PERCHE' L'ITALIA NON CE LA FARA'

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DI ROBERTO ORSI

vincitorievinti.com


Tre articoli firmati da autorevoli commentatori come Ambrose Evans-Pritchard, Roger Bootle (entrambi del Telegraph) e Wolfgang Münchau (Financial Times) sono recentemente apparsi sulla stampa finanziaria: tema comune, la situazione economica dell’Italia e l’instabilità del suo debito pubblico. Le argomentazioni e le parole usate in questi contributi sono da soppesare con cura, perché potrebbero essere il segnale di un graduale riposizionamento degli operatori di mercato e dei policy maker nei confronti del debito sovrano italiano e delle conseguenze della sua attuale traiettoria per l’Eurozona – e non solo.

Si tratta di un cambio di prospettiva che implica una prognosi tutt’altro che favorevole sulle possibilità di “guarigione” del nostro Paese. Nei tre scritti si solleva una domanda fondamentale: cosa succederebbe se l’economia italiana continuasse a ristagnare (o a contrarsi) anche nel 2015-16? Bootle osserva che “l’Italia è molto vicina a quella situazione che gli economisti chiamano ‘trappola del debito’, quando cioè l’indice di indebitamento comincia a crescere in modo esponenziale. Per sfuggire a questa trappola ci sono due possibilità: svalutare la moneta o fare default. Non disponendo di una valuta nazionale, l’Italia non può controllare la prima opzione: quindi, se non ci saranno cambiamenti realmente significativi in tempi brevi, il default sovrano diverrà lo scenario più probabile”.

Sul piano tecnico è obiettivamente difficile stabilire, per qualsiasi paese, una soglia massima oltre la quale il default diventa “matematicamente inevitabile”. Basti pensare al Giappone che, nonostante un rapporto debito/Pil al 230%, è ancora considerato un creditore solvibile. Nel caso dell’Italia, la mancanza di una moneta nazionale complica però le cose. Evans ritiene comunque che “il debito pubblico italiano raggiungerà un livello pericoloso il prossimo anno”. Pericoloso al punto che “potrebbe essere superato il punto di non ritorno”. L’articolo di Münchau è il più esplicito e allarmistico: “La posizione economica dell’Italia è insostenibile e sfocerà in un default a meno che non vi sia un’immediata e duratura inversione di tendenza sul piano economico”. E un default, naturalmente, “comprometterebbe il futuro del paese nell’Eurozona e l’esistenza stessa della moneta unica”.

I tre pezzi potrebbero essere considerati come (l’inizio di) un’offensiva mediatica indirizzata alla Banca Centrale Europea per forzarla ad adottare politiche monetarie espansive simili a quelle della FED, della Bank of Japan e della Bank of England – un intervento che tutti e tre gli autori auspicano insieme alla realizzazione di ampie riforme politico-economiche. Queste osservazioni vanno inoltre lette tenendo a mente che le previsioni di crescita dell’economia italiana dal 2011 a oggi sono state sistematicamente smentite. Quanto al 2015, il rallentamento dell’Eurozona e le correzioni attese sui mercati finanziari internazionali rendono ben poco verosimili le stime di aumento del Pil formulate dal nostro governo.

In un quadro del genere, molti commentatori economici sono (finalmente!) giunti alla conclusione che la crisi in corso è strutturale, e che si può ritornare a crescere solo facendo le “riforme” – un termine che negli ultimi tre anni è divenuto, specie con Renzi, un vero e proprio mantra della politica italiana. Il dibattito in corso, tuttavia, potrebbe suonare imbarazzante per chi vive in un paese europeo meglio funzionante del nostro. La natura e la portata delle riforme proposte (Senato, pubblica amministrazione, giustizia, scuola, legge elettorale ecc.) dimostrano infatti che l’Italia manca delle fondamenta, di tutto ciò di cui un normale paese occidentale dovrebbe essere dotato da almeno sessant’anni. Più che di ricostruzione, si dovrebbe parlare di edificazione tout court. Ma il problema è che tutto questo discutere di riforme è una pura e semplice illusione.

Riforme e tempistica Sebbene sia da lungo tempo noto che qualcosa deve (doveva) essere cambiato nell’architettura dell’economia italiana (e, in particolare, della finanza pubblica), nei sei anni successivi al crollo di Lehman Brothers è stata portata a termine una sola riformastrutturale, quella – assai controversa – delle pensioni attuata dal governo Monti. Se questi sono i tempi medi della nostra capacità riformatrice, aspettarsi che nel breve-medio termine possano vedere la luce così tante riforme di ampia portata è irragionevole. E non si tratta soltanto della proverbiale macchinosità dei nostri processi decisionali: l’ordine costituzionale vigente (e la cultura politica sottesa) combina un potere esecutivo debole a un potere legislativo frammentato, con una pletora di autorità e poteri di veto incrociati che finiscono per paralizzare il sistema. L’odierno contesto politico-istituzionale è dominato da rappresentanti di diverse forze sociali e politiche esclusivamente interessate a preservare privilegi acquisiti e rendite di posizione e, quindi, propense a sostenere l’immobilismo. Le poche, restanti forze produttive (che qualche interesse a cambiare le cose lo avrebbero) non hanno sostanzialmente voce in capitolo. Questa ubiqua frammentazione, rintracciabile persino all’interno dei movimenti politici più piccoli, fa sì che qualsiasi iniziativa si riduca a niente più di un palliativo.

L’incertezza dei risultati Poniamoci ora una domanda: se anche le riforme annunciate fossero realizzate nei tempi previsti, il loro impatto sarebbe sufficientemente forte (e rapido) da evitare il collasso del sistema-paese? In passato, l’esistenza di economie relativamente indipendenti rendeva possibile un buon margine di controllo del ciclo consumo-produzione-investimenti-occupazione. Per quanto inefficiente e problematico, quel modello dava ai governi la possibilità di guidare in una certa misura l’economia nazionale (elemento chiave delle tesi keynesiane). In un sistema economico globalizzato, nel quale per definizione la parte più consistente del ciclo economico si svolge al di fuori del controllo politico del singolo stato, le ramificazioni di qualsiasi decisione adottata da un determinato paese interessano un sistema troppo complesso per consentire di formulare precise (o anche solo approssimative) stime sulla natura, l’entità e la localizzazione dei suoi effetti reali. Paradossalmente, la manovra degli 80 euro di Renzi potrebbe aver finito per stimolare la produzione di beni fabbricati in Guangdong più di qualsiasi attività economica italiana. Nonostante ciò, un elemento ricorrente del dibattito sulle riforme è proprio l’incapacità di capire quanto sia critica la posizione dell’Italia nell’economia globale. I nostri governanti possono anche continuare a raccontarci che “l’Italia è un grande paese con risorse straordinarie”, ma sfortunatamente si tratta di una narrazione del tutto anacronistica.

L’Italia odierna non è quella degli anni Novanta: è cambiata drasticamente, e non in meglio. Fatto ancora più rilevante, il mondo di oggi non è più quello di vent’anni fa. I cambiamenti radicali sono stati almeno due: la prima ondata della globalizzazione fino al 2007, e quello che è successo dopo la crisi esplosa negli Stati Uniti nel 2008. In Italia questo contesto sfugge, e si discute a vuoto su questioni quali l’abolizione dell’articolo 18 senza considerarne l’ormai sostanziale irrilevanza in un mondo lavorativo dominato dai contratti “flessibili” e dalla disoccupazione.

Quali riforme? Se anche ci spostiamo su un piano internazionale, possiamo constatare che le riforme tanto auspicate da BCE, organizzazioni finanziarie, operatori di mercato, nonché autorevoli economisti e giornalisti, sono alquanto vaghe. Il fondato sospetto è che neppure loro abbiano idee precise su ciò che dovrebbe essere fatto in concreto. I suggerimenti forniti restano troppo sfuocati per costituire un’autentica guida politica, come è ad esempio evidente nella famosa lettera che la BCE inviò al governo italiano nell’agosto 2011. Quando Münchau scrive che “l’Italia ha bisogno di modificare il proprio sistema legale, ridurre le tasse e migliorare la qualità e l’efficienza del settore pubblico” offre certamente consigli ragionevoli e condivisibili, ma troppo generici. Quali regole potrebbero funzionare? Come dovrebbero essere attuate? Ci sono i presupposti perché ciò accada? Quali ostacoli andrebbero superati? Quanto poi al suggerimento di “cambiare l’intero sistema politico”, ciò appare impossibile a meno che non si sostenga la rottura della continuità costituzionale e l’ascesa di un “dispotismo illuminato” come quello che contraddistinse le riforme Stein-Hardenberg nella Prussia del primo Ottocento. Il “consenso di Washington” è ormai in declino, e oggi non ci sono chiare indicazioni sulle politiche che potrebbero garantire condizioni economiche migliori a un determinato paese. Questo ci conduce al più generale problema dell’inadeguatezza dei modelli socio-economici oggi dominanti, il “neo-Keynesiano” e quello fondato sull’austerità. E, andando ancora più a fondo, ci porta a constatare quanto poco utile sia pensare ancora nei termini “positivistici” propri di paradigmi e modelli economici – come se il governo dell’economia potesse essere completamente de-politicizzato. L’ansiosa ricerca di una soluzione definitiva (endgültig) e “scientificamente corretta” ai problemi economici tradisce un implicito anti-intellettualismo e una drammatica carenza di leadership da parte delle élite politiche. Al riguardo, è sintomatico il paradosso implicito nell’aver trasferito il problema della “guida” sulle spalle dei banchieri centrali, figure tecniche originariamente de-politicizzate. A oggi, le proposte di riforma avanzate dai governi italiani che si sono avvicendati negli ultimi anni restano scarsamente ambiziose, prive di una chiara logica e idonee a produrre effetti in tempi troppo dilatati. Del resto, sono proposte in linea di massima legate a dottrine neo-liberal ormai superate. Tutto ciò non sorprende, se si considera che qualsiasi ipotesi di riforma dovrebbe nascere da una visione (oggi inesistente) del futuro del paese, e che comunque questa visione dovrebbe misurarsi con un contesto socio-politico italiano ed europeo che non lascia sostanziali margini di manovra. Il piano inclinato imboccato sta portando a concezioni sempre più astratte e legalistiche (de-politicizzate) della comunità politica che hanno ridotto l’immagine del paese a un puro e semplice documento di bilancio finanziario e fiscale. Lavorare e accettare pesantissimi sacrifici per migliorare uno stato così concepito non ha molto senso. Al di là di tutte le considerazioni sin qui esposte, le riforme – fossero anche migliori di quelle viste sinora – arriverebbero comunque troppo tardi. Il paese è esausto e si trova sull’orlo di un’irreversibile implosione demografica, economica e sociale.

Le riforme dovevano essere fatte vent’anni fa, quando il contesto nazionale e globale era molto più favorevole e si dovevano introdurre i cambiamenti necessari per accedere all’Eurozona ancora in gestazione. Al punto in cui siamo oggi, le riforme potrebbero addirittura essere tanto pericolose quanto l’immobilismo, spingendo il paese verso un’ulteriore destabilizzazione: la Francia del 1789 e l’Unione Sovietica degli anni Ottanta sono solo due esempi storici di come il tentativo di introdurre riforme fuori tempo massimo possa innescare il crollo del sistema che si vorrebbe salvare.

Traiettorie di default L’articolo di Münchau menziona esplicitamente la parola “default”. Anticipare ciò che è probabile (o inevitabile) che avvenga in futuro è un vecchio espediente: la verità fa meno male quando diventa manifesta e ineludibile. Dovrebbe essere chiaro che l’Italia, a questo punto, non può più essere salvata. La perdita di capacità industriale è irreversibile, e il debito pubblico continuerà a crescere fino a quando non si renderà necessaria una qualche forma di ristrutturazione. Ci potrebbero comunque essere diverse opzioni per il default. Il blogger Stefano Bassi, con il suo linguaggio abitualmente colorito, ha prospettato diversi scenari – il più probabile dei quali consiste in un progressivo “smantellamento” del paese mirato a trasferire l’ancora ingente patrimonio privato degli italiani verso il debito pubblico secondo la logica dei vasi comunicanti. Bassi definisce questa traiettoria la “Greek Way”, e ha probabilmente ragione. Tuttavia, bisognerebbe considerare che eventi così complessi raramente seguono un andamento del tutto lineare. Come argomentato da Bootle, i mercati potrebbero rapidamente cambiare la propria percezione di rischio nei confronti dell’Italia e agire di conseguenza innescando la speculazione al ribasso e il panico. Lo scenario di un’implosione controllata e a lungo termine dell’Italia (e, in prospettiva, di molti altri paesi europei, Germania inclusa) è realistico solo se accompagnato da una parallela strategia di “manipolazione monetaria” della BCE, che sempre più appare come il vero nodo Gordiano della sopravvivenza dell’Euro. Naturalmente, ci sono ben noti limiti legali e politici a un’ulteriore espansione dell’operatività della Banca Centrale nella direzione prospettata dalla stampa finanziaria. E il mandato della BCE, definito secondo precisi trattati internazionali, non può essere cambiato facilmente. Su questa materia la Germania si è sempre mostrata inflessibile tenendo un atteggiamento che, in ultima istanza, potrebbe rappresentare la nemesi dell’ossessione tedesca ed europea (tipica del secondo dopoguerra) per il ruolo della legge e l’Ordnungspolitik (Politica dell’Ordine). In tutti i modi, non ci sono garanzie sul fatto che ciò che ha “funzionato” negli Usa e nel Regno Unito produrrebbe gli stessi effetti nell’Eurozona. Un nuovo accordo politico che sostituisca Maastricht potrebbe certamente essere raggiunto a livello europeo, ma richiederebbe anni di lavoro e appare tutto sommato improbabile. Senza contare che è illusorio pensare che gli organi di governo dell’UE (e anche della Germania) abbiano in serbo idee migliori di quelle attuali in merito a ciò che dovrebbe essere fatto.

In conclusione… L’Italia potrà essere “tenuta a galla” artificialmente per un periodo di tempo piuttosto lungo, ma non indefinitamente, perché nel frattempo l’economia reale continuerà a deteriorarsi e il rapporto debito/Pil continuerà ad aumentare. Ci sono anche pochi dubbi sul fatto che l’intera costruzione europea, nonostante gli sforzi di Draghi, continui a mostrare contraddizioni interne che potrebbero benissimo condurre alla sua dissoluzione: i difetti sono purtroppo strutturali, e non potranno essere rimossi senza smantellare l’intera struttura. L’Euro, comunque, non può certamente crollare dalla sera alla mattina, e la probabilità che l’attuale leadership politica e finanziaria annunci la fine della moneta comune è paragonabile a quella che un pilota informi i propri passeggeri di aver perso il controllo dell’aereo: semplicemente, non accadrà mai. Potrebbe però verificarsi una graduale transizione verso un nuovo sistema monetario, probabilmente presentato come un “miglioramento” o un “completamento” della valuta comune: per esempio, attraverso l’introduzione di un regime duale in alcuni paesi, la ridenominazione dei debiti nazionali e così via. In realtà, si tratterebbe del primo passo verso l’abbandono del sistema. Una strada accidentata, se vogliamo, ma preferibile all’esplodere di forze centrifughe difficilmente controllabili. Quanto all’Italia, è necessario prendere atto della cruda ma ineludibile realtà. Per dirla con le parole di Bassi, “non ci sono soluzioni, e solo ammetterlo porterà a una soluzione”.

Roberto Orsi, PhD alla London School of Economics, docente e ricercatore all’Università di Tokyo

Fonte: www.vincitorievinti.com

Link: http://www.vincitorievinti.com/2014/10/perche-l-non-ce-la-fara.html

3.10.2014

Traduzione dall’inglese di ANDREA MUZZARELLI

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