LIBERALIZZAZIONE ECONOMICA E LAVORO

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Causale: Raccolta fondi

DI JULIO GAMBINA ET AL.
Alainet.org

È un fatto noto, anche se molti analisti

si confondono o fingono di farlo, che quando due fenomeni accadono contemporaneamente

esiste tra loro una relazione di causalità. Sembra essere

il caso di un articolo pubblicato di recente dall’Organizzazione

per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), dove vengono segnalati

gli ipotetici benefici della liberalizzazione economica in termini di

lavoro [1], un chiaro obiettivo di un’istituzione associata alla dominazione

mondiale che fa propaganda per la liberalizzazione dell’economia nei

tempi della crisi capitalista.
Associare la problematica liberalizzazione

alla crescita dell’impiego mira a delegittimare le richieste dei lavoratori

contro le manovre promosse dalle politiche anti-crisi delle classi dominanti

nel capitalismo mondiale.

Il solito articolo inizia a porre una

domanda tipica in questo tipo di analisi: gli scambi internazionali

fanno diminuire i posti di lavoro o li creano? Si sarebbe tentati dal

rispondere con un’ovvietà: dipende. Dipende dal contesto storico in

cui siamo; di quali paesi stiamo parlando, di che tipo di commercio,

e in quali circostanze. Un’impresa può trasferire parte della produzione

dall’Europa in Asia alla ricerca di bassi salari, e ciò può causare

disoccupazione in Europa, ma mantenere il livello di impiego globale

inalterato. O può portare a un aumento globale della forza lavoro a

causa dell’aumento di produzione, ma con salario più bassi e condizioni

lavorative peggiori… dipende.

Ma accettiamo la proposta dell’articolo,

che sembra smentire alcune concezioni del nostro senso comune che si

sono costruite nel corso della nostra esperienza storica. L’articolo

afferma: a) “le economie aperte, a

differenza di quelle protette, raggiungono più

alti livelli di crescita economica“; b) “l’apertura

commerciale ha contribuito alla creazione netta di impieghi“;

c) “la stabilità lavorativa globale si è poco modificata “.

Analizziamo le argomentazioni

Allora, da dove arrivano queste informazioni?

Quali sono gli argomenti a partire dai quali possiamo pensare che la

cosa sia certa? Sulla seconda domanda, l’articolo dice poco. Ma andiamo

alla prima. Sappiamo che, come disse in modo poco felice il famoso econometrista,

se si torturano a sufficienza i dati, alla fine finiscono per confessare;

ma quali dati vengono utilizzati dall’OCSE?

Un’analisi molto semplice con dati

della CEPAL e dell’Ufficio di Statistiche Lavorative degli Stati Uniti

(BLS [2]) ci mostra qualcosa di un po’ differente. Negli ultimi venti

anni il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti, Giappone, Francia,

Germania, Italia, Svezia e Inghilterra è cresciuto rispettivamente

del 71, 140, 17, 44, 22, 361 e 11 per cento. E, in termini assoluti

[3], in questi paesi il volume della produzione industriale è calato

del 20, 26 22 percento, 1,4, 5,4, 30 e del 37 per cento nello stesso

lasso di tempo.

Parliamo degli ultimi venti anni, perché

possiamo fissare agli inizi degli anni ‘90 il periodo di una sorta

di successo della febbre liberalizzatrice, e in questo contesto è utile

osservare da lontano gli effetti a lungo termine di queste misure. È

l’epoca della fine del bipolarismo e del sogno della “fine

della storia” e della “fine delle ideologie” che

ha permesso di concepire il trionfo del capitalismo su qualsiasi altro

ordine alternativo. In America Latina già conosciamo le conseguenze

delle politiche che sono state egemoniche negli anni ’90. In Argentina,

anche se nell’ultima decade la disoccupazione è diminuita, (secondo

l’INDEC, il 7-8 percento della popolazione economicamente attiva) non

si è riusciti a raggiungere i livelli vicini al 3-5 per cento che si

sono avuti nel periodo che va dalla metà degli anni ’40 fino alla

fine degli anni ’80. E di fatto stiamo parlando di lavori ben diversi.

Secondo i dati del CEPED-UBA, il potere

d’acquisto dei salari è attualmente il più basso dall’inizio

della serie, e ciò spiega i livelli raggiunti dal tasso di occupazione

(il 42 per cento della popolazione totale) e dai numeri di quelli che

ne cercano una (come dicevamo all’inizio… dipende). Per quanta riguarda

il Brasile, ad esempio, il tasso di disoccupazione nel 2008 era circa

il doppio di quello del 1995, in Messico era praticamente allo stesso

livello, e in Cile è calato del 2 per cento.

Ma in realtà, come dicevamo all’inizio,

questi dati da soli non riescono a spiegare niente. Riescono invece

a mostrare che non sembra esserci un miglioramento sostanziale nei livelli

di impiego come viene invece affermato dagli analisti dell’OCSE. Ma

anche se riuscissero a dimostrare il contrario (come nel caso dell’Ecuador),

sarebbe un errore non prendere in considerazione gli effetti che la

congiuntura internazionale sta avendo sulle nostre economie per i prezzi

dei prodotti destinati alle esportazioni. Sarebbe un errore cadere nello

stesso gioco che stiamo criticando. Non si può analizzare la questione

posta dall’articolo mostrando semplicemente una correlazione tra apertura

economica e lavoro, perché c’è un’enorme varietà di situazioni differenti

che dobbiamo considerare.

Non sarebbe una cosa negativa di rivedere

i dati, perché sembrano poter affermare anche il contrario.

Modifiche nella divisione internazionale

del lavoro

È certo che negli ultimi anni, la

tradizionale divisione internazionale del lavoro nello scambio delle

materie prime tra, rispettivamente, le produzioni della periferia e

del centro è stata rimpiazzata da un processo dove la periferia interviene

anche (anche se continua a esistere il commercio delle materie prime)

nell’esportazione di prodotti finiti, con un aumento significativo nell’esportazione

dei prodotti ad alto contenuto tecnologico. In termini molto schematici,

alcune imprese con la capacità di operare in ambito transnazionale

hanno avuto l’opportunità di trasferire nella periferia interi segmenti

della catena produttiva (prodotti dello sviluppo della tecnologia informatica

e delle comunicazioni), utilizzando il paese ricevente solo come piattaforma

di esportazione.

Il processo è semplicemente la

ricerca del più basso costo della manodopera. Con le parole di Giovanni

Arrighi, possiamo dire che assistiamo “a una divisione del lavoro

in cui il centro è prevalentemente il luogo di ubicazione delle attività

intellettuali del capitale corporativo e la periferia quello dei muscoli

e dei nervi.”

Si è verificato un processo di

espansione della relazione salariale, dove la fabbrica del mondo si

trasferisce dal “centro” capitalista verso la periferia. Questo

è il ruolo svolto in modo sempre più marcato dalla Cina

nell’economia mondiale contemporanea e che spiega in buona misura la

crescita dell’impiego e lo sfruttamento mondiale dei lavoratori a dispetto

della diminuzione dell’impiego, non solo a causa della crisi, nei principali

paesi capitalisti sviluppati.

In piena crisi è avvenuta la perdita

del lavoro nei territori tradizionali e storici dello sviluppo capitalista,

mentre si espande la relazione sociale di sfruttamento nelle nuove frontiere

di valorizzazione del capitale.

Grafico nº 1. Relazione tra le esportazioni ad alto contenuto tecnologico
dei paesi selezionati e degli Stati Uniti [4].

blank

Alla fine, questa esportazione di prodotti

ad alto contenuto tecnologico né ha alterato la partecipazione

dei paesi in valore aggregato mondiale, né ha modificato sensibilmente

il livello dei salari. Fondamentalmente perché si tratta di un trasloco

di segmenti di manodopera intensiva alla ricerca di una riduzione dei

costi, e non di un processo di sviluppo industriale, in nessuno dei

sensi che si possa attribuire al termine.

Forse questa ultima questione ci può

essere utile nello sforzo argomentativo e nella successiva “tortura

di dati” a cui si sottopongono solitamente gli ideologi del

libero commercio per vedere quanto sia positiva l’apertura delle frontiere

per consentire i loro commerci.

In sintesi, ci preoccupano i

contenuti “professionali” e “obiettivi” che vengono

diffuso dalle agenzie internazionali che pretendono di essere imparziali.

Nel nostro caso vogliamo enfatizzare che l’OCSE realizza analisi che

sono fonte di informazione per le decisioni che vengono assunte negli

ambiti del potere mondiale, specialmente nel G20, il nucleo che definisce

la rotta del capitalismo mondiale in crisi.

Non solo si cerca di denunciare e disarmare

l’argomentazione delle classi dominanti, ma anche di costruire un pensiero

proprio per l’emancipazione delle classi subalterne. Negli ultimi venti

anni non è esistita solamente un’offensiva del regime del capitale

per restaurare la dominazione capitalista che era stata contrastata

nel corso di decenni dalle lotte operaie e popolari in una cornice bipolare.

Il progetto del capitale tenta di fermare le proposte di emancipazione

dei lavoratori, ma non può evitare l’esperienza di resistenza e di

costruzione di un’alternativa politica, sociale e culturale, ciò

che avviene nella realtà della nostra America dell’inizio del XXI secolo.

Bisogna aggiungere che, al progetto

del capitale, si è abbinato un modello sindacale conciliatore

e possibilista rappresentato in ambito globale dalla Centrale Sindacale

Internazionale che lascia senza rappresentanza milioni di lavoratori,

la maggioranza dei quali precarizzata; ma si deve anche registrare l’esperienza

innovativa della convergenza dei lavoratori nell’Incontro Sindacale

della Nostra America, espressione di un modello unitario e di classe

che favorisce l’organizzazione dei lavoratori al di là dell’organicità

sindacale, interpellandoli nel territorio e nelle condizioni generalizzate

di precarietà per favorire l’insediamento di un modello di organizzazione

e di lotta dei lavoratori basato sul confronto con l’iniziativa delle

classi dominanti e per la proposta di un’alternativa anticapitalista.

Note:

[1] ¿El comercio internacional acaba con los empleos o los genera?,www.ecd.org.

[2] Bureau of Labour Statistics.

[3] Che sia calato il numero assoluto dei lavoratori è sommamente importante perché, crescendo la popolazione, ciò ha anche effetto sul tasso di disoccupazione.

[4] Per questioni di disponibilità i primi dati dell’America Latina e Messico corrispondono all’anno 1986, mentre quelli dei cinque paesi asiatici al 1981.

**********************************************

Fonte: Liberalización económica y empleo

12.01.2012

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

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