Libro fortunato. Siamo d’accordo. E utile. Ma anche pericoloso, a dire il vero. Per la sua capacità, talvolta, di neutralizzare la protesta più vera.
DI ALESSIO MANNINO
La Voce del Ribelle
Ed è arrivato anche l’aggiornamento al libro-tormentone di questi ultimi due anni. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo hanno aggiunto le ultime notizie alla loro magistrale inchiesta su sprechi e privilegi della politica, la Casta (Rizzoli). I detrattori, in genere gli stessi mandarini sotto accusa, li hanno additati come qualunquisti, quasi come antidemocratici. Ma non è così. “Non si capisce perché l’indignazione di un britannico sia indignazione, e l’indignazione di un italiano sia qualunquismo”1, ha sbottato in tivù lo stesso Stella in risposta al sottosegretario Roberto Castelli, che aveva liquidato al solito modo i dati inoppugnabili enumerati dal giornalista del Corriere della Sera. Il quale, intendiamoci, è un segugio di razza: documentato, ficcante, con la suola consumata sul campo come le migliori penne di una volta. E con il merito indiscutibile di aver messo nero su bianco una tale montagna di scandali e ruberie da giustificare in pieno un sacrosanto disgusto per questi pover’uomini, i politici, dediti al basso saccheggio satrapesco.
Eppure, lasciando stare gli inglesi, imbattibili quanto a senso civico ma poco invidiabili su tanti altri fronti (l’alienazione capitalistica l’hanno inventata loro, mica noi), Stella ha torto e Castelli, benché sia dura ammetterlo, ha ragione. Ma non per i motivi suoi. Non perché denunciare il feudalesimo straccione della politica corrisponda a un insulso e indistinto rifiuto della politica tout court. Solo a lorsignori, difatti, può venire la sfacciataggine di negare che sono proprio loro, coi loro maneggi e carrozzoni clientelari, a incancrenire la storica estraneità degli italiani alla cosa pubblica. No, è per un’altra ragione che ha torto, il vendicatore dei torti di bilancio. Una ragione decisiva. Questa: l’italiano medio, col suo atavico disprezzo misto a ipocrita riverenza per lo Stato, si nutre di un’irritazione facilona, ciclica, pompata interessatamente dai poteri forti attraverso i media, poiché una regoletta antica quanto l’arte di governare dice che scoppi controllati di costernazione popolare sono un ottimo strumento per tenere il guinzaglio al collo della plebe. Mantenendola così insensibile alla stretta dall’alto, che resta ben salda nelle mani dei grandi interessi economici. Che il Quirinale ci costi di più di Buckingham Palace è di sicuro un oltraggio per quell’Italia impoverita che non arriva a fine mese. Ma limitarsi educatamente a chiedere tagli etici quando è l’intero edificio della res publica a costituire un’infamia fondata sul furto di sovranità, equivale a indicare il dito e non guardare la luna. Insomma, ci vogliono mezzi ciechi e spodestati, oltre che derubati.
Antipolitica?
Sebbene possa sembrare un paradosso ai più, questo risentimento da ragioneri contribuisce al qualunquismo come nessun Beppe Grillo potrà mai fare. Anche perché Grillo non è qualunquista: fa politica, altrochè antipolitica. Come definire altrimenti le centinaia di migliaia di persone che al V-Day 1 dell’8 settembre 2007 firmarono per “ripulire” il parlamento dagli indagati, limitarne i mandati e reintrodurre la preferenza elettorale, seguite da altrettante nel V-Day 2 del 25 aprile scorso per abolire l’Ordine dei giornalisti, il finanziamento pubblico all’editoria e la legge Gasparri? Ma tanto bastò all’informazione di regime, in testa il Corriere, per far risuonare il fuoco di fila della Casta sbertucciata fino a un giorno prima, con l’intero arco parlamentare che liquidava il movimento del Vaffanculo come una marmaglia di estremisti, populisti, addirittura terroristi e, immancabilmente, qualunquisti. Uno per tutti, basti ricordare il compagno D’Alema, che, sinceramente protervo come sempre, dichiarava un «fastidio antropologico»2 per quei minus habens scesi in piazza.
Il vero qualunquismo
Il qualunquista vero sta ai piani alti. Più alti delle Camere del Parlamento. Siede dietro le lussuose scrivanie di ciliegio degli editori di giornali e televisioni, ovvero i gruppi industriali e finanziari che finanziano e ricattano gli omuncoli della partitocrazia (i quali sono molto contenti di entrambe le cose: sono palanche e visibilità garantite). Sono i signorotti delle multinazionali, delle banche e delle assicurazioni, cioè i reali detentori delle leve del Potere, quello con la P maiuscola: quell’Idra di interessi poco visibili che condiziona le scelte politiche e la gestione dei beni pubblici in misura incomparabilmente superiore rispetto al voto del gregge, a cui resta il contentino della crocetta elettorale. Sono i più bei nomi dell’imprenditoria e dei salotti bancari a muovere le truppe cammellate dei giornalisti loro dipendenti su un unico obbiettivo: il politicante arraffone. Mettere alla gogna una Casta per garantire la perpetua salvezza delle altre, compresa quella degli scribacchini a libro paga. Ma soprattutto per rendere eternamente al di sopra di ogni contestazione la propria casta: la Casta delle Caste.
Pensiero unico
I giornalisti come Stella, piaccia a loro o meno, scrupolosi e seri quanto si vuole, sono complici di questa operazione. Sono davvero qualunquisti, ma perché evitando di puntare il dito contro l’ingiustizia di fondo, fanno credere al popolo bue che il problema sia soltanto la pensione del deputato. Mentre le prebende stratosferiche e i baracconi per sistemare amici e parenti sono la punta dell’iceberg. Per affondare il quale ci vuole ben altro che un ente in meno o un risparmio in più. Ci vuole un cambiamento culturale, profondo, di sistema. Antropologico. Non devono cambiare solo le leggi, dobbiamo cambiare noi italiani. Piantandola di autoassolverci facendo i conti della portinaia, perché la portinaia dovrebbe stramaledire prima di tutto chi, con le tariffe in perenne aumento, i rincari della spesa, gli affitti impossibili, la benzina come l’oro, fa i gran soldi sulla sua pelle. Non illudersi che sia sufficiente incolpare chi raccoglie le briciole dei finanziamenti elettorali e del posto fisso da Vespa o Santoro.
Tutto per denaro
I soldi sono diventati tutto, siamo schiavi di un pensiero unico: i danè, gli schei, i piccioli. Per far girare la macchina, la loro macchina, dobbiamo trasformare le nostre coscienze in calcolatrici. Dobbiamo ragionare sempre e comunque in termini di ricavi e perdite. Ma per distoglierci da questo orrore, una verità troppo brutta da sopportare, hanno ridotto la politica a una commedia delle parti. In cui mai e poi mai qualcuno si azzarda a mettere in discussione il pensiero unico del mercato, del dio quattrino. La gente si appassiona al teatrino di pupi, e non s’avvede che dietro le quinte la regìa è dei pupari.
È una democrazia mafiosa, la nostra. In cui il gioco delle cupole economiche è educare il popolo a una politica in ostaggio dei partiti, i loro picciotti. L’equazione è facile facile: politica uguale partiti, non si scappa. E chi scappa, Dio lo fulmini: è un pazzo, un paria, un sovversivo. Un qualunquista.
Ed è un pericolo. Perché il corollario prevede che chi non si genuflette alla sacralità della forma-partito è un anti-democratico. Perciò, in quanto tale, perde ogni diritto a dire la sua, e se lo fa andando in piazza, luogo primigenio della democrazia, aggiunge scandalo a scandalo. Il popolo puzza, eccezion fatta per quello che si raccoglie nelle adunate di partito per contarsi e fare a gara a chi ce l’ha più lungo – il consenso.
La politica, in altri termini, va lasciata ai professionisti inquadrati in apparati mafiosi, che oggi giorno, per soprammercato, lo sono ancora di più poiché a decidere tutto, eclissatesi le diatribe ideologiche, rimangono solo i clan personali di questo o quel leader. Solo coloro che si riconoscono nello status quo sono considerati buoni cittadini. Tutti gli altri, se si fanno gli affari loro, che votino o non votino, pazienza: “lasciateci lavorare in pace”, è il messaggio dei mandarini partitocratici. Ma guai ai facinorosi che osino rifiutare questo regime di tessera in cui, come scriveva Panfilo Gentile nel suo ancora attualissimo saggio “Democrazie mafiose” (1969), «solo i conformisti sono cittadini di pieno diritto»3. Morale della favola: se ti impegni politicamente senza i paraocchi dell’appartenenza alla destra e alla sinistra, sei un qualunquista. Se invece ti lagni e sbraiti della destra e della sinistra solo perché costano troppo, va bene, anzi comprati pure l’inchiestona di Stella e indìgnati. Ma fermati lì.
Una democrazia mafiosa, la nostra. In cui il gioco delle cupole economiche è educare il popolo a una politica in ostaggio dei partiti, i loro picciotti.
Pensiero forte
Il qualunquismo è un pensiero debole. Anzi, è il più debole di tutti, perché basato esclusivamente sul denaro. E’ un pensiero contabile, che come in un’azienda, misura la vita comune con criteri economicistici: costi-benefici, efficienza, risultati. Una critica da topi di bilancio a una società che non conosce più ideali ma solo valori, come in Borsa (che non a caso in origine si chiamava, e si chiama ancor oggi, “Borsa Valori”), è fare critica miope. Da quattro soldi. Che il Sistema economico tollera, anzi vuole e perciò sollecita, facendo risuonare la gran cassa della campagna anti-sprechi. Rafforzando nella gente la convinzione che la politica, in fin dei conti, non è diversa da tutto il resto: è una merce, con un suo prezzo e un suo mercato. Questo è il più puro e il più becero qualunquismo, di cui anche un bravissimo Stella è il portato. Al contrario, non lo è il pensiero forte di chi vorrebbe dare un calcio nel sedere a questa cultura bottegaia perfettamente funzionale all’economia e ai profitti di industriali e banchieri. Alcuni dei quali, riuniti nel cosiddetto “salotto buono” italiano, sono non a caso gli editori e i datori di lavoro di Stella. ™
Alessio Mannino – giornalista
Fonte: www.ilribelle.com/
Dicembre 2008 – Anno 1, Numero 3 – Sommario
Note:
1) Anno Zero, 13 novembre 2008
2) Festa dell’Unità, intervista di Bianca Berlinguer, 13 settembre 2007
3) Democrazie mafiose, Ponte alle Grazie, 2
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