Il lamento sulla presunta indecisione degli Stati Uniti in Iraq pervade la mediasfera.
A sinistra si ode uno squittio confuso, “vedete, gli Stati Uniti sono amici dei Tagliagola Jihadisti, non li bombardano…”, a destra roboanti richiami al massacro generale di musulmani.
Credo che non ci sia proprio nulla da rimproverare alla politica statunitense, che ha seguito una linea coerente che ha dato risultati eccellenti, almeno per gli interessi del dispositivo politico-militare-imprenditoriale di quel paese (e a chi altri mai dovrebbero rendere conto?).
Lo hanno spiegato con ammirevole chiarezza, oltre un anno fa, Daniel Pipes ed Edward Luttwak.
Non si tratta di due opinionisti qualunque, ma di individui che ogni anno muovono molti milioni di dollari attraverso think tank che mettono insieme esponenti militari, politici, dei servizi segreti e imprenditoriali, sia statunitensi che israeliani e dei paesi NATO.
Luttwak negli Stati Uniti ha lavorato con il ministero della difesa, con il dipartimento di stato, con la marina, con l’esercito e con l’aeronautica; ma ha anche collaborato con vari ministeri della difesa di paesi NATO.
Pipes e Luttwak non determinano forse la politica statunitense (almeno attualmente); anzi, a volta la criticano nel dettaglio, ma certamente hanno un’influenza enorme nei settori decisivi, e comunque fanno un ragionamento di indiscutibile buon senso.
Magari ciò che dicono non somiglia alle chiacchiere di pubblicitari, ma così parlano imprenditori, militari e altri che decidono, quindi nessuno si scandalizzi.
Nell’aprile del 2013, Daniel Pipes pubblicò un articolo sul Washington Times, dove invitò a sostenere temporaneamente il governo siriano di Bashar al-Assad.
“Il mio consiglio è tutt’altro che originale, si tratta della buona vecchia Realpolitik. In altre parole, rientra in una tradizione di divide et impera che risale ai Romani”.
Pipes cita come esemplare la maniera in cui, per otto anni, dal 1980 al 1988, gli Stati Uniti riuscirono a impedire sia all’Iran che all’Iraq di vincere in guerra.
“In questo spirito, sostengo quindi che gli USA dovrebbero aiutare la parte perdente, qualunque sia, come già scrissi nel maggio del 1987: “Nel 1980, quando l’Iraq minacciava l’Iran, i nostri interessi erano almeno in parte con l’Iran. Ma l’Iraq è sulla difensiva dall’estate del 1982, e Washington oggi è fermamente dalla sua parte. Guardando al futuro, se l’Iraq dovesse riprendere l’offensiva, un cambiamento improbabile ma non impossibile, gli Stati Uniti dovrebbero di nuovo passare dall’altra parte e pensare a sostenere l’Iran“.
In Siria oggi, scrive Pipes,
“La continuazione del conflitto danneggia meno gli interessi occidentali di una presa di potere [da una parte o dall’altra].
Ci sono prospettive peggiori di quella di sunniti e sciiti che si massacrano, di jihadisti di Hamas che uccidono jihadisti di Hizbullah e viceversa. Meglio che non vinca nessuna parte.”
Nell’agosto del 2013, anche Edward Luttwak ha sostenuto lo stesso ragionamento, in un editoriale sul New York Times:
“Una vittoria di una parte o dell’altra sarebbe ugualmente indesiderabile per gli Stati Uniti. A questo punto, un prolungato stallo sarebbe l’unico esito non dannoso per gli interessi americani.
C’è un solo esito che gli Stati Uniti possono favorire: uno stallo a tempo indeterminato. Incastrando l’esercito di Assad e i suoi alleati iraniani e di Hezbollah in una guerra contro i combattenti estremisti di al-Qaida, i nemici di Washington saranno bloccati in una guerra tra di loro che li impedirà di attaccare gli americani e o gli alleati dell’America.
Mantenere una condizione di stallo deve essere l’obiettivo degli Stati Uniti. E l’unico modo per ottenerlo consiste nell‘armare i ribelli quando sembra che le forze di Assad stiano vincendo e poi smettere di rifornirli se sembra proprio che stiano vincendo”.
Pipes e Luttwak non parlano dell’Iraq, ma lì la situazione è ancora più promettente. Non solo si è riusciti finora a evitare il trionfo di qualcuno, ma si è prodotta in quasi tutto il paese una condizione di ciò che si chiama comunemente “anarchia“, che se attentamente curata, potrebbe durare in maniera indefinita.
Oltre tutto, i meccanismi di conflitto, i cicli di devastazione, di menzogna e di vendetta, la creazione di grandi interessi speculativi, procedono da soli, richiedendo un intervento esterno minimo di manutenzione: come dice Luttwak, può essere sufficiente dosare in maniera intelligente la fornitura di armi e poco più.
Il risultato spicca particolarmente, se pensiamo che fino all’attacco all’Iran da parte di Saddam Hussein, l’Iraq era l’unico paese arabo che avesse insieme una popolazione abbastanza numerosa, una buona agricoltura con sufficiente acqua, immense risorse petrolifere, un’amministrazione forse spietata ma che spiccava per efficienza rispetto a tutto il Medio Oriente (come può testimoniare chiunque abbia lavorato con quel paese in quegli anni) e alti livelli di istruzione.
Certo, si potrà bombardare occasionalmente la forza che sembra stia per prevalere, ma sarebbe insensato e controproducente cercare di annientarla.
L’instabilità, come scrivevamo, può diventare una condizione stabile.
Miguel Martinez
Fonte: http://kelebeklerblog.com
8.09.2014