DI MARSHALL AUERBACK
New Economic Perspectives
Quando fu introdotto l’euro, i politici
tedeschi al potere di solito argomentavano, con una certa compiacenza
(e con molto disappunto, in particolare, dei britannici) che l’unione
monetaria avrebbe alla fine provocato anche un’unione politica. La
crisi greca è esattamente il tipo di evento che ci si sarebbe atteso
per forzare il passo. Ma, di fronte a una crisi ben definita, il governo
della signora Merkel sta evitando di parlare di unione politica, preferendo
invece infilare a forza nelle gole dell’elettorato riluttante della
Grecia, dell’Irlanda, del Portogallo e della Spagna una cattiva medicina
economica. Tutto ciò è diventato economicamente e politicamente insostenibile.
Se l’obbiettivo era quello di salvare la moneta comune, forse i politici
stavano guardando la cosa in un modo sbagliato. Alla fine, paradossalmente,
per salvare l’UEM, la strada meno distruttiva da prendere sarebbe
l’abbandono dell’euro dei tedeschi, e non tanto delle nazioni periferiche.
Una delle ragioni più rilevanti
per cui l’unità politica e sociale è così importante
è che offre le condizioni che facilitano i meccanismi d’aggiustamento
quando manca la competitività. La mobilità del lavoro è molto più
forte all’interno di un paese che non tra le diverse nazioni. I trasferimenti
fiscali transregionali aiutano a facilitare il processo di aggiustamento.
L’unità sociale e nazionale rende la volontà di un distacco quasi
impensabile e di conseguenza fornisce il collante per mantenere in essere
la disciplina dell’aggiustamento.
Nessuno dei paesi prima citati è
al momento ben ancorato all’eurozona. E nessuno riuscirà esserlo
nel contesto odierno, dove ogni mossa per creare una struttura fiscale
transnazionale è continuamente osteggiata dai tedeschi, da loro considerata
un cavallo di Troia per consentire ancora salvataggi dei loro partner
mediterranei “dalle mani bucate”.
È comunque necessaria una qualche
espansione fiscale se si vuole mantenere il progetto dell’euro ancora
in vita. Da una prospettiva keynesiana ortodossa, diminuire il deficit
di bilancio equivale a una contrazione dell’economia. I keynesiani
enfatizzano la prevalenza degli effetti moltiplicatori. I tagli alle
spese governative e l’innalzamento delle tasse fanno ridurre le entrate
fiscali e la spesa dell’economia domestica. Se il consolidamento fiscale
è davvero ambizioso, si può arrivare a una vera recessione.
Quando l’euro fu realizzato, si discuteva
pieni di speranza sul fatto che un incremento del commercio e degli
investimenti tra le nazioni della zona euro avrebbe creato un’economia
veramente unificata, dove i livelli nazionali di produttività e consumo
sarebbero alla fine divenuti simili. Era anche previsto, o forse solo
sperato, che l’euro avrebbe stimolato una convergenza politica. Usando
le stesse banconote e le stesse monete, gli europei avrebbe percepito
quanto avessero in comune, sviluppando una lealtà condivisa e cementando
l’unione politica.
Gli ideatori di questa moneta speravano
anche in una terza forma di convergenza, quella tra le élite e l’opinione
pubblica. Sapevano che in alcuni paesi, la Germania in particolare,
la gente non condivideva l’entusiasmo delle élite politiche per la
creazione dell’euro. Ma speravano che, col tempo, le persone comuni
avrebbero compreso il valore della nuova moneta europea. Tutto questo
non è poi corrisposto alla realtà dei fatti. Parlando in modo diretto,
i mercati oggi credono che i governi abbiano fallito nel trovare un
compromesso politico per sostenere la stabilità della moneta unica.
Lo svantaggio principale dell’adozione
di una moneta comune in assenza di un’effettiva unità politica
è che limita la capacità dei paesi membri di aggiustare
uno shock (asimmetrico) utilizzando le politiche fiscali interne
per mitigarne l’impatto deflazionistico, così come impedisce di poter
usare il tasso d’interesse per lo stesso scopo. L’UEM non funziona
e senza un meccanismo di redistribuzione fiscale federale non riuscirà
mai a raggiungere una vera prosperità condivisa. Ogni volta che uno
shock asimmetrico si abbatterà sull’Europa, le nazioni più deboli
cadranno. Cercare di imporre direttive fiscali e austerità all’interno
del sistema monetario dell’UEM peggiorerebbe solamente le cose.
L’austerità fiscale che ha
accompagnato il periodo di transizione che ha portato all’UEM, mentre
i governi lottavano per raggiungere i criteri fissati dal Patto di Stabilità e Crescita, si manifesta ora in un alto tasso di disoccupazione
e una crescente sottoccupazione, nella scomparsa delle reti sociali
di sicurezza, nel decadimento delle infrastrutture pubbliche e nella
comparsa dell’estremismo politico.
A dieci anni dall’introduzione dell’UEM
questi problemi, invece che migliorare, si sono aggravati, al contrario
di quello che i propugnatori del sistema avevano sperato. In questo
momento la Grecia è insoddisfatta e chiede ancora maggiori finanziamenti
dall’UE dopo il prestito di 110 miliardi di euro che sembrava più
che sufficiente solo un anno fa. Nonostante la forte debolezza dell’economia
irlandese, il suo deficit di bilancio rimane ancora attorno al
15% del PIL. Il ministro delle Finanze portoghese ha ammesso che l’economia
del suo paese si contrarrà del 2% quest’anno e di un altro 2% il
prossimo e queste previsioni sono forse ottimistiche. Il PIL del Portogallo
stava già arretrando dell’1% un anno fa, ma le contrazioni consecutive
anche nell’ultimo quadrimestre del 2010 hanno messo in dubbio questa
possibilità (e per questo i politici portoghesi sono passati a una
previsione di un meno 2% del PIL per il 2011 e il 2012). Non ci meravigliamo,
quindi, se il Portogallo si unirà alla Grecia e all’Irlanda per cercare
di ottenere un’assistenza creditizia dall’EFSF. La crescita reale del PIL italiano era la
migliore nello scorso anno con una crescita dell’1,5%, ma questo ritmo
ha subito una battuta d’arresto alla fine dell’anno e per questo
Moody’s ha recentemente minacciato di abbassare il suo tasso di
rating.
E poi abbiamo la Spagna: come ha evidenziato
Rob Parenteau (“Spain under Strain”), il recupero della Spagna
della fine del 2010 era dovuto principalmente al consumo e le prospettive
della spesa dei consumatori non sono viste molto positivamente per il
futuro. Il calo della crescita delle vendite al dettaglio, iniziato
lo scorso anno, sembra essere accelerato a marzo. L’aumento di alcune
imposte e la nuova introduzione di una tassa sul consumo hanno messo
la cinghia alle spese dei consumatori. La crisi finanziaria globale
rende ancora più difficile per la Spagna migliorare il suo bilancio di conto corrente.
Gli investitori e i politici sono impegnati nel ridurre il deficit fiscale senza prendere in considerazione le conseguenze per i bilanci finanziari e quelli degli altri settori.
La cosa certa è che la Spagna ha sempre avuto un deficit del
conto corrente, ma non un deficit fiscale. Il deficit fiscale
non è altro, in larga misura, che un fenomeno derivato dal brusco cambiamento
di rotta delle spese del settore privato una volta che il boom
del settore immobiliare spagnolo è crollato e la crisi globale ha iniziato
a colpire. Il rapporto tra debiti/entrate del settore privato è un
multiplo di quello del governo e nonostante questo tutti gli occhi sono
puntati nel contenimento del rapporto tra il debito pubblico e le entrate.
Qualche ulteriore sforzo di ristrutturazione sta per essere attuato
e i primi risultati potrebbero venire dalla produzione dei beni di consumo
ma, se non verranno realizzati sforzi ancora più eroici per migliorare
il tasso di reinvestimento dei profitti delle imprese nell’economia
spagnola, la mancata crescita potrebbe avviare un circolo destabilizzante
nel momento in cui il tasso di disoccupazione ha già raggiunto il 21%.
Questo a sua volta potrebbe colpire l’euro, mentre i consolidamenti
fiscali diventerebbero distruttivi in tutta la periferia dell’eurozona.
Gli investitori non sembrano apprezzare a pieno la sfida affrontata
dalla Spagna nel mantenere un consolidamento fiscale espansivo.
Con tre delle cinque nazioni periferiche
in contrazione nell’ultimo quadrimestre del 2010, e una quarta con
un mercato in forte rallentamento, diventa sempre più evidente l’insuccesso
del consolidamento fiscale espansivo nella periferia dell’eurozona.
Tutto questo conferma l’idea che le carte sono già sul tavolo: i
paesi della periferia non riusciranno a elaborare una propria via d’uscita
dai problemi delle proprie economie.
Prima della creazione dell’UEM, ogni
stato membro aveva la sovranità della propria moneta e una propria
banca centrale. Ciò significa che non erano limitati dalle entrate
e potevano mettere in atto politiche fiscali e monetarie in modo coordinato
per meglio servire gli interessi socioeconomici dei loro cittadini.
La classe dirigente tedesca, in particolare,
sembra essere incapace di riconoscerlo. L’interpretazione del Cancelliere
Angela Merkel, parlando dei mali dell’Eurozona, si focalizza su quello
che lei definisce un “debito pubblico eccessivo”:
“Abbiamo una crisi evidente
dovuta all’indebitamento. Ma lasciatemelo dire, non c’è una crisi
dell’euro. Questa è una crisi del debito. Lasciatemelo ripetere chiaramente
ancora una volta. L’euro è la nostra moneta. Ed è molto più di
una moneta. È l’incarnazione dell’Europa. Se l’euro dovesse cadere,
anche l’Europa cadrebbe. Continueremo a difendere l’euro.”
Il che equivale a ignorare l’aspetto
fondamentale: non c’è una crisi del debito pubblico senza l’Euro.
L’unico motivo per cui l’euro è riuscito a sopravvivere fino
a questo punto è perché la BCE ha avuto la funzione di un
agente fiscale “assente”, tenendo sotto controllo il mercato delle
obbligazioni. Nonostante questo, quando gli acquisti delle obbligazioni
della BCE sono calati, la crisi si è intensificata perché la BCE è
rimasta l’unica entità dell’UEM ad avere la sovranità monetaria
e che può “finanziare fiscalmente” i deficit degli stati
membri in modo permanente. Data la resistenza politica della Banca Centrale
(in questo sostenuta dai tedeschi) per continuare questi acquisti, la
logica che sostiene il sistema monetario continuerà ad assicurare che
la crisi in corso si diffonderà in tutta l’Unione.
Questo ha a sua volta messo in discussione
se i membri più deboli dell’Eurozona – in particolar
modo Grecia e Irlanda – debbano affrontare una ristrutturazione
del debito. Christian Noyer della BCE ha di recente spiegato le motivazioni per cui la BCE si oppone a queste ristrutturazioni:
“Se ristrutturiamo il
debito greco, ciò significa che la Grecia va in default.”
“E quali sono le conseguenze
di un default? Le banche che detengono la gran parte delle obbligazioni
greche sono quelle greche. Queste banche verrebbero molto danneggiate.
Quando il sistema bancario è distrutto, cosa va fatto per prevenire
il collasso del finanziamento dell’economia? Vanno ricapitalizzate
le banche. Chi ricapitalizzerà il sistema bancario greco? Lo Stato
greco.”
“Ciò significa che lo
Stato greco non ci guadagnerà nulla. Investirà nel settore bancario
tutto quello che ha ottenuto con la ristrutturazione.”
“E poi ci sono gli assicuratori
greci e i fondi pensione” che verranno colpiti. “Questo andrà a
pesare sui risparmi del popolo greco e potrebbe causare un calo nella spesa dei consumatori e
la crescita greca subirebbe un colpo. Cosa che contrasterà il recupero
della Grecia.”
“E allora, cosa succede
dal punto di vista dei creditori della Grecia? C’è il settore pubblico
europeo, i governi europei e la banca centrale. Questo va a toccare
direttamente il contribuente europeo.”
“Se facessimo pagare
agli Stati europei, il meccanismo del finanziamento europeo si fermerebbe
all’istante. Le nazioni non continuerebbero a mettere sul piatto i
soldi dei propri contribuenti quando questi hanno già visto i loro
prestiti volatilizzati e le perdite sul denaro che hanno prestato. Questo
segnerebbe la fine del sostegno proveniente dagli altri Stati europei.”
“E alle banche centrali,
cosa succede? Il debito greco diventerà qualcosa che non vale più
niente. Non sarà più considerato abbastanza sicuro per le operazioni
del sistema dell’Euro. Questo significa per definizione che, nel caso
di una ristrutturazione, diventerà inutilizzabile come collaterale.
Se non può essere utilizzato, una gran parte di quello che le banche
greche portano come garanzie per il rifinanziamento non potrà più
essere usato. E questo significa che il sistema bancario greco non potrà
più essere finanziato.”
“E il giorno dopo cosa
succederà? La Grecia avrà bisogni di trovare investitori perché lo
Stato Greco non passerà dal deficit al surplus dal giorno
alla notte. Fino a quando non avrà un surplus primario, la Grecia
dovrà prendere a prestito.
Gli investitori internazionali, quei pochi
rimasti, hanno già avuto una ristrutturazione. E non si ripresenteranno
il giorno dopo, disposti a rifinanziare.”
“Il Sistema Euro non
rifinanzierà. Gli stati europei non rifinanzieranno. Il FMI non si
muoverà da solo. Nessuno finanzierà la Grecia negli anni a venire.
Questo porterà al collasso dell’economia
greca. È un film dell’orrore.
Questo è il motivo per cui siamo contrari a una ristrutturazione.”
Forse stiamo approcciando la questione
dalla parte sbagliata: data la perenne avversione tedesca per i programmi
fiscali più allargati di stile pan-europeo, che la sua popolazione
continua a considerare nient’altro che salvataggi per gli “irresponsabili
mediterranei con le mani bucate”, c’è un altro modo per risolvere
la crisi dell’euro.
Che la Germania lasci l’Eurozona.
Lasciamo da parte la politica per un istante, anche perché ci
sono molti che credono che un’uscita della Germania dall’eurozona
comporterà la fine dell’euro perché molte altre nazioni faranno
lo stesso. Allora consideriamo questo esercizio solamente da un contesto
economico: il probabile risultato di un’uscita della Germania comporterebbe
un forte apprezzamento del valore del nuovo marco. In effetti, tutti
svaluteranno la propria moneta per fronteggiare la potenza tedesca e
il peso della reflazione fiscale sarà a carico dei membri più recalcitranti
dell’Unione Europea. La Germania dovrà probabilmente salvare le proprie
banche, ma sarebbe più politicamente accettabile a quel punto salvare
le banche greche (almeno dalla prospettiva della popolazione tedesca).
Si può essere sicuri che tutto
questo non avverrà a costo zero per la Germania, che dovrà salvare
il proprio sistema bancario per veder poi distrutto il proprio export.
Il marco riconfigurato salirà rapidamente sull’euro e diventerà
l’ultima moneta affidabile. Questo mitigherà l’effetto dovuto all’inevitabile
deprezzamento del debito denominato in euro, perché l’euro (supponendo
che venga mantenuto in essere dai restanti paesi dell’eurozona) cadrà
in modo spettacolare. Anche se l’euro scomparisse, la Germania recupererebbe
il debito nelle vecchie divise, probabilmente solamente per frazioni
del loro precedente valore. E la popolazione tedesca troverà così
più giustificabile salvare le proprie banche (come ha fatto nel periodo
della riunificazione) che prosciugare i fondi dei contribuenti per ricapitalizzare
il sistema bancario di un branco di spendaccioni mediterranei.
Allo stesso modo, una diminuzione del
surplus con l’estero della Germania aumenterebbe fortemente il
deficit di bilancio (a meno che il settore privato non cominci ad
espandersi rapidamente, cosa alquanto dubbia nello scenario da poco
descritto) e così la Germania si troverebbe lei stessa a dover affrontare
passivi di bilancio sempre più consistenti. Nella situazione tedesca
odierna, anche se il paese ha un forte avanzo del conto corrente, sarebbe
insufficiente per neutralizzare la forte predisposizione al risparmio
del settore privato (che significa avere del deficit). Ma il
surplus del conto corrente permette di avere un deficit di bilancio
più piccolo di quello delle dei vicini mediterranei “mani bucate”
e faciliterebbe la volontà di risparmio netto del settore privato.
Come abbiamo già detto, sono proprio le “mani bucate” dei partner
commerciali mediterranei che hanno permesso alla Germania di avere consistenti
attivi di cassa ed è per questo che ha deficit di bilancio inferiori
rispetto a quelli dei cosiddetti paesi PIIGS.
Una volta che il divorzio dall’euro
sarà completato, la Germania riotterrà la libertà
fiscale. Questo è un qualcosa che i tedeschi dovrebbero festeggiare,
perché permetterebbe al proprio governo di avere il vantaggio
di essere di nuovo autonomo. Faccia comunque presente che, una volta
ritornata al marco, la Germania tornerà a essere l’emittente e non
più l’utilizzatrice della moneta, come avveniva con l’euro, e sarà
pienamente sovrana per le politiche fiscali e quelle monetarie. Di conseguenza,
il governo tedesco potrà superare lo shock esterno provocando
forti deficit di bilancio, che aggiungeranno nuovi asset
finanziari (in aggiunta ai risparmi non governativi) che saranno disponibili
per il settore privato.
La Germania potrebbe anche decidere
di non adottare queste iniziative, vista la sua storica resistenza alle
politiche fiscali aggressive, ma quanto meno non sarebbe più legata
alle restrizioni istituzionali dell’UEM.
Nel frattempo, il resto dell’Eurozona
vedrebbe un forte incremento della propria competitività grazie a una
(probabile) forte caduta della quotazione dell’euro contro il nuovo
marco. Inoltre, l’instabilità politica che ne deriverebbe potrebbe
far sì che la BCE si debba trovare pronta a sostenere tutte le obbligazioni
per prevenire che si arrivi a una crisi in piena regola, ma ciò incontrerebbe
una minore resistenza politica, vista l’assenza della presenza castigante
della Germania nell’Unione Europea Monetaria.
Sembra un modo strano di considerare
la questione, ma il paradosso in cui siamo suggerisce che l’uscita
dell’euro da parte del membro più in salute, invece che dei paesi
più deboli, potrebbe essere la migliore soluzione per salvare l’euro,
se non si dovesse tornare alle distinte monete nazionali.
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Fonte: http://wallstreetpit.com/76397-to-save-the-euro-germany-has-to-quit-the-euro-zone
25.05.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE