Riceviamo oggi e pubblichiamo dal Prof. Franco Maloberti un testo di quasi tre decadi fa, ma ancora molto attuale. Chi continua a perseguire un mondo omologato che annulla ogni differenza culturale per imporre il mercato unico, ha stravolto sì l’Occidente, ma non è detto che abbia ben compreso altri popoli e altri continenti dove vige ancora diversità. Che i venti di guerra vorrebbero travolgere, soprattutto quando si parla di Oriente a tutto tondo, con le sue contraddizioni e le sue ricchezze, materiali e immateriali.
Buona lettura.
La Gestione delle Differenze
Di Franco Maloberti
Voglio ora affrontare un importante problema che, a prima vista, sembrerebbe avere un effetto marginale sulla occupazione; in realtà, come vedremo, esso costituisce un punto cruciale per raggiungere un assetto stabile del mondo del lavoro delle future società.
Come ho indicato nel titolo il problema in discussione riguarda le differenze culturali e, di conseguenza, quelle economiche e sociali che caratterizzano regioni diverse pur se contigue tra loro. Le differenze sono provocate da specifici assetti culturali, religiosi, morali e conoscitivi e sono, per lo più, indipendenti dalla disponibilità o meno di risorse economiche o naturali.
Prima di procedere con la discussione voglio sottolineare che le diversità di cui tratterò debbono essere considerate solo come tali e mai debbono essere assunte come una aprioristica distinzione tra migliore o peggiore: una società ricca o permissiva non può né deve essere considerata a priori come migliore (o peggiore) di una depressa o, anche, di una società che limita le prerogative personali.
Esistono allora delle differenze, spesso in forte antitesi tra loro. Il problema chiave che dovrà essere affrontato dalle società future riguarderà la armonizzazione e la gestione di queste diversità. Una tale esigenza era marginale fino a qualche decennio fa: le differenze erano sfumate territorialmente (una regione ricca o evoluta confinava con una meno ricca e evoluta e così via fino a raggiungere le aree depresse); inoltre, la limitata disponibilità di informazione rendeva poco evidenti le differenze stesse: esse, sia culturali che politiche, erano palesi solo a pochi: ai “viaggiatori” che avevano la possibilità, ora estesa a molti, di percepire i contrasti.
La sfida politica del prossimo futuro sarà quindi la necessità di gestire le differenze. Ritengo fortemente che la soluzione al problema non è (e non potrà mai esserlo) la rimozione delle differenze stesse. Cercare di costruire un mondo in cui tutti siamo uguali non solo è utopico ma (come dimostrato nel passato) anche irrealizzabile. Questo perché in regioni diverse, pur contigue, si hanno “condizioni al contorno” (sociali, economiche e politiche) e condizioni preesistenti o “iniziali” (tradizionali e culturali) così diverse che cercare di pilotare un qualsivoglia “sistema regione” verso un modello unificato è praticamente impossibile. Inoltre, come insegna la storia (anche di tutti i giorni), la gente desidera la diversità: basti osservare come si aggeggiano i metallari per sembrare differenti o, in un contesto più serio, basti vedere come si vestono gli appartenenti a certe religioni per rendersi manifesti.
Il vero problema di domani sarà allora arrivare alla pacifica coesistenza tra realtà diverse che, inevitabilmente, avranno una diversa organizzazione sociale e un diverso sviluppo economico. Come ho già detto, si dovrà evitare ogni intervento tendente ad equalizzare; inoltre, anche se questo può sembrare socialmente e moralmente inopportuno, ogni azione organizzata di “solidarietà” (tranne che per eventi assolutamente straordinari e catastrofici) dovrà essere prudentemente evitata: è stato più volte dimostrato che sussidi e aiuti a fondo perduto non provocano alcun miglioramento. Al massimo, non fanno peggiorare la situazione, ma molto spesso portano solo a ruberie e a corruzione.
Se da un lato si deve scoraggiare e impedire lo sfruttamento delle regioni povere perpetrato dalle regioni ricche, dall’altro si devono evitare erogazione di sussidi immotivati e l’invio perenne di aiuti. Queste azioni sono, sempre, una violenza alla cultura e alla dignità di chi (spesso con buone intenzioni) si vuole assistere. Invece di favorire politiche di regioni ricche che fanno da tutore (e balia) a quelle povere, bisogna cercare di capire le differenze, farle conoscere e rispettarle. I valori che sono ritenuti importanti in una certa regione sono pagati da un certo punto di vista con limiti e rinunce; queste, a parere di chi non capisce, sono considerate vere assurdità; ma ogni tentativo di modificare le cose (usando una maggiore forza economica) per correggere i presunti assurdi limiti è (vale la pena ripeterlo) fortemente negativo.
La strada giusta è favorire una profonda conoscenza reciproca (e non limitata a stereotipi). Bisogna che gli uni sappiano quali sono i valori degli altri. Bisogna che la conoscenza delle convinzioni degli altri produca comprensione e rispetto. Bisogna bandire dalla cultura di tutti reazioni di tipo “integralista”. In questo modo la adeguata diffusione della informazione e la consapevolezza che ne deriverà consentiranno di convivere con le differenze.
In maniera naturale, poi, la visione dei posirisultati ottenuti in realtà differenti, potrà portare ad una valutazione critica dei propri valori, specie per quelli meno radicati, e, nel caso, potrà determinare una lenta e graduale evoluzione nei convincimenti.
In definitiva, la gestione delle differenze deve saper stimolare le società ad una introspezione, ad una analisi di costi e benefici sulle proprie e le altrui scelte morali e culturali; questo anche per generare, attraverso una profonda reciproca conoscenza, convivenza e rispetto reciproco.
Una corretta gestione delle differenze la si dovrà anche applicare al problema occupazionale. Attualmente le congiunture occupazionali sono affrontate con interventi che promuovono nelle aree depresse attività produttive totalmente nuove, non corrispondenti e, spesso, irrispettose delle identità culturali e tradizionali. Questo, come a me sembra evidente, è un grave errore e, anche se non c’è bisogno di alcuna dimostrazione, si possono riferire molti esempi di sciagurate decisioni politiche che sono fallite perché avevano portato a brusche introduzioni di attività produttive “nuove”. Le iniziative sono state formalmente giustificate da una ampia disponibilità di mano d’opera (spesso a basso costo) ed erano favorite da generosi finanziamenti governativi. Tali tipi di azioni hanno sempre portato a vantaggi effimeri per le regioni interessate, a temporanei vantaggi per le industrie insedianti ma, in compenso, hanno generato un grande potere per i politici (o meglio i politicanti) di turno che, attraverso la erogazione di benefici e favori, ottenevano un grande consenso clientelare.
Quello che invece si deve (e si doveva) fare è incrementare l’occupazione nei settori tradizionali, o in quelli vicini ai settori tradizionali, migliorandone la produttività e la qualità. Per questo bisogna valorizzare nel territorio la conoscenza e la cultura tradizionale; bisogna rimuovere la ostilità per “il vecchio” che ostacolerebbe “il nuovo”; bisogna stimolare l’orgoglio e la identità regionale; bisogna favorire la crescita qualitativa e quantitativa. Il tutto impiegando, anche, un po’ di risorse pubbliche.
Voglio però rimarcare ancora una volta che l’utilizzo dello strumento “pubblico danaro” deve essere limitato al minimo e deve servire solo come un catalizzatore iniziale per una evoluzione (e non una rivoluzione) delle attività produttive e occupazionali: i fondi facili, quelli dati a fondo perduto ed erogati per lungo tempo hanno effetti diametralmente opposti a quelli desiderati; “viziano” le regioni beneficiate e le addormentano nello stato di limitato sviluppo in cui si trovano.
Se si vuole ottenere una crescita occupazionale, attraverso un ampliamento del mercato e una maggiore redditività delle produzioni, è necessario responsabilizzare, insegnare a fare (come diceva Mao: a chi ha fame non devi dare un pesce ma gli devi insegnare come pescare), stimolare lo sviluppo; ma, soprattutto, è necessario far capire che chi si trova in posizione arretrata, deve prima di tutto aiutarsi da sé.
Di Franco Maloberti
Da: La Questione Occupazione, p. 21-26, Gianni Juculano Editore, 1995
Franco Maloberti. Professore Emerito presso il Dipartimento di Ingegneria Elettrica, Informatica e Biomedica dell’Università di Pavia; è Professore Onorario all’Università di Macao, Cina.