SADDAM HUSSEIN UOMO DEGLI AMERICANI

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DI VALERIA POLETTI
Uruknet

Il mito contro la storia, la propaganda contro l’informazione

Quando parliamo di manipolazione dell’informazione intendiamo in genere dire che le notizie che riguardano l’attualità sono occultate o distorte. Se parliamo di falsi di stampa ci riferiamo comunque a montature mediatiche che costruiscono la notizia. Con questi mezzi, nei decenni appena trascorsi, si è operato per costruire il consenso.

Oggi ci troviamo soggetti ad un sistema di informazione che preordinatamente e strategicamente falsifica la storia prima ancora della notizia. Il suo scopo è quello, una volta demandato alla Chiesa, di instillare nelle menti individuali e nella coscienza collettiva un modello interpretativo ideologico basato su stereotipi, un modello che sia in grado non solo di generare consenso ma di produrre ideologia. Come un cancro riproduce cellule malate.Uno di questi cancri ideologici inoculati nel corpo vivo dell’occidentale medio dalla malainformazione è lo stereotipo del pregiudizio anti-arabo che, mentre nega legittimità alle rappresentanze laiche e progressiste espresse dai processi rivoluzionari nel mondo arabo, accredita dirigenze settarie e reazionarie quali autentiche rappresentanti di una “tradizione culturale”, di un “mondo musulmano”.

Di fronte all’evidenza del genocidio perpetrato in Iraq, insieme alle truppe di occupazione anglo-italo-americane, dalle milizie sciite filo-iraniane dello SCIRI (Brigate badr) e del Mahdy Army, quasi l’intero pianeta “anti war” ha rifiutato di difendere la dignità del presidente Saddam Hussein, rappresentante legittimo dello Stato iracheno e della Resistenza, di fronte al patibolo, per avallare quale leader resistente uno dei peggiori e più criminali esponenti del settarismo sciita quale Muqtada al-Sadr, e cioè uno dei principali sostenitori del governo fantoccio di Maliki, e responsabile della pulizia etnica dei sunniti iracheni e del massacro sistematico di baathisti, laici, nazionalisti (sunniti e sciiti) e di chiunque sia sospettato di simpatizzare per la resistenza.

Ed è dai più conosciuti esponenti del “movimento” che abbiamo sentito ripetere con insistenza una leggenda che viene da lontano.

L’UOMO DELLA CIA DENUNCIA “L’UOMO DELLA CIA”: LA LEGGENDA DI “SADDAM HUSSEIN UOMO DEGLI AMERICANI”.

Più che da altre asserzioni, diffamanti quanto false, riguardo alla figura di Saddam Hussein, l’immaginario collettivo della “sinistra” è stato suggestionato dalla leggenda, testardamente ripetuta dai mezzi di informazione nonostante risultasse contraria ad ogni logica analisi, di un presidente portato al potere dalla CIA e sostenuto dagli americani. Da dove viene questa accusa che da più di un decennio acceca l’opinione di sinistra e le impedisce di osservare la realtà storica di un Paese costruitosi dentro un processo rivoluzionario, anticolonialista e antimperialista, di cui Saddam è stato uno dei protagonisti di maggiore rilievo?

LA CALUNNIA, ARMA DI DISTRUZIONE DEL MOVIMENTO CONTRO LA GUERRA

È voce largamente accreditata anche dalla stampa di sinistra che il colpo di Stato del febbraio 1963 sia stato favorito dalla CIA americana in complicità con esponenti del partito Baath all’epoca esuli in Egitto e transitati in Libano. Questa interpretazione degli avvenimenti, funzionale a gettare discredito soprattutto sul governo baathista di Saddam Hussein, presente al Cairo fino ai giorni immediatamente seguenti agli eventi dell’8 febbraio, è, quanto meno, contestabile. È re Hussein di Giordania, fedele alleato della monarchia inglese prima, degli Stati Uniti poi e assoldato dalla CIA già dagli anni ’50, a parlare di un accordo della CIA con i baathisti fuoriusciti – contattati in Kuwait – in una intervista apparsa su al-Ahram del 27 settembre 1963. Re Hussein, il “reuccio” come verrà chiamato con affettuoso disprezzo dagli israeliani che contavano sulla sua manovrabilità, il 15 aprile 1957 aveva estromesso dal governo giordano i nazionalisti legati al Baath, guidati dal ministro degli esteri Ramawie, e proclamato la legge marziale. L’intento evidente era quello di spostare l’orientamento della politica estera in senso più marcatamente filo-occidentale (ricordiamo che durante la seconda Guerra mondiale la Transgiordania era stata l’unico Paese mediorientale ad allinearsi già nell’ottobre del 1939 alla politica inglese dichiarando guerra alla Germania). Il 16 aprile 1957 Ugo Stille, corrispondente da Washington del Corriere della Sera, scrive: “Washington non nasconde la sua soddisfazione perché re Hussein ha vinto ‘il primo round’ (…) nel duello contro le forze anti-occidentali”. Ma già il 24 aprile il nuovo governo è costretto a dimettersi, pressato da imponenti manifestazioni di piazza: il “reuccio “accusa il “comunismo internazionale” di fomentare i disordini. Gli fa coro il segretario di Stato USA John Foster Dulles che afferma che “l’America considera vitali l’indipendenza e l’integrità della Giordania”: il giorno successivo dai porti di Marsiglia, Livorno e Napoli salpano unità della VIª Flotta dirette verso le coste mediorientali.
È del febbraio 1958 il piano perseguito dalla diplomazia inglese di unire la Giordania, l’Iraq (allora governato dalla monarchia filo-britannica di re Faysal), e successivamente il Kuwait in una “federazione araba” – sotto protezione militare anglo-americana – che costituisse il bastione dell’influenza occidentale in Medioriente e ostacolasse l’avanzare del nazionalismo arabo repubblicano. La rivoluzione irachena del 14 luglio di quell’anno mandava in fumo il progetto. A difesa della “stabilità” nell’area, già il 15 lugliio una flotta di una cinquantina di navi americane prendeva posizione davanti alle coste libanesi e 10. marines occupavano Beirut, Tripoli e Sidone, mentre un contingente di militari inglesi venivano paracadutati in Giordania per salvare re Hussein dal pericolo di una rivoluzione repubblicana e da una probabile sollevazione dei Palestinesi che, allora, costituivano la maggioranza della popolazione giordana. (1) Bisogna ricordare che nel programma del partito Baath figurava l’impegno per l’unificazione di Siria, Iraq, Palestina, Libano e Giordania in un’unica nazione.

Dopo che il Baath aveva preso il potere in Iraq e in Siria (febbraio e marzo), nell’aprile 1963 un fallito complotto baathista tentava di rovesciare il regime giordano. (2)

Questi avvenimenti rendono chiaro chi e perché dipendeva dalla protezione americana e chi, invece, era considerato “nemico” dagli Stati Uniti. Motivo di ostilità della monarchia giordana nei confronti del Baath era anche l’appoggio concesso da questo ai Palestinesi che venivano considerati dal re come una grave minaccia.

La “bugia” del reuccio tendeva dunque a screditare il Partito Baath e le sue dirigenze agli occhi delle masse inclini a simpatizzare con i nazionalisti arabi, a dividere il movimento di opposizione al suo governo e a prevenire il favore popolare nei confronti del nuovo regime iracheno. Sebbene infatti gli esponenti baathisti in Iraq siano stati esclusi dalla direzione dello Stato dopo pochi mesi e perseguitati dal nuovo governo Aref esattamente quanto i comunisti che si erano schierati in difesa del deposto presidente Quassem, l’appoggio del Baath al colpo di stato era stato determinante. Saddam Hussein, rientrato in Iraq pochi giorni dopo il golpe, entrava in clandestinità dopo il colpo di mano di Aref e veniva arrestato l’anno seguente. Verrà eletto membro della direzione del partito mentre si trova ancora in carcere, evaderà nel 1966 e assumerà un ruolo via via di maggiore rilievo nella dirigenza di quell’ala del partito che sarà protagonista del colpo di Stato incruento del luglio 1968.

Quanto al presunto sostegno americano al golpe di febbraio, inoltre, sembra ragionevole tenere conto del fatto che, mentre il Partito Comunista Iracheno si opponeva alla nazionalizzazione del petrolio almeno nei tempi brevi, questa era uno degli scopi principali dichiarati del Baath: sarebbe stato dunque irresponsabile da parte della potenza madre di 5 delle “7 sorelle” (le maggiori compagnie petrolifere dell’epoca) appoggiare il colpo di Stato baathista in Iraq. Gli americani erano certamente avversi ai comunisti e a Qassem, ma in quanto leader di una coalizione rivoluzionaria più che per le sue posizioni personali. Sembra, infine, incongruente la ricostruzione dei fatti – fornita sempre da re Hussein – che pretende che esuli iracheni abbiano aiutato la CIA a compilare liste di comunisti da eliminare, liste che sarebbero poi state comunicate via radio dal Kuwait ad agenti baathisti incaricati della “caccia al comunista”.

La “bugia” di re Hussein, riportata come “ipotesi probabile” da Hanna Batatu, studioso statunitense di origine palestinese, e divulgata come verità indiscussa dai movimenti comunisti, è tornata a confondere le menti della sinistra mondiale negli ultimi anni grazie ad una martellante campagna mediatica: quale leggenda poteva alienare le simpatie di una opinione disinistra, già debole e maleinformata, verso la Resistenza nazionale irachena guidata dal Baath e predisposta dal governo di Saddam Hussein meglio di quella intitolata “Saddam uomo della CIA”?

GLI STATI UNITI HANNO VENDUTO ARMI ALL’IRAQ DI SADDAM HUSSEIN?

Scontata la considerazione che il mercato delle armi è, di fatto, un mercato come tutti gli altri, che le armi si vendono e si comprano sul libero mercato soggetto solo a norme restrittive contingenti (sanzioni ONU e accordi internazionali, per esempio). Questo commercio è considerato “legale” e si effettua in gran parte tramite accordi tra governi. Il trasferimento di forniture militari americane all’Iraq durante la guerra del 1980-’88 con l’Iran ha seguito questa strada. Traffici “illegali” e “coperti” sono stati invece quelli realizzati a favore dell’Iran: il più eclatante, rivelato nel 1986 dall’allora presidente del parlamento iraniano A. H. Rafsanjani, è quello che va sotto il nome di scandalo “Irangate”. Contravvenendo al veto del Congresso statunitense – che in seguito agli avvenimenti che il 4 novembre 1979 avevano portato al sequestro del personale diplomatico dell’ambasciata americana di Teheran da parte dei pasdaran iraniani aveva vietato le forniture di armi all’Iran di Khomeini – la CIA, affiancata dal servizio segreto israeliano, si occupava del trasferimento alla repubblica teocratica di un consistente carico di armamenti sofisticati (tra cui 2008 missili TOW), oltre ad almeno 7 milioni di dollari tramite due banche controllate dalla famiglia Rockefeller. Era il gennaio 1981, la guerra era in pieno svolgimento e l’Iraq poteva contare, quanto ad armamenti, sul sostegno dell’Unione Sovietica. È evidente dunque quali fossero all’epoca gli orientamenti statunitensi, così come è evidente che il rapido rovesciamento delle sorti del conflitto a favore dell’Iran dipendesse proprio dal concreto appoggio americano.

Ma gli intendimenti a lungo termine dell’Amministrazione USA erano altri. Nel 1984 Henry Kissinger, esprimendo l’opinione dell’Amministrazione in carica, dichiarava che “il maggior interesse degli Stati Uniti nella guerra è che entrambi i Paesi la perdano”. (3) Non si trattava di stupido cinismo: era l’esposizione, in termini sbrigativi, della teoria del doppio contenimento che permette di arginare l’espansione e la crescita di due Paesi, nemici degli interessi occidentali, opponendoli l’uno all’altro e intrappolandoli in un conflitto logorante per entrambi.

Gli Stati Uniti interverranno infatti con la concessione di forniture di armi all’Iraq solo dopo che, rompendo il trattato di amicizia sottoscritto nel 1972, l’URSS aveva sospeso i rifornimenti militari a quel Paese. Ma in particolare lo scopo della nuova “disponibilità” americana alla vendita di armi al governo iracheno era quello di impedire che l’Iraq sviluppasse una propria tecnologia di produzione militare come, a partire dalla fine del 1983, aveva iniziato a fare. L’Iraq infatti non si stava solo rivolgendo al mercato privato internazionale, ma cercava di ridurre il divario con Israele mettendo a punto i missili tattici al-Hussein e al-Abbas, il carro armato Assad Babyl e il primo razzo con capacità spaziali realizzato da un Paese arabo, il Saad-16 collaudato nel 1986.

È in questo contesto che si inseriscono le visite a Baghdad di Donald Rumsfield, inviato speciale di Ronald Regan in Medioriente. È del dicembre 1983 la famosa fotografia che ritrae l’emissario del governo americano che stringe la mano a Saddam Hussein, immagine ampiamente sfruttata dai media, anche “disinistra”, quale prova di una inequivocabile collusione tra il presidente iracheno e il governo americano: si può solo osservare, in proposito, che difficilmente si trattano gli affari su un ring di pugilato. Tra il 1985 e il 1990 gli Stati Uniti approvavano effettivamente 711 licenze di esportazioni in Iraq per un valore di 1,5 miliardi di dollari e, tra queste, la fornitura di 60 elicotteri MD-500 Defender della Hughes e 10 della Bell per l’irrigazione agricola (4), imputate, queste ultime, di essere atte alla aspersione di gas e quindi adatte alla guerra chimica (e questo “dimostrerebbe” il sostegno statunitense a Saddam!).

È anche però necessario ricordare che un altro affare stava a cuore tanto all’Amministrazione USA che al governo di Israele, quello della realizzazione dell’oleodotto che avrebbe portato il petrolio da Kirkuk (Kurdistan iracheno) ad Aqaba (Giordania, vicino al porto israeliano di Eliat). Benché l’economia irachena fosse stata pesantemente danneggiata dalla chiusura della pipeline Kirkuk-Banias operata nel 1982 dalla Siria per favorire l’Iran nel conflitto, il rifiuto del governo Hussein fu netto. La missione Rumsfield in Iraq si concludeva dunque in un sostanziale fallimento grazie proprio a quello che i media vogliono oggi farci passare per “ex-amico degli americani”.

“AMICO DEGLI AMERICANI” E NEMICO DI ISRAELE?

Fino dal 1967, dopo la sconfitta araba nella Guerra dei Sei Giorni, i partiti Baath dei vari Paesi si spendevano attivamente nel sostegno economico, militante e militare ai feddahjeen libanesi, che erano il nucleo della resistenza palestinese. E nel 1970 era stato proprio il ramo più intransigente del Baath iracheno, quello guidato da Saddam Hussein, a promuovere il coinvolgimento dell’esercito del proprio Paese in soccorso alla Resistenza palestinese durante il Settembre Nero scatenato da Hussein di Giordania. (5)

Quando, alla fine della Guerra del Kippur tra Israele e i Paesi Arabi, il presidente egiziano Sadat firmava due trattati di pace, nel 1977 il Fronte del Rifiuto (costituito da Iraq, Siria, Libia, Algeria, Yemen del Sud assieme all’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina) si opponeva ai negoziati con Israele – che si sarebbero conclusi poco tempo dopo con il trattato di Camp David tra Israele ed Egitto – e rompeva le relazioni diplomatiche con quest’ultimo (1977-1979). L’irriducibile Iraq, che non aveva (e fino che è stato in vita come Stato sovrano, non ha) mai firmato alcun trattato di pace con lo Stato sionista e che, assieme alla Siria, ammodernava i suoi arsenali militari con l’aiuto sovietico, era dunque un nemico naturale per Israele, tanto che quest’ultimo nel 1981 bombardava il reattore nucleare iracheno di Osiraq.

Come il ministro israeliano della Difesa Ariel Sharon dichiarava al Washinghton Post nel maggio 1982 per giustificare la vendita di armi a Teheran, “l’Iraq è nemico di Israele e noi speriamo che le nostre relazioni con l’Iran [di Khomeini, ndr] rimarranno quali sono state in passato”. Quattro mesi più tardi, durante una conferenza stampa a Parigi, egli ribadiva che “Israele ha un interesse vitale nella prosecuzione della guerra nel Golfo Persico e nella vittoria dell’Iran”. Questo non era solo il punto di vista di Sharon, ma anche del primo ministro Itzhak Shamir, esponente del Likud, e del laburista Shimon Perez. (6)

Durante tutto il periodo della presidenza di Saddam Hussein, come hanno pubblicato e pubblicano tutte le fonti giornalistiche, l’Iraq ha sostenuto la Resistenza palestinese, ha indennizzato le famiglie delle vittime delle aggressioni israeliane e dei martiri, ha accolto profughi ed immigrati palestinesi riservando loro tutti i diritti civili di cui godevano i cittadini iracheni.

In quanto unica potenza regionale militarmente forte e decisamente schierata a difesa dei diritti dei Palestinesi, oltre che fautrice dell’unità araba, l’Iraq rappresentava per Israele una costante minaccia: poteva contemporaneamente godere del sostegno statunitense?

Bastano queste poche note per sfatare un mito così ampiamente diffuso come quello di “Saddam uomo degli americani”? Evidentemente no, bisognerebbe riuscire a far circolare i risultati di analisi ben più approfondite che, per chi volesse cercarle, sono comunque disponibili. Ma le semplici osservazioni cui accenniamo dovrebbero almeno sollevare qualche dubbio sia sulla attendibilità dei contenuti dell’informazione, compresa quella che si autodefinisce alternativa, sia e soprattutto sull’indipendenza delle “fonti” e anche sulla loro integrità. Chi ha suonato il flauto magico della menzogna mediatica a calunnia e diffamazione di un rappresentante del movimento di emancipazione arabo defraudando la Resistenza irachena di quel sostegno popolare internazionale che le sarebbe stato dovuto, suona oggi lo stesso flauto a glorificare dirigenze controrivoluzionarie e criminali che, nascoste dietro un generico quanto ambiguo antiamericanismo, perseguono obiettivi di restaurazione reazionaria a suon di stragi settarie nel proprio Paese e spalleggiano di fatto i disegni di annichilimento della sovranità delle popolazioni arabe sulle proprie risorse e sulle proprie scelte di sviluppo.

Note

1) L’11 novembre il quotidiano arabo al-Ahram, dando conto della brutale repressione lanciata dal regime giordano contro i profughi palestinesi in rivolta, scrive che l’esercito giordano rifiuta di sparare contro i manifestanti e che in Siria grandi manifestazioni contro Hussein, considerato traditore del suo Paese, del nazionalismo arabo e dell’islam, fanno seguito allo sciopero degli studenti.

2) cfr. Israelis reply, n°8, dicembre 1969, bollettino pubblicato dagli studenti israeliani del Middle East Affairs dell’Università di Tel Aviv.

3) cfr. Michael Renney, The way to take over the world, in World Watch, rivista del Worldwatch Institute, gennaio-febbraio 2003

4) cfr. Sergio Finardi su il Manifesto del 23 dicembre 2003

5) il generale Takriti, che aveva operato perché le truppe irachene schierate al confine con la Giordania non venissero coinvolte nei combattimenti, fu destituito.

6) Johnathan Marshall, Peter Dale e Jane Hunter, The Iran Contra Connection – South End Press, Londra, 1987

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