In cima ad un castello della Sicilia

Da una smart-city sperduta, riflessioni intorno all’ambiguità del potere.

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Di Stefano Vespo per ComeDonChisciotte.org

Salgo l’ultima rampa di gradini scavati nella roccia, quelli più scoscesi, resi lisci dalle violente tramontane, dalla pioggia, dai secoli. Attraverso la severa porta normanna, uscendo dall’ultima torretta dai merli a coda di rondine, raggiungo la nuda sommità del castello. Eccomi sul punto più alto dell’enorme masso di arenaria, da cui posso guardare, faccia a faccia, il manto innevato dell’Etna, a est; le vette lontane, arrotondate e azzurrine, delle Madonie, a ovest; le cime boscose del Monte Altesina, a sud, covo di predoni saraceni, mille anni fa. Ma qui il tempo ha ritmi larghi, maestosi. Domino il cuore della Sicilia; le sue vicende di invasioni, di guerre, di prepotenze finite in polvere. Sul punto più inviolabile del castello di Sperlinga, dove un drappello di francesi fuggiti terrorizzati dalla carneficina del Vespro resistette per un anno all’assedio aragonese. “Sperlinga alfin pietoso ai Franchi”, scrive proverbialmente lo stesso Torquato Tasso. Aprirono le porte, poi, per fame o piuttosto per opportunismo: gli consentirono infatti di raggiungere illesi la Calabria, a godersi i feudi donati per il loro supposto eroismo dal francese Carlo D’Angiò.

Ma attaccata alla ringhiera del mastio aereo e imprendibile da cui mi sporgo, una sorpresa smonta di colpo l’emozione del luogo e del tempo. Due oggetti candidi e circolari spiccano violentemente: sono rivolti anch’essi al paesaggio, ma evidentemente interessati a ben altro. Dotati di piccole spie verdognole, rilevano e amplificano il segnale della rete Wi-Fi. Da questi parte un tubo flessibile grigiastro che sormonta la roccia, penetra nella pietra, raggiunge una cassetta di plastica, piazzata dietro il portale normanno. “Serve a coprire il paese intero con la rete Wi-Fi,” mi spiegano, “un progetto per farci diventare una smart-city!” Infastidito da quelle presenze, comincio a notare anche le numerose telecamere, da poco piazzate in ogni angolo della fortezza; anch’esse candide e impersonali, il cui occhio buio e fisso spia ostinatamente, irremovibilmente ogni passo dei visitatori. Ecco: questo è l’internet delle cose! Dispositivi piazzati nei più diversi luoghi pubblici! Tutti i nostri dati, anche i più insignificanti, divorati e rielaborati dai sistemi dell’intelligenza artificiale, i cui scopi sfuggono alla nostra conoscenza, al nostro controllo! Delle costanti spine nel fianco, piazzate lì a scrutarci lungo le nostre esistenze.

La cosa è allarmante, se oggi anche il più piccolo borgo dell’angolo più remoto della Sicilia ne è abbondantemente provvisto. Una silenziosa e veloce proliferazione, accettata dalla maggior parte della gente come cosa benefica e normale.

 

Per gestire questo imponente sistema occorrono antenne più potenti: bisogna rompere i vecchi limiti e sdoganare il 5G. E così, grazie all’impegno di due politici siciliani, Urso e Pogliese, passa un emendamento al Decreto Concorrenza che innalza da 6 V/m a 15 V/m la soglia limite della media dell’inquinamento elettromagnetico. Dal momento che in Italia, grazie a un vecchio provvedimento di Monti, si calcola la media su un’intera giornata, e non su sei minuti come avviene in Europa, accadrà che di giorno, quando il traffico è più intenso, si potranno avere picchi ben al di sopra della soglia fissata. Probabilmente anche più alti dei limiti europei.

Questo, si dice, servirà a recuperare il nostro ritardo: il tempo sottratto allo sviluppo economico.

E’ difficile comprendere in che modo l’uso sempre più intenso e prolungato dei social da parte dei bambini e dei ragazzi, aumentato notevolmente dopo i mesi di reclusione subiti durante la pandemia, possa favorire l’economia. L’aumento di ore trascorse sulle piattaforme sociali sta provocando invece un serio aumento di casi dei depressione, ansia e  suicidio. Secondo le ricerche dello psicologo americano Jonathan Haidt, anche l’abbassamento dei livelli di attenzione e del quoziente intellettivo è da attribuirsi al tempo trascorso sugli schermi dei dispositivi digitali, tempo sottratto ad un normale sviluppo cognitivo e affettivo, secondo le modalità naturali del contatto fisico e delle relazioni umane reali.

Il continuo sperimentare nelle scuole di modalità didattiche on-line, insieme alla recente introduzione della realtà aumentata, completa di caschetti e  sensori, legittimerà definitivamente questa tendenza.

E’ difficile anche comprendere come le telecamere e le connessioni Wi-Fi, che stanno proliferando ovunque; i sistemi di controllo delle autostrade e di ogni spazio pubblico; la gestione digitalizzata di servizi bancari e di transazioni economiche; il trasferimento sulla rete di ogni aspetto dell’esistenza di miliardi di utenti, potranno risanare i decenni in cui l’economia reale italiana è stata devastata dal passaggio all’euro, dalla bolla speculativa del 2007, dalle chiusure forzate durante la pandemia, e, recentemente, dalle “sanzioni” alla Russia a causa della guerra in Ucraina.

Tanto più che gli effetti sull’uomo dell’elettromagnetismo sono incerti. Ma i nostri politici ragionano così: dal momento che non sappiamo se una elevata esposizione alle onde elettromagnetiche ci potrebbe causare danni, facciamo intanto come ci pare. Come dire: dal momento che non so se una cosa mi può far male… ne faccio abuso!

 

Eppure internet era nato per promuovere l’individualismo, la libertà personale, il libero accesso alle informazioni, scavalcando i limiti imposti dalle condizioni di vita e dalle istituzioni. Oggi invece si è trasformato in uno strumento di controllo, le cui potenzialità sono tremende: trasferire tutta la nostra vita all’interno di un sistema gestito da altri ci espone completamente a qualunque forma di abuso. Ed il controllo viene stabilito generando dipendenza negli utenti. Juan Carlos De Martin, docente di tecnologie informatiche al Politecnico di Torino, afferma chiaramente che “lo smartphone è una macchina che è stata esplicitamente progettata, anche con l’apporto di neuro scienziati e psicologi, per creare dipendenza.”

 

Questa ambiguità non riguarda soltanto il mondo digitale. In occidente politica, istituzioni e informazione, tutto ciò che un tempo è stato il cardine della democrazia, si è trasformato nel suo opposto. Le conquiste politiche di cui andavamo fieri sono diventate adesso gli strumenti di una nuova forma di autoritarismo.  Un autoritarismo eluso spesso nei panni dei diritti delle minoranze e degli esclusi. I paesi occidentali sono soggetti a un autoritarismo esercitato non più da partiti politici o da figure carismatiche, come avveniva nel Novecento e avviene ancora oggi in alcuni paesi del mondo,  ma dai monopolisti globali del digitale, del farmaco e della finanza. Sono tutte le istituzioni politiche e sociali a essere diventate ambigue.

Ma che nome dare a tutto questo? Quali linguaggio utilizzare, se quello che ci siamo faticosamente costruiti è ormai vuoto, è ormai complice? Probabilmente è l’informe a generare ansia, a esporci a una intollerabile angoscia, e così molte intelligenze preferiscono restare attaccate alle vecchie forme, precedenti alla degenerazione subita dal nostro sistema. Vecchie forme, in cui il nemico era chiaro, la lotta coerente. Cosa ben diversa dalla situazione attuale, quella in cui un sistema nato per assicurare la democrazia e la libertà ha finito invece per prostituirsi al più feroce autoritarismo. Il nemico ci è cresciuto dentro: ciò che era garanzia di democrazia oggi è strumento di controllo e di abuso. E’ questa l’ambiguità che impedisce a tanti di poter leggere quello che ci sta accadendo.

Così, ogni tanto si cerca di mettere in scena una contrapposizione tra democratici e fascisti. Ma sono dei rituali sterili, addirittura pericolosi: tanti giovani hanno ormai capito per istinto che dietro c’è il vuoto. E nel vuoto, tutto è possibile!

Il genocidio di Gaza, che il mondo occidentale non può che guardare con orrore e con colpevole impotenza, è un simbolo di questo stato delle cose: è lo specchio che ci getta in faccia ciò che siamo diventati. Il puro esercizio della nostra stessa potenza, che ha eroso dall’interno qualunque ideale etico o politico. Contro la cui fatalità non possiamo più nulla.

 

Il vessillo di tutto questo l’amministrazione locale del piccolo borgo in cui vivo lo ha piazzato proprio in cima all’antico simbolo per eccellenza del dominio, del potere, del controllo: un castello. Una necessità, oppure una scelta consapevole, ironica e amara?

Ma da quassù riesco quasi a consolarmi. Il paesaggio della Sicilia che ho di fronte porta con sé un insegnamento profondo: tutto ciò che l’uomo costruisce fatalmente si corrompe, si sgretola, e infine sparisce. Ritorna ad essere quell’eterna giovinezza della terra che splende di fronte ai miei occhi.

Di Stefano Vespo per ComeDonChisciotte.org

Stefano Vespo. Poeta e scrittore. Laureato in Filosofia, attualmente insegna lettere al Liceo di Nicosia. Sposato, vive a Sperlinga. Scrive su temi di politica e società su ComeDonChisciotte.

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