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La Redazione

 

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PERCHE’ IL PALLONE VA A MORIRE

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A cura di Davide
Il 4 Febbraio 2007
23 Views

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DI MASSIMO FINI
Il Gazzettino

Nel 1982 quando in Italia, dopo la vittoria ai campionati del mondo in Spagna, fu introdotto il terzo straniero, previdi in un articolo sul Corriere dello Sport che il calcio sarebbe andato fatalmente a morire. Ma non avrei mai pensato che avrei assistito alla sua fine. Pensavo a tempi molto più lunghi dato il grande fascino che questo gioco ha sempre esercitato.

Il calcio va a morire non perché l’altro giorno nell’antistadio di Catania, in un tafferugli fra tifosi di parte avversa, è stato ucciso un poliziotto, ma perché si è completamente snaturato e fra le conseguenze di questo snaturamento, in concausa con altri profondi mutamenti della società, c’è anche la violenza negli stadi. Questa grande festa nazional popolare, interclassista, che ne sostituiva altre, cadute in disuso, è stata trasformata in un gigantesco business che ne ha travolto i motivi rituali, mitici, simbolici, identitari che per quasi un secolo avevano fatto la sua fortuna.

A seguito: Gli ultrà che hanno devastato Genova,(Cronache da Mileto blog);L’economico si è divorato tutto. Fine del rito domenicale con partite spalmate su quattro giorni e in orari diversi per favorire gli interessi televisivi, calcio, calcio parlato, con toni grotteschi, fra il serioso e l’esasperato, per tutta la settimana, canali Tv e Radio spoecializzati su questa o quella squadra 24 ore su 24, fine del subrito, anch’esso socializzante, della schedina giocata al bar il sabato, giocatori che cambiano casacca da un anno all’altro o nello stesso campionato, squadre che giocano con undici stranieri, trasferimenti e ingaggi a prezzi da capogiro, campioni che invece di limitarsi ad assere Dei sul campo diventano sponsor di questo o quel prodotto , protagonisti del gossip quotidiano e opinion maker, maglie che non son più quelle tradizionali ma, in trasferta, cambiano colori, sempre per esigenze degli sponsor. Queste esasperazioni e questa overdose non potevano non cambiare profondamente anche la natura del tifoso. Molti, e proprio fra i più appassionati, lo hanno abbandonato non riconoscendovisi più. Lo vedo in me stesso e nella mia generazione di sessantenni. Noi abbiamo amato il calcio perché da ragazzi abbiamo avuto solo il calcio e tutti lo abbiamo giocato. Lo sci era cosa per chi viveva in montagna, il tennis roba per ricchi o per racattapalle. Altro, tranne un po’ di basket nelle palestre dei licei, non c’era. Ma proprio noi siamo i più nauseati dall’overdose di calcio e dal suo snaturamento. Altri, che hanno quattrini, si limitano a fruirlo come spettacolino televisivo per privilegiati, ma non è la stessa cosa, sia perché il calcio visto allo stadio è profondamente diverso da quello visto in televisione, sia e soprattutto perché in questo modo il calcio perde la sua funzione socializzante, anzi esaspera le divisioni di classe. Dal 1982 il calcio da stadio ha perso il 40% dei suoi spettatori.

Chi va allo stadio oggi? Lo comprendiamo meglio se facciamo un confronto con chi ci andava ieri. A Milano, dove abito io, la mattina di domenica, a meno che non ci fosse una partita di grande cartello, un derby, un Milan-Juve, per cui bisognava prepararsi in anticipo, si guardava il cielo e se era sereno si diceva: “Beh, oggi andiamo allo stadio”. Allo stadio ci andava della gente normale. E una volta lì; poichè i prezzi erano abbordabili per tutti, ci si mischiava. Il piccolo imprenditore sedeva a fianco dell’operaio. Le eventuali teste calde si diluivano in questa massa ed erano per ciò stesso innocuizzate. Oggi allo stadio vanno solo i fanatici. Fanatici ricchi, gli abbonati, che pensano di non aver niente di meglio da fare per diciassette domeniche del loro autunno-primavera, e fanatici proletari costretti, da questa politica degli abbonamenti e degli alti prezzi, e a sua volta determinato dagli altissimi costi che le società devono affrontare per mantenere in piedi lo “spettacolo”, a concentrarsi dietro le porte. È ovvio che in costoro, rinchiusi come bestie in gabbia, il tifo diventi solo un pretesto di revanche sociale da scaricare sui tifosi avversari o sui poliziotti.

Il calcio non è più, com’è stato per decenni, un fattore di coesione ma di divisione sociale. E tuttavia proprio questi ultras che oggi sono sotto accusa (perché sono il bagaglio più immediato e facile che serve a nascondere le responsabilità di chi, imprenditori e giornalisti, ha lucrato sulla “gallina dalle uova d’oro” spremendola fino ad ucciderla) tre anni fa fecero, in rappresentanza di 78 società, di A, di B, di C, e dei semiprofessionisti, in una domenica canicolare, una civilissima manifestazione davanti alla sede della Figc a Porta Romana, al grido di: “Ridateci il calcio di una volta”. Un calcio più semplice, giocato solo la domenica, senza troppi stranieri, senza ingaggi favolosi, con i sacrosanti numeri dall’uno all’undici, con le maglie di sempre, con la possibilità di avere, anche nelle squadre piccole e medie, dei giocatori-bandiera che non vengano immediatamente ramazzati dalle ex “grandi”, come fu Riva per il Cagliari o Antognoni per la Fiorentina e Lentini per il Torino prima che Berlusconi gli offrisse l’iperbolica e immorale cifra di 64 miliardi che spazzava via tutti i valori sentimentali cui il giovane calciatore, figlio di operai delle Banchigliette, si era detto legato, in nome del Dio Denaro. Questa manifestazione fu completamente ignorata dalla stampa, anche sportiva, o irrisa e Mario Sconcerti, che oggi moraleggia sul Corriere della Sera, mentre prende i soldi da quell’emblema della discriminazione sociale che è Sky, scrisse che il nuovo calcio era dettato da “scelte precise e inderogabili dovute alle leggi del mercato” Ebbene se il tifo calcistico, del tutto gratuito (perché nulla entra in tasca al tifoso se la sua squadra vince e nulla perde, dal punto di vista economico, se soccombe), viene ridotto alle precise e inderogabili leggi del mercato”, i risultati sono questi ed è inutile e sommamente ipocrita piangere lacrime di coccodrillo su un poliziotto morto.

Sconcerti e tutti gli sconcerti della situazione non hanno capito, o voluto capire che il calcio, prima di essere business, prima di essere spettacolo, prima di essere gioco, prima di essere sport, era un rito, una messa, uno degli ultimi spazi riservati al sacro rimasti in occidente, E con la loro ossessione economica hanno destrutturato i suoi adepti esattamente come l’intrusione economica dell’Occidente in Africa centrale ha destrutturato i neri, trasformando degli istintivi in violenti, pericolosi a sè e agli altri.

Massimo Fini
Fonte: http://gazzettino.quinordest.it
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04.02.2007

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