Nota dell’editore: Daniel Estulin e la sua famiglia furono espulsi il 23 Marzo 1980 dall’ Unione Sovietica per attività antisovietica: Suo padre, un importante scenziato e dissidente, ha passato tre anni e mezzo in prigione per avere cercato libertà di parola per i suoi concittadini. Temendo per la sua vita a causa delle sue audaci denunce di corruzione, manipolazione e giochi di potere, Estulin si è volontariamente esiliato in Spagna. Le sue drammatiche storie personali sono un raro sguardo dietro la scena di come la più potente società segreta del mondo ha cercato di fermare uno degli uomini nel mondo più determinati a scoprire i suoi segreti.
DI DANIEL ESTULIN
25 Giugno, 2005. Per lungo tempo io e il Club abbiamo cercato la compagnia l’uno dell’altro per il danno reciproco dei nostri detrattori. Sebbene io conduca le mie investigazioni nella più stretta riservatezza, una volta all’anno, vengo fuori dal mio guscio per confrontarmi con i Bilderberg sul loro terreno- un lussuoso hotel a 5 stelle, il luogo del loro annuale incontro segreto. Nell’estate 2004 ero a Stresa, Italia.
Per raggiungere questa sonnolenta città di villeggiatura, che vive alle spese di abbronzati anziani tedeschi, coabitanti con i loro, linguisticamente parenti, britannici, scozzesi e irlandesi, bisogna volare sino all’aeroporto Malpensa di Milano.
Sono appassionato di Milano; immagino, nel buco lasciato dalla vocale che separa la M e la L, una replica in miniatura della famosa cattedrale, l’umidità dei suoi tramonti primaverili e gli echi dei piedi che marcano un ritmo di “staccato” sui suoi ciottoli quadrati.
Così ero felice di essere qui di nuovo, di affaticarmi nella direzione opposta dei turisti in partenza, inconsapevoli dell’eleganza della città e dei suoi splendori nascosti. Come mi sono fatto strada nel terminal dell’aeroporto la mia mente ha iniziato a vagare come in sogno verso qualcosa che avevo letto sull’imbrattato e spiegazzato giornale a bordo dell’aereo, un articolo secondario su Novodevichy o in inglese “Convento delle nuove fanciulle”, il più ammirato cimitero di Mosca.
L’articolo divideva lo spazio nella pagina con una donna scarsamente coperta da un vestito rosso e una utile lista del Ministero Russo del Turismo di indirizzi di sacri templi da non perdere quali il mausoleo di Lenin, il quartier generale del KGB alla Lublianka e GUM “il più grande shopping center del mondo!”.
Novodevichy! Alcuni dei più venerati scrittori e poeti russi sono sepolti lì. Chekhov fu uno dei primi a esservi sepolto nel 1904 e i resti di Gogol provenienti dal Monastero Danilov vi furono risepolti non molto tempo dopo. Scrittori del ventesimo secolo come Majakovsky e Bulgakov vi sono sepolti così come il tanto celebrato direttore teatrale e fondatore del Moscow Art Theatre, Nemirovich-Danchenko e Stanislavsky.
Pensai all’ assoluta imprevedibilità del futuro e al passato non come ad una rigida successione ma come ad un magazzino di immagini ricordate e disegni nascosti che contengono le chiavi dei misteriosi sentieri delle nostre vite.
Nella mia immaginazione mi sono librato in volo sulla tomba di Gogol che è simbolicamente legata a quella di un altro famoso scrittore, Bulgakov, autore di “Il maestro e Margherita”. Quando fu spostata a Novodevichy la tomba di Gogol fu cambiata. Una parte della tomba originale fu usata nella nuova. La rimanente pietra originale fu conservata per anni sino a che la moglie di Bulgakov la vide e scelse di incorporarla nella tomba del marito, solo dopo si scoprì che era parte della prima sepoltura di Gogol.
La bellezza e la leggerezza su di una mano; la meditazione filosofica nell’altra….
“Buonasera. Verrebbe con noi signore?”. Una voce tagliente e penetrante disperse velocemente quegli artefatti pensieri che avevano vagato senza scopo ma pur sempre beatamente, entro i confini della mia immaginazione.
Guardai in alto. Stava venendo verso di me, avvolto in un impermeabile, che mi colpì come piuttosto strano dato che il cielo era di un blu mediterraneo, con un brillante arma automatica imbracata sopra le spalle.
Come un personaggio di uno spettacolo bizzarro che si circonda di gobbi, nani e albini alti due metri che cantano, quest’uomo insignificante, che sarebbe potuto stare bene in un ballo in maschera, venne verso il mio personale spazio, sbattè i tacchi, porto l’indice e il medio alla tempia e si presentò.
“Sono il Detective tal dei tali”, annunciò in un perfetto tetrametro giambico. “Vorrebbe per favore venire con noi?”.
La sensazione di tragedia programmata o, più precisamente, l’ombra, tragicamente imposta nella mia controparte, mi ricordò dei modi pericolosi in cui ho scelto di vivere la mia vita.
Io e Detective, fiancheggiati da due guardie del luogo e un ufficiale dell’antidroga con un Doberman passammo in una piccola stanza di detenzione dove vengono cacciati, da corpulenti guardie o da ufficiali della dogana con la speranza di meravigliose ricompense da parte della massima Nemesi, occasionali teppisti e criminali a tempo pieno; poteva a mala pena ospitare una larga scrivania abbastanza assurda e vicino ad essa un basso tavolo con sopra una lampada.
Tutto sembrava misteriosamente calmo. Si poteva sentire il vento contro il vetro, la mitragliatrice esplodere suoni di pianto dalla porta accanto seguita da un ritmato piagnucolio, i pesanti passi lungo il corridoio.
“Può togliersi la giacca” mi disse una delle guardie scuotendo la testa in direzione di un attaccapanni. Meccanicamente mi slacciai la giacca a vento. Guardando indietro a ciò che traspariva mi vergogno al ricordo dell’ansia che provavo e di come mi lasciai mettere all’angolo, inscatolare e inizialmente intimidire.
Sforzandomi per arrivarci appesi la mia giacca a vento, ma cadde portando con sé altri due soprabiti e una giacca scozzese. I quattro oggetti colpirono il pavimento con un tonfo sgradevole.
“Lei come si chiama?”. Gli dissi il mio nome. “Qual’e’ la sua nazionalità?”. Gliela dissi. “Di che parte del Canada è lei?”. “Lei dove abita?”. ”Qual’è il suo numero di telefono?”. ”Da dove proveniva il suo volo?”. ”E’ la prima volta che viene in Italia?”.
Negli anni in cui mi sono occupato dei Bilderberg, ho imparato come evitare prontamente confronti non necessari con prepotenti guardie di frontiera e poliziotti dal grilletto facile. So di parecchi giornalisti respinti al confine per avere ficcato le dita negli occhi dell’autorità.
“Vorremmo esaminare la sua borsa: Abbiamo motivo di pensare che lei possa trasportare droghe”, mi disse il detective.
“Se ha droghe farebbe meglio a dircelo prima che apriamo il suo bagaglio” aggiunse un addetto antidroga.
Non ero molto spaventato riguardo alle droghe dal momento che non ne uso, non le fumo e ancora meno le trasporto internazionalmente nella mia borsa.
Comunque, stavo lavorando al meeting annuale dei Bilderberg, il mio nome era internazionalmente noto a tutte le divisioni dei servizi segreti, dal Mossad a KGB, MI6 e CIA. Ogni reporter che si occupa di questo annuale incontro segreto viene fotografato e i suoi dettagli personali annotati e le informazioni vengono passate attraverso l’Interpol, controllata dai Rockfeller, a tutte le agenzie internazionali di sicurezza.
Non sarebbe stata la prima volta che qualcuno ha cercato di compromettere la mia sicurezza. A Toronto nel 1996, un agente sotto copertura cercò di vendermi una pistola rubata. Durante il meeting del 1999 a Sintra, qualcuno mandò alla mia stanza d’albergo una donna, programmata tramite l’ipnosi e tecniche di lavaggio del cervello a svestirsi e a gettarsi dalla finestra, dopo avere ricevuto una data telefonata, sperando di intrappolarmi in una detenzione per omicidio di primo grado. Fortunatamente per tutti, rifiutai i suoi inviti. Non chiedetemi come venni a saperlo. Uno dei ferri del mestiere che sviluppi seguendo i Bilderberg è il sesto senso. Strani suoni di auto,
rumori ripetitivi, facce di gente che sembrano familiari, signor nessuno che amichevolmente offrono una mano… impari semplicemente a essere eccessivamente cauto.
C’era qualcosa fuori dall’ordinario nel comportamento della donna. Troppo desideroso, troppo forzato. Il linguaggio del corpo non coincideva con quello verbale. Penso fosse questo. Ciò che prese la mia attenzione era una apparente mancanza di coordinazione tra il suo corpo e le sue parole. Quando sentii bussare alla porta pensai fosse il servizio in camera che mi portava il pollo con anacardi e lo strudel di mele che avevo ordinato per cena. Immaginate la mia sorpresa quando, aprendo la porta, mi ritrovai di fronte una donna scarsamente vestita e con un corpo perfettamente scolpito, lunghi capelli neri e mossi e occhi verdi.
Qualcuno avrebbe potuto nascondere droghe nella mia borsa? Quando lavoro sul Bilderberg prendo tutte le necessarie precauzioni. Nessun check in. La borsa non lascia mai il mio fianco.
Volando al ritorno dalla Scozia nel 1998 (uno dei miei migliori tentativi di penetrazione al Bilderberg. Io e Jim Tucker di American Free Press rivelammo la storia dei piani dei
Bilderbergs per la guerra in Kosovo tramite prima la creazione tra Grecia e Turchia di ostilità riguardo a Cipro che sarebbero potute essere spinte nei Balcani) ebbi una fastidiosa sensazione che qualcuno avesse potuto mettere le mani sulla mia borsa. L’avevo lasciata all’aeroporto con tutti i miei vestiti e ciò che di prezioso avevo raccolto alla conferenza di Turnberry.
Muovendomi verso un lato della stanza mi ritrovai al lato in ombra della lunga scrivania.
Un attimo dopo, il detective che sedeva piuttosto calmo su un bordo del banco, osservando attentamente ogni mio movimento, con le mani appoggiate al calcio della sua pistola, si alzò e con la punta dello stivale girò l’angolo dello zerbino che veniva agitato da un doberman. Una delle guardie scomparve nella mia valigia. Tutto ciò che potevo vedere erano gli aguzzi angoli dei suoi gomiti che si muovevano avanti e indietro. Il mio cuore era pesante. Per quanto rovistassi dentro di me non riuscivo a trovare una briciola di gioia.
Il meglio che speravo era di essere rimesso sull’aereo e rispedito indietro. “Bilderberg paradiso perduto” sarebbe stato il titolo del nuovo numero di P.
Improvvisamente l’agente guardò in alto, emise un grido, si girò a metà verso di me con un misto di incertezza e curiosità e tirò fuori dalla borsa un ben rilegato volume in russo di Fet [grande autore russo del XIX secolo].
Come in coda ognuno iniziò a parlare.
Un giovanile agente con gli occhiali, che aveva preso il mio Fet, annunciò immediatamente che era stato in Russia e sapeva un po’ di russo, ad esempio, ‘borsh’ (zuppa di barbabietola), ‘raduga’ (arcobaleno) e ‘privet’ (ciao). Almeno l’atteggiamento dell’agente verso di me era completamente cambiato.
Dai più profondi recessi della sua memoria, cercò, invano, di attaccare i proverbialmente inattaccabili lembi in una frase coerente. Trovai impossibile capire di cosa stava parlando. Ascoltai doverosamente, con la bocca mezza aperta: la sua conoscenza del russo mi ricordava una delle vastità della steppa russa, una parola, una casa, un isola di speranza nell’enormità del vuoto. Il puro processo di provare a capire il mio docile linguaggio mi causò il panico.
Il detective, essendosi avvicinato alla guardia, si sedette vicino a me (ero ancora in piedi appoggiato sconsolatamente contro il muro) tanto che potei sentire il suo sgradevole calore, si mise una mentina nella bocca e prese il libro dalla mani dell’agente.
Passò le mani lungo il dorso del mio libro. L’uomo aprì il piccolo volume del Fet e iniziò a frugare tra le pagine. Come molta gente che legge poco, la sua testa si muoveva in sintonia con le sue labbra lungo la pagina.
Avvantaggiandomi della sosta nella conversazione feci un dettagliato studio dell’uomo: corpulento, scuro, non troppo giovane, col naso a punta, i capelli lisci divisi, palpebre protese e unghie malamente masticate.
Nella stanza accanto, qualcuno rideva in maniera scrosciante, una sedia scivolò violentemente sul pavimento attraverso la sala. L’uomo (col doberman) vestito con stretti pantaloni sulle sue gambe affusolate stava facendo gesti verso l’agente ma le parole furono annegate da una combinata esplosione di voci mischiate.
La porta, la cui esistenza avevo completamente ignorato, fu improvvisamente aperta. Entrò un uomo con la pistola e in abiti comuni. Lo vide per primo e accennò una esclamazione con le sue mani alzate e le 10 dita in movimento. Lui e il detective (che si era stufato di sfogliare il mio volume del Fet, non aveva figure) si salutarono bramosamente cercando di mettere quanto più fervore possibile in una stretta di mano e una pacca sulla spalla.
Seguì una breve conversazione. Ora, un detective e un uomo in borghese si accostavano ai due agenti e ad un impiegato antidroga eccessivamente passivo. Il doberman dormiva sullo zerbino.
Dalla conversazione, condotta con un tono sommesso, di per sé un monumentale successo per un italiano, potei tirar fuori alcune isolate frasi:”Cosa vuol dire …..?”, ”Non capisco nulla”, ”Che cerca…?”.
Dopo un breve scambio si calmarono. Il detective si mise di fronte a me, gli agenti presero il loro posto alla porta e il poliziotto antidroga si sedette sul tavolo. L’uomo in borghese si appoggiò al muro.
“Vediamo, da dove la conosco io?” iniziò. Il tono vellutato del detective aggiunse un tono di dramma a una commedia i cui protagonisti scarsamente abbozzati avevano di gran lunga superato la loro possibile utilità.
“Dove siete alloggiato?”. Mi chiese i miei biglietti d’aereo e la prenotazione di un Hotel. Gli diedi entrambi, sgualciti da essere irriconoscibili a causa del caos della mia borsa.
“Quale possibile motivo ha lei per andare a Stresa in questo periodo dell’anno?”. Pesò ogni parola sulle gradazioni del più esatto senso comune. Non dissi nulla. Sino ad allora i miei nervi erano rimasti insolitamente ricettivi dopo un’ ora di interrogatorio senza sosta.
Meccanicamente afferrai il mio Fet, al momento la mia unica fonte di calore e rassicurazione. Mi venne immediatamente richiesto (dal detective ) di mettere da parte il libro e prestare la massima attenzione.
Il detective tirò fuori una fotografia da una cartella rossa che ora teneva nella mano destra. Potei a mala pena crederci. Una copia della mia orribile fotografia della carta d’identità spagnola mi stava fissando.
“Che cosa deve fare a Stresa?” mi ripetè in perfetto inglese. Ero stato scoperto. Non ci poteva essere alcun dubbio.
Qualcuno del Ministero degli Interni spagnolo aveva fornito la mia foto alle forze di sicurezza italiane. Gli italiani sapevano perchè stavo arrivando e mi aspettavano.
Cosa peggiore, il Ministero degli Interni spagnolo cooperava con i Bilderbergs per fermare le mie investigazioni. Chi sarebbe potuto essere? Come facevano a sapere dove aspettarmi? La compagnia aerea aveva volontariamente offerto le mie informazioni confidenziali agli italiani? Per la richiesta di chi? Cosa hanno avuto in cambio?
Fissai intensamente un pezzo di carta stagnola che brillava sul pavimento.
Immediatamente, capii qualcosa che avevo visto senza capire – perchè mi avevano fermato, perchè mi interrogavano, perchè mi facevano perdere tempo. Non potevano trattenermi perchè non avevo fatto nulla. E nemmeno potevano lasciarmi andare, perchè gli era stato detto di fermarmi. La guardia della dogana, involontariamente, formava parte dell’invisibile meccanismo dei Bilderberg.
Mi alzai. “Signori” dissi ”avete due possibilità. O mi arrestate e mi incolpate di un crimine o mi lasciate andare. La recita è finita. Voi sapete perchè sono qui e io so che voi sapete che io conosco il vostro gioco”.
Guardai alla forma lasciata dall’ombra del pezzo di carta stagnola che brillava sul pavimento. Stanco di tutto ciò, arrabbiato con loro, con me stesso e col mondo che non sapeva, che non voleva sapere e non se ne curava, cercai di infilare questo completamente insignificante oggetto nell’ordinaria esistenza di quel momento.
Un’altra breve consultazione tra i cinque. Ma ora, sapevo che in pochi minuti sarei stato guidato da una macchina in attesa verso le sponde del Lago Maggiore, verso Stresa e l’annuale conferenza dei Bilderberg; verso l’incontro con un gruppo di cani da caccia senza paura, i miei amici, che tutti, contro ogni imprevisto, si erano fatti strada verso questa sonnolenta cittadina, gente che si era impegnata con inimmaginabile tenacia a mostrare i piani dei Bilderberg verso il Governo Globale e il Nuovo Ordine Mondiale.
“E’ libero di andare, Mr Estulin,”disse il detective. “Ma si ricordi che sappiamo dove trovarla. Lei è in Italia. Dovesse mettersi nei guai verrebbe messo in galera. Glielo prometto.”
Presi la mia borsa. Infilai il mio Fet in una delle tasche laterali. “Da svidania, daragoy”[Arrivederci, amico] Il viso dell’agente si illuminò per un istante. Guardò sospettosamente il detective. Ma io non lo vidi. Alla fine ero libero.
Come mi feci strada attraverso il terminal, pensai alla incostanza del caso e alle richieste dell’amicizia. Ancora e ancora, il pericolo e la morte erano apparsi ai margini della mia vita senza influenzare nemmeno di una virgola le righe principali del testo.
Un allampanato giovane uomo con i capelli biondi in abiti orientali e col naso bendato entrò in un café. Vicino, un cameriere stava pulendo le lastre dei tavoli con un panno umido.
Nella vetrina di un negozio di souvenir, un poster abbattuto, con un angolo della sua stropicciata carta strappata e una mosca morta sullo stipite della vetrina, annunciava la prima di un circo.
Uscii in strada. L’aria priva di vento era tiepida, carica di un vago odore di benzina.
Un uomo con un giornale del luogo sedeva sulla panchina di fronte a me. Per qualche inspiegabile motivo, si tolse le scarpe e i calzini.
“Qual è il prezzo per Stresa?”. “Posso portarmi il bagaglio?”
L’autista del taxi, con un grosso naso, fu gentile. Si alzò brevemente per spostare il suo cappello schiacciato da sotto di lui e caricò i miei bagagli nella Mercedes Benz.
Adoro sedermi in questi mezzi di passaggio – i comodi sedili di pelle, le anticipazioni di nuove scoperte, e il lento passare delle luci dell’aeroporto.
L’autista del taxi, con una smorta e piccola faccia, che come avevo personalmente notato, a giudicare dalla forma del suo naso, non era uno che rifiutasse mai un drink, attaccò conversazione.
Mi raccontò di suo genero che aveva un lavoro in una certa compagnia di assicurazione eccessivamente ottimistica, a Roma. Sul cruscotto vidi una rovinata foto di una donna anziana corpulenta con corti capelli rossi, mezza piegata e con gli occhi chiusi. La moglie del tassista. Si lamentò di essere povero, di dover lavorare troppe ore senza poter vedere abbastanza la sua famiglia.
Questo era l’andamento della sua vita – una vita con poco senso – la magra, vana esistenza di un emigrato napoletano di terza generazione.
In un qualche ignota parte di me potevo sentire gli sconnessi suoni delle sue lamentele ma, essendomi presto dimenticato di lui, passai in un altro mondo, il mio mondo privato di tutto ciò che mi è caro…
Per scrivere, ha detto qualcuno, non bisogna essere assenti ma diventarlo; essere qualcuno e poi andarsene lasciando delle tracce.
C., il mio amore e la mia vita. Sei il mio paradiso e il mio inferno, puoi essere solo entrambe le cose. Sei la mia felicità, tutta la mia vita, ma anche lo scontro dei linguaggi, perché la lingua, anche la più brillante è una sorta di mancanza di ragione, il lamento che aspetta l’estasi più perfetta, non perché la nostra felicità è condannata, o perché il destino è crudele, ma perchè la felicità è comprensibile solo sotto minaccia; comprensibile solo come la sua stessa minaccia.
Provai a concentrarmi su ciò che mi aspettava a Stresa. Ventidue ore di lavoro al giorno, chiamate per controllare informazioni, l’essere costantemente seguito dai servizi segreti, minacce, perquisizioni non autorizzate, incontri e ancora incontri con quelle poche anime valorose che sfidano le minacce dei Bilderbergs per darci dettagli dei loro diabolici piani. Ma semplicemente non riuscii a fermare la mia mente su queste cose. Immagini incoerenti di orrori morali balenavano nella mia testa. Schiavitù Totale. Carestie provocate dall’uomo che mandavano milioni di persone nella tomba. Sofferenza e ancora sofferenza. Indescrivibile, inumano sacrificio. Perché? Perché? E’ veramente possibile che qualcuno possa volere infliggere così tanto dolore al mondo solo per vantaggio personale? Mentre faticavo a trattenere le lacrime, continuavo a ricordare a me stesso che la mia ricerca della verità era una rivendicazione di dignità contro la crudeltà.
Continuavo a pensare ad un lieto fine per la storia ancora da scrivere del Paradiso Perduto – il nostro mondo cosparso di rovine. Cosa significherebbe perdere per sempre la felicità? Il paradiso e la sua perdita sono complementari l’uno all’altra. Non solo i veri paradisi sono paradisi perduti, ma non c’e’ paradiso senza perdita, non è un paradiso se non lo puoi perdere.
Il Bilderberg sicuramente è una metafora della paura, un’immagine della follia di tutto ciò. Al di sotto di tutto c’e’ la comprensione che, davvero, spazio e tempo, come l’amore e come la morte, ci cambiano e ci affermano, si attaccano a noi e ci esplorano; questo coinvolge l’irrevocabile e ci rende ciò che siamo.
Cosa è il Tempo se non un brutale passaggio e declino, una forma di consapevolezza, la nascita della coscienza che sa di essere essa stessa temporanea? E ancora meno capisco qual’é il proposito del destino nel riunire costantemente me e i Bilderbergs.
Daniel Estulin è un premiato giornalista investigativo che indaga sui Bilderbergs da più di 13 anni. Estulin è stato uno dei due soli giornalisti che ha assistito e riferito (da oltre un perimetro pesantemente sorvegliato) il super segreto meeting al Dorin Sofitel Seehotel di Rottachergen, Monaco, Baveria, Germania il 5-8-2005. Può essere contattato all’ indirizzo [email protected]
Daniel Estulin
Fonte: www.onlinejournal.com/
Link:http://www.onlinejournal.com/Special_Reports/062505Estulin/062505estulin.html
25.06.05
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ALCENERO
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IL MONDO NEL PALMO DELLE LORO MANI: BILDERBERG 2005 PARTE SECONDA