DI VALERIO LO MONACO
ilribelle.com
Ieri è stato il No-Cash Day, ovvero il “giorno senza denaro contante”. Ne abbiamo scritto sul Ribelle, ma vale la pena tornarci sopra ancora un momento. Perché una manifestazione del genere?
I motivi sono parecchi, ma il ragionamento che vogliamo fare questa volta è un altro. Ad ogni modo, più della metà degli italiani non usa Bancomat né Carte di Credito, e in Europa siamo l’ultimo Paese nell’uso della moneta virtuale (ammesso che quella cartacea si possa invece considerare reale, visto come viene emessa, su quali basi, e da chi).
L’obiettivo di una manifestazione del genere – a proposito: perché esiste qualcuno (Abi & company) che indice una manifestazione del genere? Con quale diritto? E perché i cittadini e i media vi danno credito? – è quello di spingere, anche gli italiani, a usare più moneta elettronica. Questa è tracciabile (si ridurrebbero le truffe e l’evasione fiscale) più sicura (perché, esistono ancora anche i falsari come Totò e Peppino de Filippo, oltre alla Bce?) si risparmia sul costo di emissione dei biglietti e sulla carta (costo irrisorio, considerando che al prezzo reale di 0,1 centesimo di Euro per ogni banconota tagliata e stampata, la Bce ci “scrive” sopra 100 Euro e la “presta” all’Europa ad un tasso di interesse di sua pertinenza. Insomma roba da rivoluzione permanente, si direbbe).
Come si vede si tratta, senza mezzi termini, di boiate. Il punto è invece quello di spingere in una duplice direzione: da un lato insistere affinché le persone tengano il denaro liquido in banca – in una Banca privata, naturalmente – la quale poi, con il meccanismo della riserva frazionaria, con il “nostro” denaro può di fatto generarne altro, mediante prestiti e mutui, ad esempio, o vendita di altri prodotti finanziari; dall’altro lato il fatto che mediante l’uso di carte elettroniche, il consumatore perde ancora di più la percezione reale di quanto sta spendendo. E fatalmente spende di più, anche quando non potrebbe permetterselo. A rate, ad esempio, con le carte revolving che permettono di pagare tutto subito e poi rifondere il denaro “in comode rate” con interessi da usura legalizzata. In pratica, il tutto è votato allo spendere.
Un ulteriore punto da mettere a fuoco a nostro avviso è però un altro: risiede proprio nell’utilizzo del denaro. Sinteticamente, ogni volta che veniamo pagati con del denaro, e ogni volta che lo spendiamo – reale o virtuale che sia – noi siamo tassati. Quanto? È abbastanza facile stabilirlo, anche grossolanamente.
Prendendo un esempio classico di riferimento, e tagliando il tutto con l’accetta, possiamo essere certi, in primo luogo, che un lavoratore dipendente alla fine di tutto, tra ritenute, imposte e conguagli, per ogni cento euro reale guadagnato, ovvero che il datore di lavoro spende per lui, ne lascia almeno il 50% allo Stato.
Dunque, 100 euro lordi, uguale 50 euro in tasca. O giù di lì.
Questi 50 euro, si sarebbe portati a pensare, in teoria sono a completa disposizione del lavoratore che li ha guadagnati: niente di più sbagliato.
Pensiamo solo che, per fare un esempio classico, ogni volta che acquistiamo un litro di benzina, un mucchio di quel denaro se ne va per le varie accise, eppure per capire ancora più rapidamente il “trucco”, basta fare un esempio ancora più semplice.
Ebbene, con questi 50 euro rimasti nelle tasche del lavoratore-consumatore, proviamo a fare un qualsiasi acquisto, di una merce di qualsiasi tipo. Per esempio una di quelle merci – e sono la maggioranza – sulle quali grava una aliquota Iva del 20% (presto aumenterà anche nel nostro Paese, come misura di austerity, così come avvenuto già in Grecia).
Con 50 euro comperiamo un oggetto, ma il 20% di quella somma se va in realtà in tasse: il negoziante ci farebbe pagare volentieri la merce il 20% in meno se non dovesse poi a sua volta versare allo Stato un 20% dell’incasso.
Facciamo un totale: abbiamo guadagnato, lavorando, 100 euro. Ce ne hanno consegnati in mano 50, e di questi almeno un altro 20%, cioè altri 10 euro (su 50) se ne vanno in ulteriori tasse.
Totale? In modo effettivo, di 100 euro guadagnati, noi abbiamo una reale disponibilità per soli 40 euro. In realtà ancora molto meno, ma in questa circostanza è inutile andare oltre questo semplice (e volutamente semplicistico) ragionamento.
Il punto sarebbe dunque – meglio: il punto è – capire che è proprio nel sistema del denaro così impostato che risiede lo stupro quotidiano del proprio lavoro e dunque della propria vita, non nell’utilizzo di moneta cartacea o virtuale. Ciò che va ripensato è il ruolo del denaro che – per dirla alla Ezra Pound – non è né deve essere una merce.
E occhio, è ingenuo pensare “allora che facciamo, torniamo al baratto?”, come ogni qualunquista di solito risponde a ragionamenti del genere. Fare così è come evitare di voler trovare altre soluzioni pur avendo capito benissimo che quella attualmente utilizzata è una truffa.
Esistono vari esperimenti invece, nel mondo, in cui si provano monete diverse (monete locali) o “certificati di lavoro” differenti, spendibili in altro modo e sempre all’interno della comunità.
Ed esistono, ancora di più, e per fortuna, diverse situazioni – destinate certamente a una espansione imitativa, nel prossimo futuro – dove al classico scambio commerciale merce-contro-denaro, si attua, il più possibile, uno scambio utile a entrambe le parti, e più in generale alla comunità nella quale risiedono, e in modo del tutto privo da ragioni di tipo mercantilistico e commerciale. In modo, in pratica, del tutto privo di denaro. E dunque, esentasse. Ed esen-truffa. Ma di queste realtà ne parleremo sul mensile.
Valerio Lo Monaco
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21.06.2011
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