Non è sufficiente rimettere in causa il capitalismo
DI SERGE LATOUCHE
E’ un vero peccato, forse una tragedia, che il rapporto tra Serghei Podolinsky (1850-1891), aristocratico e scienziato ucraino esiliato in Francia, e Karl Marx sia stato tanto breve. Quel geniale precursore dell’economia ecologica tentava, in effetti, di conciliare il pensiero socialista e la seconda legge della termodinamica e di operare la sintesi tra Marx, Darwin e Carnot. Sovraccarico di lavoro e poco aggiornato sulle questioni scientifiche, Marx ha avuto il torto, senza dubbio, di delegare al suo amico Engels la valutazione del dossier. Imbevuto della concezione positivista e meccanicista della scienza, quest’ultimo semplicemente non ha compreso la posta in gioco nella ricerca e ha concluso che era priva di interesse. Il timido proseguimento di questo tentativo dopo la rivoluzione d’ottobre con Vernadsky ha avuto un destino ancora più drammatico e l’ecologia russa è stata letteralmente liquidata da Stalin nei gulag siberiani.
Non è assurdo pensare che se quell’incontro si fosse prodotto, molti dei vicoli ciechi in cui si è infilato il socialismo avrebbero potuto essere evitati e, in via accessoria, qualche polemica sul carattere di destra o di sinistra della decrescita…
Invece di integrare gli impacci ecologici, la critica marxista della modernità è rimasta incastrata in una terribile ambiguità. L’economia capitalista è criticata e denunciata, ma la crescita delle forze che essa scatena è qualificata come “produttiva” (mentre è almeno altrettanto distruttiva). Alla fine, questa crescita, vista dal lato della produzione/lavoro/ consumo, è accreditata della creazione di tutti i benefici o quasi, anche se, vista dal lato dell’accumulazione del capitale, essa è giudicata responsabile di tutti i flagelli: la proletarizzazione dei lavoratori, il loro sfruttamento, la loro pauperizzazione, senza parlare dell’imperialismo, delle guerre, delle crisi (comprese certamente quelle ecologiche), ecc. Il cambiamento dei rapporti di produzione (in questo consiste la rivoluzione necessaria e auspicata) si trova così ridotta a un rovesciamento più o meno violento dello statuto degli aventi diritto alla ripartizione dei frutti della crescita. Dunque, si può certo discutere sul suo contenuto, ma non rimetterne in causa il principio.
Evidentemente, non è sulla sinistra non marxista, che da un bel pezzo s’è accomodata nel sistema, che bisogna contare per sollevare la questione.
Esiste, è vero, una critica di destra della modernità, come esiste un anti-utilitarismo di destra e un anti-capitalismo di destra. Non ci si deve stupire che esistano un anti-lavorismo e un anti-produttivismo di destra che si nutrono dei nostri argomenti. Bisogna anche riconoscere che, nonostante il bel libro del genero di Marx, Paul Lafargue, “Il diritto all’ozio” – che resta uno dei più forti attacchi al lavorismo e al produttivismo – nonostante una tradizione anarchica nel seno del marxismo, riattualizzata dalla scuola di Francoforte, il consiliarismo e il situazionismo, la critica radicale della modernità è stata più sostenuta a destra che a sinistra. Se questa critica ha conosciuto dei buoni sviluppi con Hannah Arendt o Castoriadis, che si sono serviti degli argomenti di pensatori contro-rivoluzionari come Burke, De Bonnald o De Maistre, questa critica è rimasta politicamente marginale. I maoismi, trotskismi e altre correnti di sinistra sono tanto produttivisti quanto i comunisti ortodossi.
Non c’è ragione, ciò nonostante, di confondere l’antiproduttivismo di destra e l’antiproduttivismo di sinistra. Lo stesso vale per l’anti-capitalismo o l’anti-utilitarismo. La nostra concezione della società della decrescita non è né un impossibile ritorno al passato, né un accomodamento con il capitalismo, ma un “superamento” (se possibile pacifico) della modernità. Per me, la decrescita è necessariamente contro il capitalismo. Perché se in astratto è forse possibile concepire una economia eco-compatibile con persistenza di un capitalismo dell’immateriale, questa prospettiva è irrealistica per quel che riguarda le basi immaginarie della società di mercato, ovvero: la smisuratezza e il dominio senza limite. Il capitalismo generalizzato non può non distruggere il pianeta come distrugge la società. Tuttavia, non è sufficiente rimettere in causa il capitalismo, bisogna, ancora, prendere di mira ogni società della crescita. «Anche se una economia della crescita è figlia della dinamica di mercato – ha scritto giustamente Takis Fotopoulos – non bisogna confondere i due concetti: si può avere una economia della crescita che non è una economia di mercato, ed è questo in particolare il caso del “socialismo reale”» [1]. Così, rimettere in discussione la società della crescita implica rimettere in discussione il capitalismo, mentre l’inverso non va da sé.
Che esista un immenso cantiere, in particolare a proposito del fatto che siamo tutti “tossicodipendenti” della crescita, non lo nego. Ragione di più per darsi da fare risolutamente. Quanto a pensare, come fanno molti responsabili sindacali o politici di sinistra, che i lavoratori sarebbero più intossicati dei loro rappresentanti e che sono chiusi alle idee di una rimessa in questione della crescita, vi è qui, mi sembra, una singolare diffidenza nei confronti di coloro di cui pretendiamo di difendere la causa. Il modo migliore di sapere se è così è ancora quello di chiederglielo. E’ un fatto notevole che in Francia i responsabili politici di sinistra, come di destra, abbiano sempre rifiutato di organizzare un referendum sul nucleare, così come sono oggi ostili all’organizzazione di consultazioni popolari sugli Ogm. Perciò, mentre i gruppi dirigenti hanno mancato al loro dovere di trasparenza e di informazione, mentre la manipolazione da parte dei media è massiccia fino all’indecenza, il risultato è lontano dall’essere raggiunto.
Anche se i governi di “sinistra” fanno politiche di destra, e lungi dall’osare la “decolonizzazione dell’immaginario” si condannano al social-liberalismo, gli obiettori della crescita, partigiani della costruzione di una società della decrescita conviviale, serena e sostenibile, sanno fare la distinzione tra Jospin e Chirac, Schroeder e Merkel, Prodi e Berlusconi, e anche tra Blair e Thatcher… Quando vanno a votare [ciò che consiglio loro di fare] sanno che, anche se nessun programma di governo della sinistra mette in conto la necessaria riduzione della nostra impronta ecologica, è comunque da quel lato che si trovano i valori di condivisione, di solidarietà, di eguaglianza e di fratellanza. Questi valori non si possono fondare sul massacro della altre specie e sul saccheggio della natura, e conviene estenderne il beneficio alle generazioni future, E’ per questa ragione che la nostra lotta si colloca risolutamente a sinistra.
Serge Latouche
Fonte:www.liberazione.it
9.10.05
Note:
[1] Takis Fotopoulos, “Per una democrazia globale”, Eleuthera.
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