SOMALIA, SUDAN: IL RITORNO DEL COLONIALISMO

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E ora si va in Africa! Usa, Israele, Italia, Europa, Vaticano: dai “selvaggi” ai “terroristi islamici”

DI FULVIO GRIMALDI
Mondocane Fuorilinea

In Somalia ci arrivai nel 1991 con Alberto, sardo tosto e cameraman temerario, pochi giorni dopo che una rivolta nazionalpopolare aveva cacciato, il 31 gennaio, l’amico intimo e sodale preferito di Bettino Craxi, il dittatore Siad Barre, per un decennio filosovietico e per l’altro filoamericano. Un satrapo dei peggiori, che il colonialismo in ritirata agevolava ad assumere la funzione della continuità neocoloniale negli interessi propri e nei bagordi loro. Eravamo finiti nella parte Nord di Mogadiscio, dopo l’avventuroso viaggio su una carretta volante da Gibuti. Lì ci aveva indirizzato dall’aeroporto il gallonato “comandante” di una polizia che non esisteva più. Esisteva già, invece, il consueto burattino degli ex-padroni italiani, caro anche lui al politicamente e giudiziariamente agonizzante predecessore di Berlusconi. Era un capotribù locale di nome Ali Mahdi che mi ricevette sotto un colonnato tipo Acropoli, sopravvissuto tra le macerie della Mogadiscio semidistrutta. La residua macerizzazione l’avrebbe compiuta, due anni dopo, il primo “intervento umanitario” della serie, con tanto di carabinieri, parà e militari vari, diventati famosi soprattutto per le torture all’elettrodo sui testicoli e alla bottiglia in vagina e, poco dopo, per la loro precipitosa fuga al seguito del consueto, benedetto, ultimo elicottero statunitense. Allora Mogadiscio era divisa in sole due parti, appunto quella del proconsole occidentale Ali Mahdi, in un caos in cui già nuotavano i pesci pilota del pescecane-capo, futuri “signori della guerra”, e quella al Sud, del liberatore della Somalia dalla dittatura e dal neocolonialismo, Mohammed Farah Aidid. Ed era questa parte che per ordine, convivenza, saggezza amministrativa, stava all’altra come Cuneo sta al Bronx Non era questione di clan, come più tardi si sarebbe stereotipicamente calunniata una delle poche nazioni africane a unità etnico-confessionale, giacchè entrambi i personaggi appartenevano allo stesso grande gruppo degli Awiya. Fu grazie all’imbeccata di un italiano che operava con Save the children, l’unica Ong rimasta nel trambusto della rivoluzione – quasi tutte queste conventicole se la danno a gambe appena la greppia si inaridisce e le pallottole cominciano a volare – che venimmo a conoscere l’altra metà della questione somala, quella vera, quella che ovviamente in Italia e in Occidente già si era meritata la definizione di “tribale” ed “estremista”. Più tardi, si sarebbe aggiunto una primizia allora ancora poco consumata:”integralista islamico”, paradigma-alibi di “interventi umanitari” cui non si sottrasse, in mala o buona fede, proprio nessuno degli/delle inviati/e dei media italiani. Compresa la mia giovanissima collega Ilaria Alpi, venuta qualche mese più tardi, che tuttavia si riscattò alla grande quando pretese di rompere l’omertà che legava i giornalisti al malaffare economico-militare italiano, mettendo il naso nel più colossale e criminale traffico di rifiuti tossici e armi che ci sia mai stato tra Nord e Sud del mondo. Come sappiamo – e piangiamo – mal gliene incolse.

Aidid, un generale dell’ esercito somalo, poi epurato da Barre, aveva partecipato alla lotta di liberazione del dopoguerra contro gli italiani mandati e gli inglesi mandanti. Poi era stato l’indiscusso leader delle formazioni che, raccolte nell’interno, avevano assediato e poi conquistato Mogadiscio e la maggioranza degli altri centri somali. Nell’intervista che gli feci per il TG3 mi fece un convincente quadro del suo progetto per una Somalia integralmente sovrana, non allineata, fuori da ogni dipendenza dalle superpotenze, avviata su un cammino di ricostruzione nazionale lungo linee di giustizia sociale. Mi anticipava quello che l’Occidente stava tramando e che sarebbe successo da lì a poco: l’intervento per la riconquista di una posizione strategia assolutamente irrinunciabile per l’imperialismo, a cavallo tra Mar Rosso, Oceano Indiano e Golfo Arabo-Persico e alla porta di un Corno d’Africa aperto sulla regione più ricca di risorse minerarie e di biodiversità di tutto il continente. Fondamentale anche come piattaforma di partenza per ridurre alla ragione i non allineati Eritrea e Sudan. La contesa era dunque tra il fantoccio degli interessi di rapina di stranieri ed élite somala, e l’uomo che aveva guidato una rivoluzione nazionale contro la dittatura e la corruzione generalizzata, concretizzata simbolicamente nelle famigerate cattedrali nel deserto, specialità della cooperazione italiana di quei tempi. Era nell’ordine delle cose democratiche che dovesse prevalere il primo. O chi per lui. Difatti, l’invasione di marines, bersaglieri e professionisti esteri vari, lanciata sotto la sarcastica denominazione di Restore Hope, “ricostruisci la speranza” (1992-1994), che costò al popolo somalo 10.000 morti e finì in un’ingloriosa fuga tipo Saigon, non senza aver versato all’Occidente colonialista il solito tributo di molto sangue altrui e di poco sangue proprio, aveva l’obiettivo di eliminare Aidid e il suo progetto di emancipazione nazionale. Aidid cadde in combattimento contro i briganti “signori della guerra”, nel 1996.

Ilaria Alpi e la nostra Cooperazione: altro “mistero d’Italia”

Dalla scia dei massacri euro-statunitensi, benedetti ancora una volta da quell’Onu che alcuni si ostinano ad invocare come toccasana dell'”unilateralismo” Usa, emersero, soluzione B nel caso che la riconquista militare fosse fallita, i cosiddetti “signori della guerra”. Gente a cui i partenti avevano affidato il compito di far uccidere fra di loro i propri seguaci, così mantenendo il paese, salvo alcune fette a Nord (Somaliland, Puntland), già in mano a fiduciari anglostatunitensi, in uno stato di perenne anarchia, sottosviluppo e frammentazione. Da quella scia non emersero, invece, le testimonianze di Ilaria Alpi e di Miran Khrovatin, suo operatore, come erano state registrate nei diari e blocchi-notes della coraggiosa giornalista. Sparirono nel volo dell’aeronautica militare italiana da Mogadiscio a Roma, mentre le testimonianze oneste furono fatte evaporare nel solito processo del solito “porto delle nebbie” romano. A essere condannato fu solo un povero ragazzo somalo che si era illuso di poter venire a Roma per raccontare a giudici onesti i suoi ricordi di come i due furono assassinati, al di là di tutte le balle dei vari ominicchi e faccendieri che da sempre si muovono in Somalia come vermi nelle carogne. Ma tutti sapevamo, come Pasolini sapeva di Piazza Fontana, che Ilaria aveva bruciato i suoi 26 anni per aver scoperto uno dei massimi crimini di uno Stato della malavita: l’interramento in Somalia (a partire da una cosca spezzina e con transito per un’altra a Trapani) di scorie nucleari e tossiche da tutta Europa, mentre, in cambio, Siad Barre riceveva armamenti e prebende varie. Già a me avevano riferito a Mogadiscio che nell’area desertica dove venne costruita un’inutile autostrada della Cooperazione italiana c’era stata una spaventosa moria di bestiame, almeno 40.000 capi, e di tantissimi pastori e contadini, “probabilmente per le radiazioni e le esalazioni di quanto era stato sepolto sotto l’asfalto”.

Fare bella figura fregando…

Per i lunghi mesi in cui, dopo la caduta del tiranno amico di Craxi, la popolazione somala era in preda alla guerra civile e a ogni genere di drammatica carenza, l’Italia, già potenza coloniale e poi mandataria e, infine, definita “nazione sorella” della Somalia, non mosse un dito. I somali se li portava via a decine la dissenteria, la malaria, la tubercolosi, la fame. Qualche televisione mostrava le fila sconfinate di madri rinsecchite con i bimbetti gonfi al seno, ma lì per tutto quel tempo c’erano rimaste solo gli svizzeri di Save the children e Medicins sans frontieres. Non mi ricordo quante volte dovetti buttare gli occhi per terra in risposta alla disperata domanda “Ma l’Italia, nostra amica, che fa?” Poi, d’un tratto, fece. Sotto i miei occhi e quelli affossati in cupe grotte dei bambini somali. E il fatto merita di essere ricordato: ci sono le carte legali e le testimonianze di Save the children. Un giorno della primavera 1991 un grosso aereo da trasporto atterra a Mogadiscio. Dalla sua pancia escono beni, farmaci, viveri di ogni genere. Il velivolo porta i colori italiani. L’Italia ha finalmente avuto un sussulto di coscienza? Macchè. Quell’aereo è stato noleggiato a Nairobi, nel vicino Kenya, proprio dalla Ong svizzera rimasta a presidiare lo sfacelo. E’ Save the children che lo aveva, a costi altissimi, imbottito di rifornimenti. Ma c’era stato un colpo di mano, poi finito davanti alla magistratura keniota. Colpo di mano all’italiana. Nostri rappresentanti diplomatici, kenioti conniventi, s’erano impadroniti dell’aereo e di tutto il suo contenuto, gli avevano dipinto sopra il tondino tricolore e lo avevano portato a Mogadiscio. Bellissima figura. Raccontai la cosa in diretta nello Speciale del Tg3. I testimoni somali presenti confermarono. Il sottosegretario con delega per l’Africa, Mario Raffaelli (PSI), ebbe uno scatto di nervi e ci accusò di essere una cosca di bugiardi. Mario Raffaelli è tuttora l’uomo dell’Italia per quella regione, ora che a Mogadiscio, dopo la breve tregua di unità nazionale realizzata dalle “Corti Islamiche”, si è insediato un nuovo gruppo di personaggi cari all’Occidente.

Una Nato a stelle e strisce per l’Africa

Il progetto Usa era maturato nel corso della seconda guerra all’Iraq, dato che la bonanza petrolifera che ci si attendeva da quell’ecatombe si era volatilizzata nelle esplosioni degli oleodotti e pozzi ad opera dei mujaheddin iracheni. Era stato ulteriormente accelerato dalla politica antiamericana di Hugo Chavez, che faceva presagire rischi ai rifornimenti petroliferi dal quel paese in evoluzione rivoluzionaria. Il progetto era un nuovo comando di combattimento unificato, il Comando dell’Africa (Africom), con un’area estesa di responsabilità che include l’intero continente, fino allora diviso tra Comando Europeo, Pacifico e Centrale. Questo Comando, dislocato in Africa e che ha come principale forza d’intervento rapido la 173ma Divisione Aerotrasportata, ora destinata all’infelice Vicenza, diventa pienamente operativo nel settembre 2008. Intanto il Pentagono lo sta facendo crescere rapidamente attraverso un’intensa attività militare in Africa, dove ha stipulato accordi militari con Marocco, Algeria, Tunisia, Mauritania, Mali, Nigeria, Senegal, Gibuti e Ciad. In molti di questi paesi gli Usa addestrano forze armate locali, sistematicamente favorendo le élite militari e reprimendo i processi di sviluppo ed emancipazione, provocando guerre e vendendo armi. Nello strategico Corno, nell’ Etiopia del fido vassallo Meles Zenawi, altro brutale dittatore e guerrafondaio, e a Gibuti, gli Usa hanno addirittura dislocato la Task Force 88, unità segreta per “operazioni speciali”. Obiettivo dell’Eucom è di integrare le forze armate di questi paesi in un unico sistema di comando, controllo, comunicazioni e informazioni, denominato C3IS, ossia nella catena di comando del Pentagono. Come in Afghanistan, come con la Nato. Corollario del progetto sono le basi militari, soprattutto in Ghana e in altri paesi dell’Africa Occidentale. Mentre dal Golfo di Guinea proviene il 15% del petrolio importato dagli Usa, la sponda opposta, orientale, è presidiata per il controllo dello scacchiere Oceano Indiano, Golfo, Mar Rosso e, all’interno, dei grandi detentori della ricchezze minerarie africane: Sudan e Congo.

Corti Islamiche: un virgulto schiacciato dagli stivali etiopico-statunitensi

Questo spiega la tempestività e brutalità dell’intervento Usa, con l’uso dell’ascaro etiopico, contro quella normalizzazione della Somalia che nel 2006, grazie all’avvento delle Corti Islamiche, associazione di religiosi relativamente moderati e a forte coscienza nazionalista, dopo 15 anni di caos pianificato aveva visto la sconfitta dei boss mafiosi dei traffici e della guerra endemica. E aveva dato a Mogadiscio e a gran parte della Somalia la possibilità di tornare a respirare, vivere in pace, lavorare, evolversi. Proibendo il traffico del Khat, stupefacente anfetaminico a larghissimo consumo e massima fonte, oltre al commercio delle armi, dei profitti dei capimafia, riattivando un minimo di sviluppo economico con il recupero di infrastrutture fondamentali come aeroporti, porti e vie di comunicazione, e sostenendo allevamento e agricoltura, le Corti, sotto la guida di Sharif Hassan Sheikh Ahmed, avevano aperto il cammino verso il recupero della statualità, dell’unità nazionale, della dignità. Una prospettiva intollerabile per la strategia della riconquista coloniale e della militarizzazione continentale sotto il dominio anglosassone, con quote per europei e israeliani. Alla demonizzazione delle Corti dà la solita mano quella conventicola dei “diritti umani” che, come ai tempi della “salvezza delle donne afgane”, peraltro libere ed emancipate sotto i governi progressisti che precedettero lo scatenamento del fanatismo integralista nel 1979, si straccia le vesti per il divieto della proiezione nei cinema delle partite mondiali di calcio, adottato dalle Corti per impedire che decine di migliaia di cittadini abbandonassero per settimane l’urgente lavoro di ricostruzione e riorganizzazione dello Stato.

Tra Gibuti e Nairobi, nel frattempo, era stato messo in piedi un “governo di transizione”, composto da fuorusciti di lunga data (alimentati dagli Usa) e da alcuni signori della guerra tra i più sanguinari. Un governo privo anche della minima parvenza di legittimazione popolare. Presidenti, primi ministri e parlamento si erano autonominati al classico tavolo della spartizione delle faccende ed erano stati legittimati dalla famosa “comunità internazionale”. Un governo di malavitosi e corrotti. tipo Karzai in Afghanistan e Al Maliki in Iraq. Una banda di ladroni, faccendieri, assassini, capeggiati da Abdallahi Yussuf, foderati di dollari Usa, insediati a Nairobi, incapaci anche solo di affacciarsi sul confine somalo a scanso di venire presi a pedate, data l’assoluta mancanza di consenso popolare. Questo gabinetto di Quisling, per avere un minimo di quella credibilità che la “comunità internazionale” era avida di concedergli, doveva poter sedere a Mogadiscio. Con gli Usa impegnati alla morte in Iraq e Afghanistan e ancora lontani dalla realizzazione dell’Eucom, ci voleva un sicario. Dal 2002 l’Etiopia cristiana fruisce di un programma Usa di aiuti militari, da utilizzare anche contro la ostinatamente renitente Eritrea. Forniti nell’autunno 2006 anche di mezzi di ricognizione aerea e di ascolto satellitare statunitensi, gli ascari etiopici si apprestarono a sbranare la Somalia, preda ambita da secoli e già parzialmente mutilata con la separazione dell’Ogaden. Contro 28.000 militari dotati di armi pesanti, coadiuvati da cacciabombardieri Usa e sospinti dal solito coro bianco-cristiano-democratico contro i “terrorismo di Al Qaida”, manco questa fosse la protagonista della Guerra dei Mondi (e non un reparto dell’intelligence Usa-Mossad), ai liberatori pro tempore della Somalia, muniti di soli Kalachnikov, non rimaneva che sottrarsi all’eccidio e andare in clandestinità. Mogadiscio, bombardata a tappeto, cade alla fine del 2006. Nel febbraio successivo, spartendo feudi e commerci tra i redivivi signori della guerra, il regime di Yussuf può installarsi nella capitale e offrire alla “comunità internazionale” un interlocutore tanto poco legittimo, quanto obbediente.

Una nuova guerra asimmetrica contro l’imperialismo

La storia non finisce qui. Da allora la resistenza si è riorganizzata, non c’è giorno o luogo in cui non colpisce mercenari etiopici e pretoriani di regime, fin nelle loro roccaforti più munite, come, nella primavera 2007, ripetutamente lo stesso palazzo presidenziale del fantoccio Yussuf. Arrivano, sponsorizzate dagli Usa, le forze “di pace” dell’Unione Africana, principalmente prelevate da paesi clienti, come l’Uganda, ma ciò non impedisce il dilagare di una nuova guerra asimmetrica che, come dimostrano Iraq, Libano e Afghanistan, per l’imperialismo e le sue marionette è invincibile. Il Nuovo Medio Oriente di Bush, che comprende in unità geostrategica anche il Corno d’Africa, subisce un’ulteriore crepa. Intanto il governo italiano di centrosinistra offre il suo apporto, non solo con la piena adesione all’operato del Quisling somalo, ma addirittura con una mossa spietata contro l’Eritrea, schieratasi con le istanze di liberazione somale: nel febbraio del 2007 il ministero degli esteri Massimo D’Alema sospende il lavoro umanitario dei medici italiani in Eritrea. Ancora una volta l’Italia usa la cooperazione – responsabile il viceministro Patrizia Sentinelli, del PRC – come strumento di pressione e di ricatto nelle relazioni politiche con altri Stati.

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STATI UNITI, FRANCIA, GERMANIA, ISRAELE, ITALIA, SOSTENUTI DA DESTRE, SINISTRE E PACIFISTI, ALL’ASSALTO DEL SUDAN

Darfur: tragedia umanitaria, o nuovo tentativo di squartare il più grande paese africano? Incominciamo con il presidente Nimeiry

C’ero arrivato in veste di free-lance, squattrinato, ma dotato di compagna inglese avvenente. Eravamo rientrati da una mesata di Eritrea, mille chilometri avanti e indietro insieme al Fronte di Liberazione Eritreo, tra deserti, semideserti, oasi, bassipiani, altipiani, babbuini, gazzelle, cammelli, lontano dalle vie controllate dagli occupanti etiopi. L’ostello della gioventù di Khartum ci sembrò un cinquestelle, lindo e fronzuto com’era e dotato di banchetto di Mus, frappè di banana con ghiaccio che, dopo le arsure eritree placate solo nei pozzi di acqua marrone, insieme a capre e cammelli, rappresentava il nettare di Dioniso. Era il 1970. Ero riuscito a fare amicizia (merito della compagna?), al ministero dell’informazione, con un giovane e vispissimo militante del Baath, allora grande movimento laico e socialista, accanto a quello nasseriano, di emancipazione e unità araba. Conosciutomi parente ideologico, Saleh mi mise sulle tracce del presidente Gaafar Nimeiry, giovane ufficiale nasseriano che aveva preso il potere due anni prima, togliendola a una combriccola di fiduciari degli inglesi, mai rassegnati alla perdita della grande colonia nel 1956. Inseguii, per metà dell’immenso Sudan, colui che allora era uno dei protagonisti dei movimenti di emancipazione in Africa e nel mondo arabo. Lo raggiungemmo, l’inglese, Saleh e io, in un affascinante villaggio pieno di vialetti alberati e casette popolari bianche di recente costruzione, dove era venuto a inaugurare una scuola (istruzione e sanità erano state nazionalizzate e rese gratuite; i padri comboniani, massima potenza del paese dopo il padrone coloniale britannico, non glie lo hanno mai perdonato). Saleh ci manovrò fino a una taverna all’aperto, dove riuscì a collocarci a un tavolo in linea ottica diretta con Nimeiry. Notai che il presidente, circondato da buona parte del suo gabinetto, occhieggiava ripetutamente verso di noi. Perché bianchi? Perché c’era l’inglese venusta? Gli arrivai addosso con la macchina fotografica sul finire della cena e fui accolto con benevolenza. Le foto si allungarono in un’intervista che, animata da un numero imprecisato di Black Label, si protrasse fino alle cinque del mattino, ora del nostro misero crollo. Nimeiry ancora si stava diffondendo sulla storia di un paese che aveva dato ai britannici, con la mitica sconfitta del Generale Gordon, la più umiliante sconfitta della loro storia coloniale, sui grandi progetti di “rivoluzione verde” che avrebbero trasformato un pezzo di Sudan nella Jazira del cotone, e sulle trame dei colonialisti di ritorno, o esordienti – Usa, Gran Bretagna, Israele e Vaticano – per impadronirsi del Sud in odore di gran petrolio.

Fummo promossi da ostellati in ospiti a quattro stelle del Governo e due giorni dopo un aereo zeppo di ufficiali ci portò a Juba, capitale del Sud che, due anni dopo l’indipendenza, i cospiratori esterni, validamente agevolati dal cliente confinante, Uganda, già avevano aizzato alla rivolta, facendo leva su una presunta minoranza cristiana e su un’effettiva minoranza nera e animista. Altissimi Dinka seminudi allestirono una fantasmagorico spettacolo e ci garantirono di trovarsi meglio in una grande nazione multietnica, rispettata ed economicamente agibile, piuttosto che in un frammento di territorio vampirizzato dalle potenze imperialiste e, come dimostrato nel resto dell’Africa dei proconsoli occidentali, rinchiuso in un sottosviluppo perenne. Il Nilo percosse una nostra fragiletta imbarcazione e ci riservò un tète a tète inquietante con la colossale testa di un ippopotamo. Tutto ci apparve tranquillo nonostante che sulla stampa occidentale imperversasse un Sudan’s People Liberation Army (SPLA) a difesa della cristianità contro l’oppressione musulmana del Nord arabo. Due anni dopo, gli accordi di Addis Abeba posero fine, con grave scorno dei mestatori nel torbido, alla “guerra civile”. Che sarebbe ripresa, però, sempre con alle spalle i soliti sponsor, anni dopo, poco prima che il generale Omar Al Bachir nel 1989 togliesse il potere all’aristocratico emissario locale degli inglesi, Al Mahdi.

Finisce l’insurrezione al Sud e parte, in significativa simultaneità, quella del Darfur

All’inizio del 2003, proprio mentre Khartum sta portando a termine negoziati di pace e concordia nazionale con il generale John Garang, capo del SPLA, con impressionante tempismo si scatena una lotta separatista nel Darfur, mezzo milione di chilometri quadrati semidesertici a ovest del paese, abitati da musulmani in parte allevatori nomadi, in parte contadini sedentari. In Sudan c’ero tornato sul finire degli anni’90, stavolta decorosamente per il Tg3 e ci avevo incontrato uno strano esempio di diplomatico italiano. Diversamente da altri che avevo conosciuto, tra erre mosce, cognomi doppi e tripli e cerimonie in feluca, questo ambasciatore era un competente, profondo e appassionato conoscitore del paese e delle sue genti. Era anche perfettamente consapevole, per quanto dipendente di una cancelleria “atlantica”, dei torbidi disegni che le potenze occidentali nutrivano sul gigante africano, già granaio del continente e ora accertato possessore di immense riserve petrolifere, concesse, oh gravissimo insulto, soprattutto allo sfruttamento cinese. Riserve, per l’appunto, la cui presenza aveva fatto innescare il secessionismo del Sud conclusosi poi, nel 2005, con un accordo a perdere accettato da Khartum per evitare guai peggiori (l’Iraq, con cui nelle due guerre del Golfo il Sudan si era dichiarato imperdonabilmente solidale, insegnava) e per preservare una misura di unità nazionale: a un governo autonomo del Sud sarebbe spettata metà degli introiti petroliferi, un referendum sull’indipendenza totale entro sei anni e John Garang vicepresidente nazionale e effettivo padrone della regione meridionale.

Un’altra bufala “umanitaria”: la Cap Anamur

Era l’inizio del luglio 2004 quando al largo di Malta incrocia una grossa nave passeggeri, la “Cap Anamur”, bandiera, società e capitano tedeschi. Segnala di essere colma di disperati profughi del Darfur, pescati chissà dove (non lo si saprà mai) e di essere impedita di approdare a Malta. Chiede di poter entrare a Porto Empedocle, cosa che le autorità italiane, isospettite, non consentono. Si scatena un autentico tsunami di solidarietà umana. La questione del Darfur, di cui si aveva avuto sentore nei primi mesi dell’anno precedente come di una vicenda che vedeva il governo sudanese e le sue milizie massacrare la popolazione, schizzò alla ribalta mondiale e, soprattutto, italiana. Tutto l’universo composito delle Ong, delle associazioni umanitarie, dei diritti umani, i partiti di sinistra con “L’Unità”, “il manifesto” e “Liberazione” a far da diapason, si avventarono mediaticamente e, in molti casi anche fisicamente, sulla nave. Chi portava generi alimentari, chi acqua, chi articoli sanitari, chi macchine fotografiche e taccuini per registrare “negli occhi dei profughi ancora l’orrore dei villaggi bruciati, delle donne stuprate, delle stragi di civili in Darfur”. Il frullato umanitario che ne scaturì venne imbottigliato dal governo Usa, tedesco, francese, italiano, britannico, dalle centrali della propaganda imperialista, dal Vaticano e lanciato addosso all’ONU. Questa, come di consueto, non tardò a denunciare i misfatti di Khartum e quei “400.000 uccisi” che, se fossero stati veri, avrebbero comportato da parte degli uccisori un ritmo giornaliero di ammazzamenti, per soli 12 mesi, superiore a quello che occupanti e squadroni della morte iraniani combinati non riescono a eguagliare nella mattanza irachena di diversi anni, con tutti i loro bombardieri, carri armati e trapani foracranio. Curiosamente, dopo altri tre anni di supposti massacri, tali da aver dato la stura alla tradizionale accusa Onu e Usa di “genocidio”, prodromo di ogni invasione, le vittime continuavano a essere quelle 400mila e i profughi sempre due milioni, di cui un decimo nel contiguo Ciad.

Si costruì la solita macchina da intossicazione a fini colonialisti. Il Sudan, riottoso all’obbedienza nei confronti dell’Occidente ansioso di riconquista, andava spezzettato come tutti gli altri paesi arabi di rilievo petrolifero, minerario e strategico. Era il progetto israeliano fin dal 1982. Così si prese a costruire una storia raccapricciante, sul modello Sarajevo assediata, o 11 settembre, o armi di distruzione di massa: il “regime islamico del dittatore Al Bashir” stava sterminando le popolazioni africane del Darfur con il suo esercito, i suoi bombardieri e le sue feroci milizie denominate “Janjawid”. Coloro che si ribellavano – il Movimento di Liberazione del Sudan, MLS, e il Movimento per la Giustizia e l’Uguaglianza, MJE – magari erano pure un po’ secessionisi, ma pur sempre difensori del Darfur e vittime. Di questo paradigma era portatrice la Cap Anamur. E poi, viva l’autodeterminazione, no?

La desertificazione mimetizzata da rivolta e repressione

L’ambasciatore di cui sopra mi portò nel Darfur a constatare, ben cinque anni prima dello scoppio dell’insurrezione separatista, lo spaventoso processo di desertificazione in atto, determinato, come tutti i catastrofici mutamenti climatici, dal demenziale modello di sviluppo capitalistico. Incrociammo colonne di abitanti della regione in fuga verso il centro e verso quelle risorse idriche che in Darfur si stavano esaurendo. Gente a piedi, su somari, cammelli, con fagotti di povere cose in spalla, che, incontrando il nostro fuoristrada, si fermavano addirittura a invocare qualche goccio d’acqua. Erano musulmani arabi e musulmani africani, senza distinzione. Gli uni, nomadi allevatori che avevano dovuto abbandonare il secolare percorso di pozzo in pozzo; gli altri, contadini sedentari cui era venuta a mancare la possibilità di irrigare anche quel poco che serviva alla sopravvivenza. Furono costoro a ingrossare gli accampamenti alla periferia di Khartum, nei quali il governo già ospitava, con oneri finanziari pesanti e inadeguatamente sostenuti dalle agenzie internazionali, un milione di profughi africani dal Sud che non ne avevano voluto sapere di restare alla mercè delle bande del SPLA di John Garang, spezzetate in mille frazioni, che si accanivano l’una sull’altra per il controllo di territorio e flusso petrolifero. Qualsiasi conoscitore della regione si rendeva conto che il conflitto era scoppiato tra coloro che erano rimasti indietro, alla mercè della siccità. Agricoltori organizzati nelle formazioni secessioniste, con ampio supporto in armi, quattrini e propaganda da parte dei vampiri fuori dalla porta (Usa, Francia, Germania, Israele e Regno Unito in testa), contro nomadi organizzatisi nelle milizie di autodifesa Janjawid, fedeli all’unità nazionale. Un conflitto tra indigeni per quanto rimaneva di acqua, un conflitto innescato dai soliti noti per creare il pretesto dell’intervento neocoloniale in Sudan. E la Cap Anamur? Si scoprì che i trenta “profughi disperati del Darfur”, con negli occhi ancora “l’orrore delle stragi”, non erano sudanesi, non erano mai stati nel Darfur, non erano affatto allo stremo ed erano tutti quanti originari di altri paesi africani, soprattutto del Ghana. Non se ne è saputo più nulla. Ma chi ne aveva voluto sapere di più – e non si tratta del “manifesto” o delle Ong, o dei padri comboniani che si stracciavano le vesti sul Darfur – non aveva tardato a scoprire un’altro elemento rivelatore: La Cap Anamur era il vascello di una società tedesca intimamente legata a due organizzazioni di destra, note per il loro ruolo destabilizzatore di paesi socialisti, o comunque nel mirino dell’imperialismo: la Fondazione Konrad Adenauer e la Gesellschaft fuer Bedrohte Voelker (Società per i popoli minacciati). Aveva già svolto egregiamente due compiti: quello di scorazzare nelle acque vietnamite, negli anni ’70, alla pesca dei boat people, quei profughi vietnamiti che gli Usa avevano sollecitato alla fuga con la promessa del paradiso capitalista. E quello di imbarcare, al largo della Jugoslavia in procinto di essere squartata, i profughi albanesi del Kosovo, “in fuga dagli spiedi con cui i serbi di Milosevic arrostivano donne e bambini”. In entrambi i casi un bel contributo alla causa.

Apripista coloniali con stelle e striscie, stella di Davide, croce, falce e martello

Tutto questo, per quanto attingibile da cento siti internet, non ha minimamente scosso la cieca fiducia degli umanitaristi e diritticivilisti nel verbo di Washington e delle altre centrali della riconquista coloniale. Tanto che il successore di Bertinotti alla guida del PRC, Franco Giordano, non si peritò di auspicare, in linea con l’ONU e le sue sanzioni, dopo il Libano anche un intervento in Darfur. Di peggio, nei tempi del recente parlamento, non c’era stato che l’agghiacciante appoggio dell’ex-pacifista Lidia Menapace, sempre PRC, alla guerra all’Afghanistan sotto forma di “riduzione del danno”. C’è da stupirsi per come tanta sinistra invecchi così male. L’anziana signora non si è poi privata della licenza di insultare, dalla prima pagina di “Liberazione”, un ostinatamente antiguerra Piero Bernocchi, portavoce dei Cobas, in termini che facevano pensare a vergogna sublimata in inguria. Pare che al militarismo dei pacifinti non ci sia limite.

Da allora è una escalation ininterrotta di “crimini contro l’umanità”, sanzioni economiche e diplomatiche, sollecitazioni all’intervento militare (già collaudato dai francesi nel Ciad, a difesa bombarola del loro proconsole Idris Déby Itno, incalzato da una rivolta di popolo) e una corsa spasmodica tra potenze occidentali e cristiani di varia denominazione a chi taglierà per primo, e con più potenziale d’egemonia, il nastro della demolizione del Sudan e della secessione del Darfur. Tutto questo, nonostante le ripetute dimostrazioni di buona volontà di Khartum che riesce a convincere i separatisti – oltre a tutto ferocemente ostili gli uni agli altri e responsabili della maggior parte degli eccidi – a raccogliersi intorno a un tavolo e a firmare un accordo di pace. L’accordo è firmato nel 2005 dal maggiore dei fronti avversari, il MLS, evidentemente meno ligio al telecomando occidentale, ma rifiutato dal MJE, che però poi si spezzetta in tre tronconi, di varia obbedienza estera e di natura affatto simile all’UCK di kosovara memoria. A fine 2006, il Sudan accetta addirittura una forza di interposizione dell’Unione Africana (UA), cui però l’Occidente nega fondi e mezzi per condurre in porto un’azione efficace di controllo e pacificazione, mentre insiste, soprattutto con Berlino, Washington e Tel Aviv, per una molto più robusta forza ONU che, fino agli inizi del 2007, il Sudan respinge come violazione della propria sovranità. Entra in scena anche lo squalificato Tribunale dell’Aja, attivato dalle consuete sollecitazioni, con l’incriminazione dei primi due “criminali di guerra”, ovviamente di parte governativa. Come se i tribunali-fantoccio che hanno processato e fatto morire Slobodan Milosevic, o Saddam Hussein, non avessero insegnato niente, politici e giornalisti “di sinistra” si accodano, in particolare i cattolici di “Lettera 22”, vicini ai comboniani e cui “il manifesto” ha appaltato buona parte della sua politica sul Terzo Mondo. I retroscena geostrategici, geoeconomici e geopolitici, ampiamenti rivelati dalla guerra globale preventiva e permanente, continuano a insegnare nulla a chi non vuole imparare. Non manca a questo punto che un pronunciamento in favore di Khartum da parte dei picari imperiali, Osama o Al Zawahiri. Peccato che la formula d’uso anche stavolta finisca con l’essere minata dalle intemperanze delle soldataglie Onu. E’ addirittura l’imperiale Daily Telegraph di Londra a dover denunciare stupri e uccisioni di ragazze e ragazzi in Darfur. Non da parte dei Janjawid, bensì dei caschi blù, polizia militare e personale civile dell’Unmis (Missione Onu in Sudan). Come in Bosnia, come in Kosovo, come in Afghanistan, come a Haiti. Il che non impedisce al neosegretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, fattosi notare, appena insediato, per non aver avuto nulla da ridire sulla scellerata impiccagione di Saddam, di proclamare :”La crisi in Darfur è in primo piano nella mia agenda”. Disse le stesse cose Kofi Annan, eroe dell’autonomia Onu, quando volle agevolare lo sbranamento di Somalia, Jugoslavia e Afghanistan. Chissà perché nessuno ventila un qualche soccorso alle popolazioni oppresse e discriminate di Ponte di Legno e della Val Brembana e al loro sacrosanto diritto alla secessione. Che hanno i ribelli del Darfur che i seguaci di Calderoli non hanno?

Fulvio Grimaldi
Mondocane Fuorilinea
20.03.2007

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