Di Daniele Perra, eurasia-rivista.com
Il teorico cinese Wang Huning è stato uno dei primi a sostenere la tesi secondo la quale per capire la strategia nazionale americana è necessario in primo luogo capire il modo americano di essere Nazione: ovvero, osservare con attenzione il loro stile di vita prima di dare credito a ciò che appare nelle pubblicazioni “geopolitiche” dei loro think tank[1].
Huning, durante il suo soggiorno negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso, giunse alla conclusione che il fondamento dello stile di vita americano è l’idea di ricchezza o prosperità. Tale prosperità (apparente o reale) si mantiene solo attraverso il flusso continuo di capitale internazionale nelle casse statunitensi. E, per fare in modo che questo flusso di capitale si mantenga costante, si rende necessario che la posizione egemonica del dollaro non venga in alcun modo intaccata. Questa è la reale fonte di potere che, per ora, mantiene gli Stati Uniti forti e prosperi.
Ciò, naturalmente, comporta il quesito: come è stato possibile raggiungere tale posizione? La risposta va ricercata nella storia contemporanea. All’inizio della Prima Guerra Mondiale gli Stati Uniti erano uno dei Paesi con il più grande debito al mondo. Al termine del conflitto, invece, gli Stati Uniti erano un Paese creditore sul piano globale. Nel 1917, l’Intesa ricevette da Washington una linea di credito di 2,3 miliardi di dollari. Nel medesimo periodo, la Germania, sconfitta nella Battaglia dello Jutland (1916) e già sottoposta al blocco navale britannico, ottenne poco più di 27 milioni di marchi in aiuti esteri.
Di fatto, gli Stati Uniti sono stati tra i primi ad intendere la guerra esclusivamente come impresa economica nel momento in cui gli Imperi tradizionali europei, ancora convinti che la vittoria sarebbe stata determinata solo ed esclusivamente dalla forza degli eserciti sul campo (cosa possibile solo in caso di “guerra lampo”), erano ormai divenuti incompatibili con la base economica del capitalismo. La Prima Guerra Mondiale, dunque, è stato anche il primo conflitto in cui il flusso di capitale ha avuto un ruolo più importante del flusso di sangue inteso nel senso letterale del termine. Gli stessi Stati Uniti intervennero solo nel momento in cui erano ormai certi che non ci sarebbe stata nessuna sostanziale differenza tra vinti e vincitori (usciti entrambi con le ossa rotte dal conflitto). Questo perché l’obiettivo reale era quello di scalzare la Gran Bretagna dal ruolo di potenza talassocratica egemone sul piano globale. Obiettivo che sarà raggiunto solo a seguito della Seconda Guerra Mondiale e dopo che la stessa Gran Bretagna (grazie a quello che viene forse erroneamente definito come grande politico e stratega, Winston Churchill) contribuirà in modo determinante al suicidio suo e dell’Europa in generale.
Il 15 agosto 1971 è un’altra data fondamentale per la storia contemporanea e, soprattutto, per i fini di questa analisi. Quel giorno, il Presidente Richard Nixon annunciò la chiusura della cosiddetta golden window spezzando il legame tra dollaro e oro e tradendo il sistema creato a Bretton Woods. A partire da quella data, gli Stati Uniti hanno ottenuto il potere teorico di stampare dollari a volontà. Non solo, a seguito del conflitto arabo-israeliano del 1973 e di un accordo con l’OPEC, gli Stati Uniti ancorarono il dollaro al commercio globale del petrolio, trasformando la loro moneta nell’unica valuta per il regolamento internazionale del traffico petrolifero. Così facendo, hanno imposto al mondo il principio secondo il quale per comprare petrolio servono dollari. Dunque, se un Paese ha bisogno di petrolio, ha bisogno anche dei dollari per poterlo comprare. La globalizzazione economica, in questo senso, è stato l’inevitabile risultato della globalizzazione del dollaro.
In questo senso gli Stati Uniti, afferma l’ex generale dell’aeronautica dell’Esercito di Liberazione Popolare Qiao Liang, hanno dato vita alla prima “civiltà finanziaria” trasformando tutte le valute del mondo in accessori del dollaro[2]. A partire dagli anni ’70, inoltre, hanno iniziato a delocalizzare le industrie manifatturiere di basso e medio livello nei Paesi in via di sviluppo (favorendone il consumo di ambiente e risorse) tenendo sul proprio territorio solo quelle con un alto valore aggiunto in termini tecnologici. Gli effetti nefasti di tali politiche hanno avuto modo di riflettersi sulla stessa economia americana nel momento in cui la crisi del 2007 ha messo in evidenza la sua natura esclusivamente “virtuale” a fronte dell’azzeramento del settore produttivo. Una tendenza che sia l’amministrazione Obama che quella Trump hanno cercato (fallendo) di controbilanciare. Di conseguenza, le fortune/sfortune statunitensi ancora per molto tempo si baseranno sulla capacità di Washington di concentrare/convogliare il flusso di capitali internazionali sul suo territorio generando crisi geopolitiche ed eliminando potenziali concorrenti.
In altri termini, gli Stati Uniti hanno dato vita ad un “impero vuoto” totalmente parassitario (nel 2001 il 70% della popolazione statunitense lavorava nel settore della finanza e dei servizi ad essa correlati) fondato sulla produzione di dollari, mentre il resto del mondo produce la merce che viene scambiata con i dollari. “La globalizzazione – afferma Qiao Liang – non è altro che una moda finanziaria tenuta in ostaggio dal dollaro americano”[3].
Nel precedente articolo Il nemico dell’Europa si è fatto ampio riferimento alla guerra del Kosovo come “conflitto americano nel cuore dell’Europa” volto ad inquinare il clima degli investimenti nel Vecchio Continente e a contrastare sul nascere un rivale potenzialmente pericoloso: l’euro. Di fatto, prima della guerra del Kosovo, riporta ancora l’ex generale cinese, 700 miliardi di dollari vagavano per l’Europa senza un posto dove essere investiti[4]. Una volta iniziata la guerra con l’appoggio dei governi collaborazionisti europei (quello italiano in particolar modo), 400 miliardi sono stati immediatamente ritirati dal suolo europeo. 200 miliardi sono tornati subito negli Stati Uniti. Altri 200 sono andati ad Hong Kong, dove alcuni speculatori al rialzo puntavano ad usare la città come trampolino di lancio per accedere al mercato della Cina continentale. In quel preciso momento, arrivò l’“accidentale” bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado da parte dei “missili intelligenti” della NATO. Risultato finale: i 400 miliardi sono confluiti tutti nelle casse statunitensi.
Nel novembre 2000, Saddam Hussein annunciò che le esportazioni petrolifere irachene sarebbero state regolate con l’euro. Il primo decreto del governo iracheno istituito dalle (e sotto le) bombe USA stabilì l’immediato ritorno all’utilizzo del dollaro per il commercio del greggio.
Lo stesso discorso si può facilmente applicare alla crisi ucraina del 2014, esplosa in un momento in cui gli Stati Uniti (come oggi) non volevano in alcun modo che il capitale rimanesse o venisse investito in Europa. Il modo migliore per evitare che ciò avvenisse era creare una crisi regionale. Una crisi che, inoltre, ha costretto l’Europa ad accordarsi agli USA nell’imposizione di sanzioni alla Russia.
Ad oggi, l’unico Paese che si è contrapposto a questo gioco nordamericano cercando di intercettare il flusso di capitali è la Cina. Questo dovrebbe in qualche modo chiarire il motivo per cui vi è stata una sostanziale intensificazione delle crisi regionali attorno al gigante asiatico, da Hong Kong a Taiwan.
Tuttavia, l’attuale recrudescenza della crisi ucraina impone anche un altro tipo di riflessione. Di fatto, a prescindere dalla volontà occidentale di inasprire il più possibile la crisi attraverso provocazioni (e operazioni “falsa bandiera”), propaganda e mancato rispetto degli accordi di Minsk, si sta assistendo al confronto da due modelli opposti di interpretare la scienza geopolitica. Nel già citato articolo Il nemico dell’Europa si è fatto riferimento all’utilizzo delle crisi geopolitiche da parte degli Stati Uniti come strumenti subordinati alla politica monetaria. Dunque, nel caso ucraino si è di fronte ad un doppio livello di manipolazione: geografico/ideologico e finanziario. La crisi geopolitica non solo ha il compito (nascosto) di far fluire i capitali verso Washington indebolendo la ripresa economica dell’Europa postpandemica, ma viene anche utilizzata come strumento per mantenere l’Europa in una condizione di “cattività geopolitica” all’interno dell’invenzione geografico/ideologica dell’Occidente.
Ora, preso atto che la realizzazione delle strategie globali delle grandi potenze dipende sempre dalla forza (fu Stalin ad affermare “tutti i trattati sono carta straccia, ciò che conta è la forza”), sarà necessario fare un distinguo tra un modello di geopolitica subordinata alla finanza (da non dimenticare che anche l’abbattimento di un aereo russo grazie ai sistemi NATO presenti in Turchia ha determinato una fuga di capitali da Mosca e Ankara nel 2015) ed un modello classico o tradizionale che (volente o nolente) si lega ancora all’idea di Élisée Reclus secondo la quale la geografia non è altro che storia nello spazio[5] ed alla nozione di lebensraum elaborata da Friedrich Ratzel.
Questo concetto merita un breve approfondimento vista l’errata interpretazione al quale è stato sottoposto al preciso scopo di presentare la geopolitica come una sorta pseudo-scienza nazista (un’operazione che già di suo ha ben poco senso se si considera che Ratzel muore nel 1904). Il lebensraum (spazio vitale) è profondamente legato al rapporto tra l’uomo/popolo ed il suolo/spazio. Lo spazio vitale, nella teoria di Ratzel, si sviluppa lungo due direttrici di crescita (wachstum) che comprendono tutti i fenomeni rilevabili nello spazio: un accrescimento verticale ed uno orizzontale. I fenomeni sono i segni vitali della connessione tra uomo e suolo: i campi coltivati, ma anche i luoghi di culto, le scuole, le opere d’arte e le industrie. Da questa connessione si genera l’idea politica, collante spirituale dello Stato e massima espressione dell’accrescimento verticale: ovvero, dello stesso Stato come organismo spirituale. La crescita orizzontale, invece, è collegata alla pura espansione militare ed allo Stato come organismo biologico. Tuttavia, tale espansione deve seguire i fenomeni sul territorio, nel senso di preferire quella direzione che permette una maggiore continuità tra centro e periferia[6]. Appare evidente come una simile elaborazione teorica si traduca direttamente in una condanna dell’imperialismo moderno che non conosce confini ma solo ed esclusivamente fasce di sicurezza.
La geopolitica subordinata alla finanza, infatti, si fonda non sulla salvaguardia del limes, ma sul controllo e sulla gestione dei flussi di capitale (anche attraverso il ricorso alla forza militare per manipolarli) come strumento per controllare il flusso delle risorse attraverso gli snodi geopolitici (ad esempio, il Canale di Suez o lo Stretto di Malacca). La geopolitica classica, al contrario, si fonda sul controllo logistico dell’immediato vicino come spazio per la proiezione di influenza. In questo senso, ad esempio, si potrebbe interpretare la colonizzazione greca dello spazio circostante al Mar Nero (fondamentale per accedere al grano prodotto da Sciti e Sarmati) nell’antichità[7].
Oggi, l’annessione russa della Crimea (dopo che questa era stata inserita all’interno dei confini ucraini solo negli anni ’50 del secolo scorso), a prescindere da quel diritto internazionale che spesso e volentieri viene interpretato sempre a vantaggio della potenza egemone che l’ha creato, può e deve essere interpretata anche in senso tradizionale. Impedire che tale avamposto (dopo la progressiva riduzione dello spazio di manovra a seguito del crollo dell’URSS) finisca sotto controllo della NATO ha sia un senso puramente strategico, sia un valore in termini di connessione spirituale tra suolo e popolo e, dunque, di riaffermazione dello spazio vitale russo. La Russia, inoltre, ha necessità di trasportare le sue risorse naturali per immetterle sul mercato e promuovere la sua economia. Il taglio di gasdotti e oleodotti (quello che gli Stati Uniti stanno cercando di fare attraverso la stessa crisi ucraina), di conseguenza, avrebbe (ed ha) un impatto non solo sull’economia russa ma anche (e forse in modo ancora più decisivo) sul destinatario finale: l’Europa occidentale[8].
Qui entra in gioco anche un altro tipo di considerazione. Il riconoscimento russo delle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk (di per sé non criticabile da chi, ad esempio, ha creato dal nulla il Kosovo o il Sud Sudan per mero opportunismo geopolitico) ha un doppio valore. Ciò si ricollega sia al precedente discorso sulla riaffermazione dello spazio vitale russo (e come compimento di un processo iniziato nel 2014 dopo il colpo di Stato atlantista a Kiev), sia ad un più ampio progetto di accelerazione verso la ricostruzione dell’ordine globale. Appare evidente che la scelta russa si impone anche come una sfida aperta al modello unipolare. Il Cremlino, infatti, in un momento in cui si rafforza in modo costante la cooperazione eurasiatica (grazie soprattutto al lavoro diplomatico di Cina e Iran), dimostra di non temere minimamente un nuovo regime sanzionatorio (strumento principe dell’unipolarismo) che, come già anticipato (e nonostante i timidi sforzi del Presidente francese Emmanuel Macron per salvare il Vecchio Continente dal restringersi del cappio atlantico), andrebbe a discapito soprattutto dell’unico reale sconfitto in questa crisi: un’Europa incapace di salvaguardare il proprio interesse e di farsi polo autonomo e indipendente.
A questo proposito, si rende necessaria una considerazione finale per tutti coloro che proprio nell’Europa occidentale guardano alla Russia con eccessiva speranza. Questa, pur rappresentando un esempio di opposizione all’idea unipolare, persegue naturalmente il proprio interesse nazionale. Non sarà la Russia (anche fin troppo paziente in questo senso) a salvare l’Europa. Tuttavia Mosca, nel caso ucraino, ha il merito di mettere l’Europa davanti al fatto compiuto e di evidenziare oltremodo il ruolo nefasto dell’Alleanza Atlantica come strumento di coercizione del Vecchio Continente.
Di Daniele Perra, eurasia-rivista.com
NOTE
[1]Si veda Wang Huning America against America, Shanghai Arts Press, Shanghai 1991.
[2]Qiao Liang, L’arco dell’impero con la Cina e gli Stati Uniti alle estremità, LEG Edizioni, Gorizia 2021, p. 101.
[3]Ibidem, p. 63.
[4]Ibidem, p. 109.
[5]“La geografia non è altro che storia nello spazio, proprio come la storia è geografia nel tempo”. Questa frase compare in exergo in ognuno dei sei volumi che compongono l’opera monumentale del geografo francese L’homme et la terre (Hachette, Parigi 1906-1908).
[6]Si veda F. Ratzel, Politische Geographie, R. Oldenbourg, Monaco-Lipsia 1897.
[7]Da non tralasciare il fatto che ancora oggi Russia e Ucraina rientrano tra i principali fornitori di grano al mondo. Il 50% del grano importato in Israele, ad esempio, arriva dall’Ucraina.
[8]Allo stesso modo, la Cina, con la Nuova Via della Seta, sta cercando di costruire un modello eurasiatico di cooperazione e sviluppo anche per dare forza propulsiva alla propria produzione economica interna. La creazione di crisi lungo il suo percorso non solo va a danno dell’economia cinese ma anche dei Paesi dell’Asia centrale e meridionale che, attraverso il progetto infrastrutturale, puntano a migliorare le proprie capacità di sviluppo
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link fonte: https://www.eurasia-rivista.com/modelli-geopolitici-a-confronto/
22.02.2022
Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org