DI SERGIO BARATTO
Il primo amore
Fino a poco tempo fa, il disastro climatico era praticamente bandito dal discorso collettivo; sui media cosiddetti mainstream non ce n’era quasi traccia, e quel poco che c’era veniva abilmente infrattato negli angoli meno visibili.
Poi l’emergenza si è fatta talmente palese che non è stato più possibile censurarla.
Così il discorso collettivo si è popolato di allarmi, appelli, conferenze, concerti, scomode verità, negazionismi ridicoli, rapporti scientifici, consigli di vita quotidiana (talvolta assurdi: “Come salvare il pianeta riciclando le bustine del tè!” e via dicendo).
La coscienza collettiva ha preso atto che il problema esiste ed è enorme. Tuttavia, a parte il brivido di paura e orrore che ci coglie a volte leggendo certe notizie (e che ci fa immaginare i luttuosi scenari futuri cui stiamo condannando i nostri figli e nipoti), non si va molto al di là di un generico fatalismo. Come diceva un giorno una mia collega durante la pausa caffè: “Ormai è troppo tardi, siamo fottuti. Che ci possiamo fare? Io, per me, cosa vuoi, tanto muoio prima… Mi spiace solo per mia figlia”.
Troppo comodo biascicare che la catastrofe è già accaduta.
Qualche giorno fa, per inciso, Repubblica raccontava l’ennesima agghiacciante manifestazione dello “human-made climate change”. I deserti si stanno estendendo anche sott’acqua:
«Il blu è il colore del deserto, dove né alghe né pesci trovano cibo per nutrirsi, l’acqua è un brodo caldo e insipido e tutto ciò che è vita preferisce restare alla larga. Questo tipo di vuoto si trova sempre più spesso negli oceani, in aree che diventano più vaste con il progredire del riscaldamento climatico».
Succede con una velocità imprevista: «Nessuno dei nostri calcoli aveva previsto un progresso così rapido. (…) Negli ultimi 9 anni i deserti si sono estesi con una rapidità 10 volte superiore al previsto». E – tanto per cambiare – il Mediterraneo è particolarmente colpito: «l’estensione delle aree desertiche nel Tirreno e nell’Adriatico si aggira intorno al 20 per cento» laddove altrove la percentuale è “solo” del 15 per cento.
È solo un esempio a caso. Avrei potuto indifferentemente citare il ritmo doppio di riscaldamento dell’Italia, l’imprevisto supercaldo sopra l’Antartide, o l’agonia della foresta amazzonica. E così via. Sono solo semplificazioni da giornalismo sensazionalistico? Allora ci si legga il quarto Assessment Report (AR4) dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPPC).
Di sfuggita: quanto distano i cinque minuti di fatalismo a breve termine della mia collega plebea dal “siamo già morti” estetizzante e pacificato che certi intéllos amano mormorare con voce estenuata?
Le plat pays qui était le mien
Qualcuno ha seguito, anche distrattamente, il tenore dei discorsi che si fanno oggi trasversalmente agli schieramenti politici, per esempio intorno ai Treni ad Alta Velocità, al potenziamento delle reti stradali nel Norditalia – in Lombardia è una questione di enorme peso, in questi ultimi anni e in previsione del controverso Expo 2015 – o in merito all’affaire Alitalia-Malpensa”? Qualcuno ha notato che tutti questi discorsi sono imperniati su/deteminati da un soggetto preciso, ovvero la circolazione delle merci?
Sembra che oggi la logistica sia il nuovo dio imperativo della modernità. Che sia fondamentale nientemeno che per la sopravvivenza della società civile. Quante volte ci siamo sentiti dire che la Tav sì, distruggerà una valle, Malpensa certo, segherà il Parco del Ticino, le autostrade e le superstrade d’accordo, disintegrano il territorio, ma tutto ciò è fondamentale per lo sviluppo del Paese, per il benessere di tutti, per il PIL, per i conti pubblici, per la produttività, per il Fondo Monetario Internazionale, per l’UE, perché si creino nuovi posti di lavoro (precario, ma tant’è), perché bla bla ecc. ecc.
Sviluppo e Logistica: la coppia regale di dèi del nostro culto religioso liberista.
Il caso Malpensa è emblematico: il destino dell’aeroporto sembra essere diventato questione di vita o di morte per l’intero Norditalia. In effetti lo è, ma non nel senso in cui ce la raccontano le istituzioni: l’allargamento dello scalo, che oggi sembra messo in pericolo dalla crisi di Alitalia, tutto basato su proiezioni aleatorie di ipotetici futuri flussi commerciali – cioè sul nulla – finirebbe per infliggere al Parco del Ticino un colpo mortale, segandolo in due e interrompendo così uno degli ultimi corridoi biologici che collegano la dorsale appenninica alle Alpi e, più in grande, il Mediterraneo e il Nordafrica all’Europa settentrionale. Sto esagerando? Si veda qui: risale a qualche anno fa ma è ancora attuale.
Nell’appello, firmato da diverse personalità del mondo scientifico, si legge tra l’altro: «La terza pista, se non viene fermata in tempo, sommata alle numerose infrastrutture in progetto, sarà Il colpo mortale all’esistenza del Parco del Ticino, una pugnalata al cuore all’ultimo, insostituibile, prezioso corridoio biologico, esistente nella pianura padana.
In questo modo verranno progressivamente alterati gli equilibri, non solo del territorio del Parco, ma dei due grandi ecosistemi che il Parco del Ticino collega, quello alpino e quindi europeo continentale a nord, e quello mediterraneo africano a sud».
Ora, io vorrei chiedere al Fronte Ecumenico Unito Formigoni-Penati-Moratti: qual è la vera tragedia? La perdita d’importanza di Malpensa? Quest’altro problema è davvero così ininfluente da non meritare la minima attenzione? Proprio non ve ne frega niente?
[Piccola postilla personale: lungo il Ticino io sono cresciuto, è il mio fiume. Di più: il Ticino con i suoi boschi, le sue brume e le sue piatte campagne è il mio Heimat, la mia patria, la terra madre da cui traggo lo scampolo di identità che ancora mi preserva dal sentirmi completamente sradicato. Chi briga per la sua distruzione è mio nemico.]
Chi prenderà il Palazzo d’Inverno
José Bové: “On ne peut pas défendre l’environnement sans remettre en cause l’ordre économique de la planète”.
Sembra ovvio, ma vai a dirlo ai nostri adoratori terminali dello sviluppo – e mi riferisco qui anche alla quasi totalità di ciò che con un imperscrutabile anacronismo linguistico chiamiamo ancora centrosinistra e sinistra (quanto ai Verdi italiani, intesi come partito, sono talmente inetti e inerti che a mio avviso non meritano nemmeno una menzione). Un’area ideologica che ancora mostra di ignorare il problema, preferendogli di gran lunga le più remunerative attività di cementificazione del territorio, o che si fa scudo con eleganti ipocrisie e illusioni pietose (cui non crede più nessun altro) come la balla elegante dello “sviluppo sostenibile“, tanto caro a veltroniani e liberalprogressisti perché suona concettualmente morbido.
Rimettere in questione l’ordine economico del pianeta significa, detto brutalmente, farla finita con il neoliberismo. Il che non è così semplice come continua sembrare a certuni (forse convinti che basti espugnare il Palazzo d’Inverno premurandosi stavolta di non portare con sé compagni georgiani coi baffi).
Per dirla in termini marxiani: se per “ordine economico” intendiamo l’insieme dei rapporti di produzione, cioè la struttura economica della società, una rivoluzione dell’ordine economico sarebbe ovviamente una rivoluzione dell’intera vita, dal momento che i suoi processi sociali, politici e spirituali sono condizionati dai modi di produzione.
Dunque, scalzare dalle fondamenta il sistema vuole dire passare come una valanga su pressoché ogni aspetto della nostra vita. Significa smantellare le categorie di pensiero e azione che da secoli plasmano la nostra civiltà. Significa rimettere in discussione l’industria (vale a dire il modo di produzione che negli ultimi secoli ha informato di sé la civiltà occidentale in maniera talmente profonda da finire per colonizzarne la struttura genetica), l’agricoltura, le strutture politiche e amministrative, persino i modi in cui attualmente la maggior parte delle comunità umane si organizzano: città, stati, sistemi di governo.
Non è un caso se persino le teorie alternative allo sviluppo neoliberista più articolate e dettagliate, vale a dire
le “meno utopistiche”, quelle che cercano di ragionare in termini il più possibile empirici e concreti – vedi per esempio la teoria della Decrescita formulata da Serge Latouche –, danno come assodata la necessità di una revisione delle strutture della vita collettiva di proporzioni per noi quasi inimmaginabili: fine della forma-metropoli e delle entità politiche nazionali e internazionali, fine del monetariato, instaurazione di reti di ecovillaggi e bioregioni nel contempo autosufficienti e interconnesse…
Stravolgere le nostre categorie di pensiero, la cattedrale dei nostri valori e della nostra prassi, il nostro immaginario, la nostra sostanza spirituale: farla finita con il capitalismo è un’impresa di fronte a cui anche le più ardite utopie sembrano facili come una lista della spesa. Al punto in cui siamo, data la progressione sempre più rapida verso la catastrofe climatica, la crescita demografica impazzita e la scelta suicidaria di molte società umane (un esempio in grande: la civiltà statunitense; un esempio in piccolo: quella italiana), temo che sarà piuttosto la natura, cui stiamo infliggendo con irresponsabile e ottusa cattiveria ferite atroci, a farla finita con il nostro ordine economico mondiale.