amici, alleati o noi stessi. Siamo abituati a pensare alla rovina come a qualcosa di legato a una contingenza, senza prendere in seria considerazione ciò che essa potrebbe realmente significare.

Come se non bastasse, bisogna aggiungere che la Guerra Fredda ha fissato una semplice equazione nell’opinione pubblica americana: nazione cattiva + armi nucleari = la nostra distruzione totale. Quindi è facile abboccare al luogo comune secondo cui l’Iran non dovrà mai avere un’arma, altrimenti sarebbe la fine. Il che mette una qualche pressione sui politici e gli esperti nel dover spiegare come poche armi nucleari in mano all’Iran possano preoccupare così tanto gli americani.

Nel frattempo, l’attenzione dedicata alle dimensioni dell’arsenale atomico mondiale, che è molto più ampio, è scarsissima, soprattutto negli Stati Uniti. Le testate nucleari americane sono praticamente invisibili, nascoste come sotto terra, sotto i mari, e occultate dal velo del “top secret”. Chi mai andrebbe a preoccuparsi di qualcosa che nemmeno si vede, quando ci sono così tanti pericoli “apocalittici” davanti ai nostri occhi?

Tra questi le minacce ambientali: lo scioglimento dei ghiacciai e del mare aperto nell’Artico, le città cinesi soffocate dallo smog, la violenza delle alluvioni in continuo aumento e le siccità prolungate. Eppure questi pericoli vengono quasi sempre percepiti come qualcosa di lontano, come problemi che non ci riguardano direttamente. Anche quando i rischi connessi alla natura si fanno più vicini, stentiamo a riconoscerli perché non combaciano con la nostra idea di apocalisse. Non c’è da stupirsi, quindi, se le voci che paventano la verità scomoda di una fine che arriva lentamente si perdono nella cacofonia di un’apocalisse che è ogni dove. È solo un’altra combriccola di gente che grida “Al lupo! Al lupo!”, facile da smentire o di cui dubitare.

La morte in vita

Perché la cultura americana fa un uso così indiscriminato del termine “apocalisse”? Forse abbiamo vissuto per così tanto tempo con l’incubo del flagello che, alla fine, qualsiasi minaccia assume lo stesso alone di letalità.

Lo psichiatra Robert Lifton aveva predetto tutto questo parecchi anni fa, quando suggerì che l’era nucleare ci ha stretto nella morsa di un “intorpidimento fisico”, una sorta di una “morte in vita”. Non possiamo più essere sicuri di avere la nostra vecchia cara morte serena – quella di cui parlava Vonnegut –, e che saremo ricordati come un anello dell’infinita catena della vita. Gli studi di Lifton hanno dimostrato che il nesso tra la vita e la morte si è trasformato in quella che lui definisce una “connessione interrotta”.

Il risultato, sostiene lui, è che le nostre menti non vanno più alla ricerca di quelle immagini vitalizzanti, necessarie per vivere bene. Ogni tentativo di formare un nuovo immaginario è vanificato dal timore che la vita in questo mondo stia giungendo a una via senza sfondo. In ultima istanza, ciò che ci rimane sono “apatia, abbandono, depressione, disperazione”.

Se questa è la lente mentale attraverso cui guardiamo il mondo, anche se in maniera inconscia, non c’è da stupirsi se qualunque cosa ci appare come l’ennesima prova del fatto che la fine è vicina. Non a caso ci troviamo di fronte a una generazione di giovani e di adolescenti americani che danno per scontato un mondo pieno di immagini apocalittiche.

Provate, anche se può sembrare lugubre, a pensare a tutto ciò come a una sorta di testamento della capacità di recupero degli esseri umani. Stanno imparando a convivere con la sola realtà da loro conosciuta (e, con tutta l’ironia possibile, dobbiamo aggiungere che all’estero stanno imparando a venderci i prodotti culturali che su quella realtà si fondano). Ovviamente danno per scontato che quella sia l’unica realtà possibile. Nulla di strano, quindi, se il loro spettacolo televisivo preferito è “Walking Dead”, una serie sull’apocalisse e sugli zombi: questo dato svela quella che un critico televisivo ha giustamente definito “la vita segreta dei teenager americani post-apocalittici”.

Forse, l’unica cosa che ci possa davvero sorprendere è sapere quanti di questi ragazzi riescono ancora a uscire da un tale stato di rimbambimento psicologico, cercando il modo per imporsi.

Tuttavia, anche nei processi politici di cambiamento, i presagi di apocalisse sono dappertutto. Senza che vi sia un reale interesse per l’argomento, il messaggio suona sempre come qualcosa del tipo: “Fermiamo ora questa catastrofe o siamo perduti!”. (Un esempio: “Fermiamo l’ oleodotto Keystone XL sarà game over!”. Spesso, tra le righe, traspare l’idea di un futuro migliore, ma non attira l’attenzione perché è persino difficile immaginarne uno, e non meno credervi.

Indipendentemente da quanto sia giusta la causa, il pensiero unico sul pericolo e sulla disgrazia rafforza in modo sottile il messaggio di questa nostra epoca dove l’apocalisse è sempre dietro l’angolo: lasciate ogni speranza, voi che vivete qui e ora.

La rovina e le politiche di speranza

Un numero significativo di americani è ancora aggrappato alla speranza che era presente nella versione originaria e religiosa dell’apocalisse. Milioni di cristiani evangelici sembrano pronti ad affrontare il terrore della distruzione del pianeta, a causa del nucleare o di chissà che cosa, perché questo sarà il tramite per passare a un mondo infinitamente migliore. Sfortunatamente questa cultura “superata” non ha fatto altro che generare un’inquietante aggressività per combattere sia la guerra definitiva (forse nucleare) contro i malvagi stranieri, che un’altra guerra definitiva contro i peccatori di casa nostra.

Questa mentalità da “ultima resistenza”, fortemente radicata (tra gli altri) in parecchi irriducibili del Tea Party, appare come qualcosa di irrazionale per chi non vi aderisce. Ha invece molto senso per chi è convinto, al di là di qualsiasi dubbio scritturale, che l’Armageddon sia vicino.

L’ipotesi di un’apocalisse pura e semplice era diffusa anche a Sinistra, quando era vivo il dibattito sulla rivoluzione, che avrebbe abbattuto i muri, per cominciare a ricostruire tutto dalle fondamenta. Considerato lo stato del mondo in cui viviamo, forse sarebbe ora di ricominciare a sperare in un futuro migliore che nasca proprio dall’essenza di questo universo.

Con lo spettro spaventoso del disastro ambientale che si avvicina alla chetichella, ciò di cui avremmo bisogno è una rivoluzione in slow-motion. A livello energetico sta già avvenendo. Gli studiosi hanno dimostrato che le energie rinnovabili come il solare e l’eolico potrebbero soddisfare il fabbisogno dell’umanità intera. Le tecnologie alternative stanno mettendo in pratica queste teorie a livello globale, anche se non possono (ancora) trasformare la vita di tutti i giorni.

Forse è tempo che i nostri pensieri e le nostre parole smettano di essere soltanto lo specchio delle nostre paure, e che diventino invece il riflesso della rivoluzione che sta prendendo forma e che potrebbe modificare profondamente il nostro modo di vivere – e convivere con – il pianeta. Provate solo ad immaginare se tutti ci attenessimo a questa regola: ogni volta che sentiamo pronunciare la parola “Keystone XL” o qualunque altra che sia sinonimo di “minaccia ambientale”, cominciamo a comportarci come se fossimo arrivati all’”Atto II”: un mondo nuovo sostenuto solo da energie rinnovabili, libero dalle emissioni di carbonio, e abitato da forme genialmente organizzate.

In un’epoca in cui la disperazione, il senso della fine e dell’annichilimento sono sempre dietro l’angolo, il tentativo di infondere nuova speranza – nei fatti, non solo a parole – è assolutamente vitale.

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IRA CHERNUS
TomDispatch.com

Link: Ira Chernus, What Ever Happened to Plain Old Apocalypse?

25.02.2014

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di DONAC78

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