Di Alessia Vignali per ComeDonChisciotte.org
“Ma Michelangelo, come avete fatto? Dove avete veduto quei corpi e quelle scene?”
“Mi stavano negli occhi.”
“Tutte insieme?”
“Tutte e anche altre, che però non entravano qui dentro.”
(Dialogo tra Raffaello e Michelangelo sotto la volta della Cappella Sistina. Da “Polvere di marmo pennelli in aria”, di Federica Iacobelli)
Tra i prodotti umani di cui ogni civiltà va più fiera e cui s’ispira per accrescere il suo senso di sé c’è l’arte. Per Freud, l’arte è uno dei rimedi che l’uomo si è dato all’insopportabilità di una vita che reca dolori, disinganni, compiti impossibili. “I soddisfacimenti sostitutivi che l’arte offre agli uomini sono illusioni che contrastano con la realtà; non per questo, tuttavia, sono meno efficaci, data la funzione che la fantasia ha assunto nella vita psichica”, ebbe a dire nel “Disagio della civiltà”. Ovviamente non fu il primo a decretare che solo d’illusioni si possa vivere. Citiamo, al riguardo, il celebre brano nel “Prometeo incatenato” di Eschilo, in cui l’eroe sostiene d’essere riuscito nel compito meritorio di impedire agli uomini di prevedere la loro sorte mortale. “Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia?”, gli chiede il coro. “Ho posto in loro cieche speranze”, risponde.
In quest’articolo ripercorrerò in maniera quasi nostalgica i significati e le finalità di quell’arte vera che nei secoli ci ha aiutato a vivere, ponendoli a confronto con i nuovi significati che s’intendono conferire a un’”arte” prodotta in un sistema economico dell’arte contemporanea già alienato, che vorrebbe equiparare la “creazione artistica” alle produzioni dell’Intelligenza Artificiale.
Il caso di cronaca da cui scaturisce la riflessione è uno dei tanti, la vittoria del primo premio di un dipinto prodotto dalla IA denominata Jason Allen su descrizione verbale dell’artista Midjourney (per fortuna un apporto umano rimane) a un concorso d’arte indetto dalla Colorado State Fair. La mia angolatura è quella della psicoanalisi contemporanea, mai sufficientemente divulgata nelle sue scoperte ben al di là di quella che James Grotstein denominò “l’inquinamento luminoso dell’Edipo” e capace, anzi, d’accedere ai meccanismi più primitivi della genesi del pensiero, quelli che radicano nello strato roccioso della primissima relazionalità umana: là dove troviamo quel “raggio d’intensa oscurità” che continua a sfidarci mentre ci guida e ci guarisce.
L’area della sublimazione, di cui l’arte è parte assieme alla scienza, alla filosofia e in generale alle discipline creative umane, era di fatto per Freud l’unica ospitale per l’uomo, nata a misura sua e su sua necessità, tanto che l’abbandonarla gli sarebbe a suo dire costato una regressione all’”orda primitiva”; a portare alle estreme conseguenze la tesi del maestro fu un celeberrimo, a sua volta geniale epigono appartenente alla corrente degli “Indipendenti britannici”, Donald W. Winnicott: egli sostenne che l’“area intermedia” o “transizionale” d’esperienza cui appartengono l’arte e in generale tutta la cultura è il naturale sviluppo del gioco infantile, si colloca tra il mondo interno del soggetto e quello esterno, è sotto l’egida dell’onnipotenza magica creatrice dell’uomo ereditata dalla primissima infanzia, è da sperimentare ed abitare il più possibile affinché una vita valga la pena di essere vissuta. Il primo “oggetto transizionale“ del bambino è la cosiddetta “coperta di Linus”, l’orsacchiotto o la bambolina in cui allucina e “proietta” la presenza tranquillizzante e appagante della madre… lì si radica la capacità di ritrovare l’oggetto d’amore perduto, tanto che il soggetto potrà usare questa capacità in futuro, da adulto, dandosi… una cattedrale costruita da lui stesso, oppure una teoria delle relatività. E’ dunque per colmare il desiderio struggente, lo iato tra sé e l’oggetto, la mancanza che l’uomo crea… e così facendo può giungere alla cappella Sistina, magari perdendoci la vista e la salute, come fece Michelangelo. Goethe se ne stupì più di duecento anni dopo, tanto da asserire “Senza aver visto la Cappella Sistina non è possibile formarsi un’idea apprezzabile di cosa un uomo solo sia in grado di ottenere”.
L’uomo non può, per Donald Winnicott, non essere creativo, pena una grande infelicità; dunque non solo l’artista, ma ogni uomo necessita di porte d’accesso alla creatività. In fondo, ogni patologia psichica va ascritta all’impossibilità d’attingere al potere generativo di dar vita a oggetti, mondi, pensieri che parlino del loro inventore ma lo trascendano ad un tempo.
Tra i “soddisfacimenti sostitutivi” che alleviano all’uomo il peso dell’esistenza grazie all’arte annoveriamo per primo l’incontro con la dimensione estetica. Se pensiamo alla tragedia greca, la bellezza è la chiave di volta del piacere nella sua fruizione: la bellezza rende sopportabile l’orrore delle verità in essa contenute e le rende disponibili agli uomini per una profonda elaborazione emancipatrice.
Così l’estetica, che per la filosofia è “conoscenza attraverso i sensi”, diventa viatico di un’avventura ulteriore del Sé nei territori molteplici evocati dalle immagini presentate o “esposte” all’osservatore, proprio come avveniva nei misteri eleusini. In questo cammino iniziatico, dice Aristotele, “gli iniziati non dovevano apprendere qualcosa, ma mettersi in una disposizione d’animo, patire un’emozione e raggiungere uno stato”. A loro non veniva impartito alcun insegnamento dogmatico: l’esposizione ai simboli proposti dallo ierofante avrebbe prodotto un turbamento di fronte al quale avrebbero dovuto trovare autonomamente e in solitudine un’interpretazione, un “uso” possibile per la propria evoluzione; proprio come dovrebbe poter accadere di fronte a un qualunque prodotto artistico. Lo sa bene l’autore e regista teatrale, fondatore della Socìetas Raffaello Sanzio Romeo Castellucci, che sull’epopteìa, questa esposizione rivelatrice a simboli urticanti tratta proprio dalla metodologia dei misteri eleusini, basa una sua “dichiarazione di poetica”. Purtroppo questo confronto intimo e profondo con l’opera cui insiste a sottoporci Castellucci accade sempre meno, un po’ perché non ricordiamo più cosa significhi ricavare quello spazio interiore per sé, quella piccola solitudine necessaria a “pensare o anche solo sentire” qualcosa di nostro al cospetto di un oggetto di conoscenza. Siamo troppo abituati a dis-trarci, cioè a trarci fuori da ogni stato troppo “sollecitante”, ogni stato che richiederebbe un pensiero, insomma. In questa continua evasione ci “allenano” alla perfezione l’uso del telefonino e l’ideologia della nostra società denervata, il cui motto da T-shirt potrebbe essere Keep calm and enjoy. Perché soffrire? Non reggeremmo, poveri soggetti fiacchi e deboli che siamo!
Anche gli artisti, immersi in questo clima che induce al “non fare, non sentire, non pensare per non star male”, evitano spesso di produrre vera arte per non dover patire; patire è fatica… e richiede, per trovare soluzioni, un lungo lavoro psichico, oltre che esteriore, un “tormento e un’estasi” cui loro, così come noi, sono sempre meno siamo forgiati. Così, tanti sono gli artisti, a partire da Pollock, che soffrono di una nascosta “sindrome dell’impostore” e sperimentano un perenne dubbio sulle loro reali capacità. In un sistema dell’arte contemporanea spesso malato, i fruitori colludono poi nel considerare arte ciò che è mero artigianato per lo stesso motivo: per non dover patire nell’entrare a contatto con qualche verità; il re, insomma, non è mai nudo.
Tornando alla bellezza, essa è in sé, a prescindere dal viaggio ulteriore cui ci predispone, un balsamo per la psiche, un nutrimento incommensurabile che ci giunge prima della parola, al di fuori di ogni quantificazione.
Essa è capace di rigenerarci poiché ci rituffa in una dimensione somatopsichica di godimento oceanico, sperimentabile soltanto in un mondo idealizzato in cui le cose “sono al loro posto”, dominano l’armonia e l’incanto di un appagamento completo dei sensi e dell’anima.
Molti sono i rimandi a quella “sensazione oceanica” di fusione con il tutto, il bello, la perfezione che l’infans sperimenta a contatto con la pelle materna, prima di pervenire a quella separazione che ne sancisce un esordio di soggettività. E altrettanti sono i rimandi a quello sguardo “occhi negli occhi” in cui la bellezza del volto materno conteneva ogni risposta, così come per la madre era fonte di sublime appagamento il semplice respirare del suo bambino. Ogni bellezza, ogni senso estetico nasce lì, laddove l’amore soffonde di una droga beatificante ogni esperienza percettiva che abbia a che fare con la vita: non è un caso se tra i soggetti preferiti degli artisti dei nostri Medio Evo e Rinascimento figuri la “Madonna con bambino”.
Sperimentando il bello, dunque, la nostra psiche risale di nesso in nesso, di metafora in metafora, a ritroso nel passato della nostra biografia sino alle sue scaturigini al cospetto del seno materno.
Di Alessia Vignali per ComeDonChisciotte.org
Alessia Vignali, psicologa, psicoterapeuta, psicoanalista e giornalista
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