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DI MASSIMO FINI
antefatto.ilcannocchiale.it/

Di fronte all’arresto del consigliere comunale Milko Pennisi che si è fatto beccare con la tangente in bocca esattamente come 18 anni fa il “mariuolo” Mario Chiesa (ma già lo stesso Chiesa non più tardi di dieci mesi fa si era fatto ripescare con le mani nel sacco fra l’indifferenza generale come se la cosa non avesse un suo concretissimo simbolismo), alle inchieste di Firenze, di Bari, di Palermo, la gente, ma anche insigni personaggi come la sindachessa Letizia Moratti, che pare che in questi anni sia vissuta sulla luna, si chiede: è tornata Tangentopoli, ma allora Mani Pulite non è servita a niente?

Io mi meraviglierei del contrario. Ci si è dimenticati della costante, capillare e devastante campagna di delegittimazione della magistratura italiana che Silvio Berlusconi, con le sue potenti bocche di fuoco, con le sue Tv, con i suoi giornali, diretti alternativamente da Bibì e Bibò, con i suoi settimanali, con i suoi parlamentari, con i suoi alleati, sta conducendo da quindici anni?Appoggiato in quest’opera di demolizione sistematica dai principali quotidiani del Paese, Corriere della Sera in testa con i suoi editorialisti “liberali”, Angelo Panebianco, Ernesto Galli della Loggia, Piero Ostellino, Pierluigi Battista. Ci si è dimenticati della valanga di fango che è stata riversata sulle Procure e i Tribunali, soprattutto milanesi, dopo che, nel biennio 1992-94, per la prima volta nella storia del nostro Paese, avevano osato richiamare anche la classe dirigente, politica e imprenditoriale, al rispetto della legge cui tutti siamo tenuti? Ci si è dimenticati delle accuse di “complotto”, di “uso politico della giustizia”, di “indebita supplenza”, di “giacobinismo”, di “giustizialismo”, di “protagonismo” dei magistrati, del voler creare “uno Stato etico”, del “tintinnar di manette”, del “li arrestano per farli confessare”?

Si è dimenticato che per salvare Berlusconi, i suoi amici e, più in generale, “lorsignori”, si sono inventate categorie giuridiche mai prese in considerazione da alcun codice penale, né del Primo né del Terzo mondo, e neppure all’altro mondo, come l’ “accanimento giudiziario” (di cui potrebbero dolersi legittimamente anche Totò Riina e Bernardo Provenzano) e la “modica quantità” nei falsi in bilancio, problema poi risolto brillantemente cancellando, di fatto, questo reato per il quale negli Stati Uniti sono previsti 25 anni di reclusione? Si è dimenticato che pur di assolvere la classe dirigente dai suoi crimini si è ricorsi a ogni sorta di false argomentazioni, di paralogismi, di sofismi? Si è gridato che le inchieste danneggiavano l’economia italiana, oltre che la nostra immagine all’estero, mentre è vero esattamente il contrario: la Corte dei Conti ha calcolato che la corruzione ci è costata 60 miliardi di euro. Si è sostenuto, da parte dell’onorevole Berlusconi, che i magistrati italiani dimostravano una deplorevole mancanza di “spirito patriottico” quando collaboravano con i colleghi stranieri per inchieste che riguardavano nostri connazionali. Si è detto, da parte dell’onorevole Tremonti, che «i comportamenti previsti dalla legge come reati cessano di essere tali se la coscienza morale dominante non li considera tali» (se si desse retta a questa curiosa tesi di Tremonti, che oggi è ministro delle Finanze, tutti i reati fiscali non sarebbero più reati). Si è scritto -da Angelo Panebianco- che la punibilità o meno di un cittadino dipenderebbe dal consenso che ha o non ha presso l’opinione pubblica (e questa è la vera “giustizia di piazza”, il “giustizialismo” contro il quale si son scagliati tante volte quelli del centrodestra).

Berlusconi, già premier, in terra di Spagna, davanti a tutta la stampa internazionale, mentre Aznar cercava disperatamente di tirarlo per la giacca, ha affermato che Mani Pulite, cioè inchieste e sentenze della magistratura del Paese di cui era presidente del Consiglio, erano state “una guerra civile”. Quindi, in un “crescendo rossiniano”, ha definito i giudici «antropologicamente pazzi», «il vero cancro della democrazia italiana» fino ad arrivare a dire che i Pubblici ministeri di Firenze, colpevoli di aver avviato un’inchiesta che ha coinvolto anche settori della Protezione civile, «dovevano vergognarsi», insultando così non solo loro ma anche i carabinieri del Raggruppamento operativo speciale, sezione anticrimine, sui cui rapporti i magistrati si sono basati per le incriminazioni.

Ci sono poi le innumerevoli ispezioni che i vari ministri della Giustizia, di centrodestra ma anche di centrosinistra, hanno inviato non alle Procure neghittose e nullafacenti (queste, per i berluscones, sono «le Procure che lavorano sodo e in silenzio» basta che non disturbino il manovratore), ma a quelle più attive ed efficienti, a Milano, a Napoli, a Palermo.
Infine, attraverso il dimezzamento dei tempi di prescrizione, proprio mentre si allungavano ulteriormente quelli dei processi inzeppati di norme cosiddette “garantiste”, si è assicurata ai politici, ai pubblici amministratori e a “lorsignori”, i cui reati economici e finanziari sono particolarmente difficili da accertare, l’impunità o la quasi impunità.
Ma per i reati di “lorsignori” non è mancata, salvo in rari casi, solo la sanzione penale, ma anche quella sociale. Durante lo “scandalo Necci”, l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato arrestato nell’ottobre del 1995 per le consuete malversazioni (una specie di “Tangentopoli Due”), si scoprì che costui aveva chiamato a collaborare i seguente personaggi: Pierfranco Pacini Battaglia, detto “Chicchi”, un banchiere «protagonista di buona parte dei fondi neri girati dalle Partecipazioni statali al vecchio pentapartito» (Corriere, 17/9/95); Rocco Trane, socialista, già sottosegretario ai trasporti, in precedenza coinvolto in un altro scandalo riguardante le Ferrovie e riciclatosi come legale delle stesse Ferrovie; l’ex democristiano Emo Danesi, iscritto alla Loggia P2 di Licio Gelli e riemerso come imprenditore della società TPL coinvolta in numerose inchieste penali; Carlo Alberto Zamorani, con precedenti penali per Tangentopoli; Luigi Bisignani, ex piduista pure lui, e corriere delle tangenti Enimont. Lo stesso Necci era stato al vertice di Enimont e quindi protagonista di una delle più oscure vicende finanziarie italiane conclusasi con la tragica morte di Gardini e una raffica di pesantissime condanne. Questi uomini avrebbero dovuto essere squalificati e scomparire dall’area della Pubblica amministrazione e invece controllavano, col beneplacito del governo e dei suoi ministri, la più importante e prestigiosa azienda di Stato del Paese. Potentissimi, rispettatissimi, onoratissimi.

Di recente abbiamo raggiunto l’apice con la “riabilitazione”, da parte anche di alte e altissime cariche dello Stato, di Bettino Craxi, un criminale latitante fuggito ignominiosamente dal Paese di cui era stato presidente del Consiglio sul quale, stando al sicuro, da Hammamet, ha gettato fango a palate, ed elevato al rango di “esule” e “martire”, e la contemporanea crocifissione di Di Pietro, il Pubblico ministero leader di Mani Pulite e suo simbolico contraltare.
E allora quale può essere stata la pedagogia di questi lunghissimi quindici anni in cui, ribaltando le parti, i magistrati son diventati i colpevoli e i ladri delle vittime, giudici dei loro giudici? Che il delitto, sempre, beninteso, se commesso da “lorsignori”, paga, che non ha conseguenze, né penali né sociali, e che quindi non c’è nessuna ragione di non proseguire con le vecchie, care, buone abitudini.

Ad “Annozero” Paolo Mieli, improvvisamente smarcatosi dal suo “terzismo” e dalla sua sostanziale complicità con tutti i regimi, ha affermato: «Come alla vigilia del 1992 sta per saltare il tappo». Anche se Marco Travaglio (e non solo lui) ci spera, io non lo credo. Nel 1992 il popolo italiano era ancora capace di indignazione, anche con eccessi (l’inseguimento di De Michelis per le calli di Venezia, le monetine a Craxi davanti al Raphael, che son cose che non dovrebbero avvenire mai, perché non c’è nulla di più ripugnante della caccia all’uomo), oggi non più. Dopo quindici anni di questa pedagogia, cui anche Paolo Mieli ha abbondantemente contribuito, la gente appare, nella migliore delle ipotesi, rassegnata, nella peggiore ha finito per perdere quel poco di senso della legalità e della propria dignità che le era rimasto.

Massimo Fini
Fonte: www.massimofini.it/

pubblicato su Il Fatto 17.02.2010

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