Colin Todhunter
off-guardian.org
Nell’ottobre 2020, CropLife International aveva affermato che la sua nuova partnership strategica con l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO – Food and Agriculture Organization, n.d.t.) avrebbe contribuito allo sviluppo di sistemi alimentari sostenibili.
Aveva aggiunto che era la prima volta per l’industria e la FAO e che questo dimostrava la determinazione del settore delle scienze vegetali a lavorare in modo costruttivo in una partnership in cui gli obiettivi comuni erano condivisi.
CropLife International, una potente associazione commerciale e lobbistica, annovera tra i suoi membri le più grandi aziende mondiali di biotecnologie agricole e pesticidi: Bayer, BASF, Syngenta, FMC, Corteva e Sumitoma Chemical.
Con il pretesto di promuovere la tecnologia della scienza vegetale, l’associazione si prende cura in primo luogo degli interessi (linea di fondo) delle corporazioni che ne fanno parte.
Non molto tempo dopo l’annuncio della partnership CropLife-FAO, PAN (Pesticide Action Network) Asia Pacific, insieme al altre 350 organizzazioni, aveva scritto una lettera al Direttore Generale della FAO, Qu Dongyu, esortandolo ad interrompere la collaborazione, e per una buona ragione.
Un’indagine congiunta del 2020 di Unearthed (Greenpeace) e Public Eye (una ONG per i diritti umani) aveva rivelato che BASF, Corteva, Bayer, FMC e Syngenta guadagnano miliardi di dollari vendendo sostanze chimiche tossiche che, secondo le autorità di regolamentazione, pongono seri rischi alla salute.
[L’indagine] aveva anche scoperto che più di un miliardo di dollari delle loro vendite proveniva dalla vendita di sostanze chimiche – alcune ora vietate nei mercati europei – estremamente tossiche per le api. Oltre due terzi di queste vendite vengono effettuate in Paesi a basso e medio reddito, come Brasile e India.
La dichiarazione politica della People’s Autonomous Response al vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari del 2021 affermava che le multinazionali si stanno infiltrando sempre più negli spazi multilaterali, sfruttando la narrativa della sostenibilità per favorire un’ulteriore industrializzazione, l’estrazione di ricchezza e lavoro dalle comunità rurali e la concentrazione del potere aziendale.
Con queste premesse, una delle principali preoccupazioni è che CropLife International ora cercherà di far deragliare l’impegno della FAO per l’agroecologia e spingerà per un’ulteriore colonizzazione aziendale dei sistemi alimentari.
Il Rapporto del Gruppo di Esperti di Alto Livello della FAO delle Nazioni Unite del luglio 2019 aveva concluso che l’agroecologia offre sicurezza alimentare e benefici nutrizionali, di genere, ambientali e di resa notevolmente migliorati rispetto all’agricoltura industriale. Questo rapporto faceva parte dell’attuale impegno della FAO per l’agroecologia.
Ma l’agroecologia rappresenta una sfida diretta agli interessi dei partner di CropLife. Impegnandosi a favore delle piccole comunità e della coltivazioni biologiche, l’agroecologia non richiede la dipendenza da sostanze chimiche, sementi e conoscenze proprietarie, né dalle catene di approvvigionamento globali a lunga distanza dominate dalle società agroalimentari transnazionali.
Ora sembra esserci un attacco ideologico dall’interno della FAO allo sviluppo alternativo e ai modelli agroalimentari che minacciano gli interessi dei membri di CropLife International.
Nel rapporto Who Will Feed Us? The Industrial Food Chain vs the Peasant Food Web (ETC Group, 2017), era stato dimostrato che una rete diversificata di produttori su piccola scala (la rete alimentare contadina) nutre effettivamente il 70% del mondo, comprese le popolazioni più affamate ed emarginate.
Questa importante analisi indicava che solo il 24% del cibo prodotto dalla catena alimentare industriale raggiunge effettivamente le persone. Era stato inoltre dimostrato che il cibo industriale costa di più: per ogni dollaro speso in cibo industriale, occorrono altri due dollari per rimediare ai danni del processo di produzione.
Tuttavia, da allora due importanti studi hanno affermato che le piccole fattorie sfamano solo il 35% della popolazione mondiale.
Uno è “Quanto del cibo del nostro mondo producono i piccoli proprietari?” (Ricciardi et al, 2018). L’altro è un rapporto della FAO: “Quali fattorie nutrono il mondo e le terre coltivate sono diventate più concentrate?” (Lowder et al, 2021).
Otto importanti organizzazioni hanno appena scritto alla FAO criticando aspramente lo studio Lowder, che ribalta una serie di punti di vista ormai ben consolidati. La lettera è firmata da Oakland Institute, Landworkers Alliance, ETC Group, A Growing Culture, Alliance for Food Sovereignty in Africa, GRAIN, Groundswell International e Institute for Agriculture and Trade Policy.
La lettera aperta invita la FAO a riaffermare il concetto che i contadini (compresi i piccoli agricoltori, i pescatori artigianali, i pastori, i cacciatori, i raccoglitori e i produttori urbani) forniscono più cibo con meno risorse a disposizione e sono la principale fonte di nutrimento per almeno il 70% della popolazione mondiale.
In risposta ai due articoli, il gruppo ETC ha anche pubblicato un rapporto di 16 pagine intitolato “Le piccole aziende agricole e i contadini nutrono ancora il mondo“, spiegando come gli autori [dei due lavori in questione] si fossero abbandonati alla ginnastica metodologica e concettuale e ad alcune importanti omissioni per arrivare alla cifra del 35% – anche modificando la definizione di ‘agricoltura familiare’ e definendo ‘piccole’ le aziende di meno di 2 ettari. Ciò contraddice la stessa decisione della FAO del 2018 di rifiutare una soglia universale di superficie per descrivere le piccole aziende agricole, a favore di definizioni più sensibili in base al Paese.
Il documento di Lowder et al contraddice anche i recenti rapporti della FAO ed altri lavori, secondo cui le piccole fattorie producono, per ettaro, cibo in quantità maggiore e più nutriente rispetto alle grandi aziende. Sostiene inoltre che i responsabili politici sono erroneamente concentrati sulla produzione contadina e dovrebbero prestare maggiore attenzione alle unità produttive di maggiori dimensioni.
I firmatari della lettera aperta alla FAO sono fortemente in disaccordo con l’assunto dello studio Lowder secondo cui la produzione alimentare è un proxy per il consumo di cibo e che il valore commerciale del cibo sul mercato può essere equiparato al valore nutritivo del cibo consumato.
Il documento alimenta una narrativa agroalimentare che tenta di sminuire l’efficacia della produzione contadina, al fine di promuovere le sue tecnologie proprietarie e il modello agroindustriale.
La piccola agricoltura contadina è considerata da questi conglomerati come un impedimento. La loro visione è fissata sul ristretto paradigma del ‘rendimento’ basato sulla produzione di massa di merci, incompatibile con un approccio integrato di sistemi socio-culturali-economici-agronomici che tenga conto della sovranità alimentare e di una produzione diversificata.
Questo approccio sistemico serve anche a promuovere lo sviluppo rurale e regionale basato su comunità locali fiorenti e autosufficienti, piuttosto che sradicarle e subordinare quelle che rimarranno alle esigenze delle catene di approvvigionamento e dei mercati globali. Ai lobbisti dell’industria piace definire la loro strategia come “rispondente ai bisogni dell’agricoltura moderna,” piuttosto che chiamarla per quello che è: imperialismo aziendale.
Il documento della FAO conclude che le piccole aziende agricole mondiali producono solo il 35% del cibo mondiale utilizzando il 12% dei terreni agricoli. Ma il Gruppo ETC afferma che, elaborando i normali dati della FAO o quelli di fonti comparabili, è evidente che i piccoli contadini nutrono almeno il 70% della popolazione mondiale con meno di un terzo della terra e delle risorse agricole a disposizione.
Ma, anche se venisse prodotto il 35% del cibo sul 12% della terra disponibile, questo non suggerisce che dovremmo investire nella piccola agricoltura familiare e contadina piuttosto che in un’agricoltura chimica intensiva e su larga scala?
Sebbene non tutte le piccole aziende agricole possano praticare l’agroecologia o l’agricoltura priva di sostanze chimiche, è assai probabile che siano parte integrante dei mercati e delle reti locali, delle filiere corte, della sovranità alimentare, di sistemi di coltivazione più diversificati e di diete più sane. E che tendano a soddisfare le esigenze alimentari delle comunità, piuttosto che quelle di interessi commerciali esterni, di investitori istituzionali e di azionisti che vivono dall’altra perte del mondo.
Quando la logica aziendale trionfa, troppo spesso la prima vittima è la verità.
Colin Todhunter
Fonte: off-guardian.org
Link: https://off-guardian.org/2022/02/05/an-inconvenient-truth-the-peasant-food-web-feeds-the-world/
05.02.2021
Tradotto da Papaconscio per comedonchisciotte.org