L' ANTI HOLLYWOOD TURCA ALL' ASSALTO DEI CRIMINI STATUNITENSI

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blankDI MIREILLE BEAULIEU

L’industria statunitense dello svago è pervenuta, nel corso degli anni, a costruire rappresentazioni caricaturali degli avversari designati di Washington. Il cinema hollywoodiano ha successivamente fatto del Russo, del Vietnamita, poi del Sudamericano e dell’Arabo figure disprezzabili o grottesche, nemiche degli Stati Uniti e del “mondo libero” che questo Stato incarna nella sua stessa produzione audiovisiva. Il film turco La valle dei lupi – Irak di Serdar Akar, approfitta dei trucchi del cinema d’azione hollywoodiano al servizio del messaggio inverso: gli Stati Uniti sono una potenza imperialista che opprime le popolazioni del medio oriente. Mireille Beaulieu analizza questo film che ha suscitato critiche della stampa dominante occidentale tanto più virulente quanto più questo riflette, come uno specchio, i suoi pregiudizi.
Da decenni, il cinema d’azione hollywoodiano divulga il mito dell’eroe statunitense venuto a combattere, in un paese straniero, il Male assoluto e a riportare la Giustizia, Libertà e Democrazia. Sovente, queste finzioni grossolane hanno per sfondo il Vietnam – vecchio fantasma di rivincita….E invariabilmente, il popolo nemico è rappresentato come sornione, crudele e primitivo. Vietnamiti, Russi, Sudamericani, poi Arabi, sono stati, così, caricaturati senza sosta, all’interno di film in gloria dei giustizieri statunitensi, virili, che seminano morte e terrore nel nome del Bene.
Sono rare le opere sortite da altre cinematografie che siano riuscite ad urtare questa allucinante propaganda filmata. Oggi, il cinema turco replica con un vero pamphlet: Kurtlar Vadisi – Irak ( La valle dei lupi – Irak) di Serdar Akar (2005)[1].

Realtà e Finzione

Il film evoca un avvenimento reale: l’arresto, il 4 Luglio 2003, di undici membri delle forze speciali turche da parte dell’esercito statunitense, a Souleimanieh, nel Nord dell’irak. Gli undici uomini furono ammanettati; soprattutto, gli si passarono dei sacchi di juta sulla testa. Furono interrogati per molti giorni, poi rilasciati senza alcuna spiegazione. Secondo l’esercito statunitense, erano sospettati di preparare un attentato contro il governatore curdo di Kirkuk. Si trattava, piuttosto, di rappresaglie in seguito al rifiuto della Turchia (alleato di vecchia data degli Stati Uniti, peraltro) di autorizzare il transito delle truppe statunitensi sul suo territorio, all’atto della loro nuova aggressione all’Irak. L’umiliazione fu dolorosa, per i Turchi, popolo presso il quale la coscienza nazionale è profondamente radicata.

Questo incidente è il punto di partenza del racconto. Prima di suicidarsi, un ufficiale turco, traumatizzato da quanto subito, invia una lettera d’addio al suo amico Polat Alemdar: “Quest’atto è un’offesa all’intera nazione turca”, scrive. Alemdar è un agente dei servizi segreti che gli spettatori turchi conoscono bene; è stato l’eroe di una serie televisiva di immenso successo, intitolata anch’essa La valle dei lupi, in cui si infiltrava vittoriosamente nella mafia. Questa volta, Polat Alemdar (sempre interpretato da Necati Sasmaz) parte immediatamente per l’Irak allo scopo di vendicare l’amico. Vuole ritrovare Sam William Marshall, il responsabile statunitense della “faccenda dei sacchi di juta”. Ma quello che sta per scoprire in Irak è un vero incubo….

Un blockbuster antimperialista

Questa superproduzione (si tratta, con un budget di 8.4 milioni di euro, del film più costoso nella storia del cinema turco) batte tutti i record d’incasso in Turchia: già più di 4 milioni di spettatori dopo la sua uscita, il 3 Febbraio scorso. Grande successo, ugualmente, in Germania (paese che conta una minoranza turca o di origine turca di 2.6 milioni di individui) dove circa 500.000 persone hanno visto il film, uscito il 9 Febbraio.
La stampa turca ed europea ha cominciato a evocare La valle dei lupi – Irak al momento del suo iniziale successo in Turchia. L’infatuazione manifestata in Germania, accompagnata da violente condanne da parte di molti uomini politici di quel paese, ha suscitato una nuova ondata d’articoli in Europa così come negli Stati Uniti. Edmund Stoiber, capo della CSU bavarese, partito cristiano affiliato all’estrema destra, aveva, infatti, chiamato al boicottaggio del film. Non senza abilità, non esigeva una censura di Stato, ma domandava ai gestori di cinema di ritirare spontaneamente La valle dei lupi dai cartelloni. Rigettata da alcuni responsabili dei Verdi e dal consiglio Centrale degli Ebrei di Germania, la sua parola d’ordine è stata, invece, seguita dal circuito di sale Cinemaxx , che ha rinunciato, il 23 Febbraio, a gestire il film. Tuttavia, questa misura non ha avuto portata che su 12 delle 68 copie del film in circolazione in Germania. E’ così apparsa una vera polemica, riprendendo di frequente le stesse accuse: questo film sarebbe non solo “anti americano”, ma, in eguale misura, antisemita.

Kurtlar Vadisi – Irak è, in seguito, apparso in Belgio e in Svizzera, ma non era previsto sugli schermi francesi che in Aprile. L’enorme successo della sua promozione nei paesi limitrofi ha, tuttavia, spinto molti curiosi ad andarlo a vedere in Germania o in Belgio. Il distributore per l’Hexagone, Too Cool (produttore – diffusore dei film turchi), ha allora anticipato la data di uscita al 1 Marzo, con 15 copie in versione originale sottotitolate, destinate alle città che contano una forte minoranza turca (Parigi, Colmar, Oyonnax, Lille, Lione…). Curiosamente, nessuna rivista dedicata agli spettacoli parigini ha annunciato questa uscita, che ha avuto luogo a Parigi, nell’antica sala della Cinémathèque Française, sita al n. 42 di Boulevard Bonne Nouvelle e oggi dedicata ai cinema nel mondo (il suo nuovo nome è, d’altro canto, “Cinema del Mondo”). Alcuni media, come Le Monde, Canal + e France 3 (rete nazionale) hanno ben segnalato l’evento, ma sempre sulla scia dell’ostilità ed in profumo di scandalo.

Abbiamo visto La valle dei lupi – Irak, che appariva ben più pertinente e ben più ricco di quanto la maggior parte dei media occidentali ufficiali non pretendessero. Si tratta di un’opera ibrida, che mescola azione brutale, cinema popolare orientale e scene di riflessione molto più elaborate. Il film, apertamente concepito per il grande pubblico, riprende tutti i codici del cinema d’azione hollywoodiano per applicarli ad un messaggio politico diametralmente opposto: la denuncia dell’imperialismo statunitense, della sua sanguinante occupazione dell’Irak e del suo disprezzo dei popoli. E’ utile, qui, precisare che il presente articolo si basa sui sottotitoli francesi della versione originale in distribuzione nell’Hexagone.

Le relazioni turco – statunitensi sullo sfondo.

Seguito dell’azione: Polat Alemdar si introduce, dunque, in Irak con due dei suoi fedeli luogotenenti. La loro vettura è fermata da delle guardie di frontiera curde poco amichevoli (i peshmerga che amministrano il Kurdistan iracheno per conto degli Stati Uniti). I tre agenti turchi si vedono obbligati a sopprimerli; prima scena ultra violenta del film, che non ne è avaro. Alemdar ed i suoi uomini si recano a Erbil, in un hotel di lusso appartenente ad una catena americana ( il “Grand Harilton”, legato agli Hotel Hilton), allo scopo di attirarvi Sam William Marshall. I peshmerga li rintracciano e tentano di arrestarli nella sala ristorante. Alemdar si mostra particolarmente sprezzante con questi Curdi, che considera come collaborazionisti. Esige l’intervento del direttore statunitense dell’hotel, spiegandogli che ha disseminato l’edificio di cariche esplosive telecomandate. Il direttore avvisa Sam Marshall, che si reca immediatamente sul posto.

Segue un dialogo molto rivelatore. Marshall (interpretato dall’attore statunitense Billy Zane), vecchio militare che dirige una unità segreta della CIA nel Nord dell’Irak, domanda ciò che dei Turchi possono ben attendersi, da parte degli Stati Uniti: “Da 50 anni noi vi paghiamo, paghiamo anche l’elastico dei vostri slip. Ne volete ancora di più? E poi, vi abbiamo salvati dai comunisti…”. Allusione elegante all’alleanza suggellata dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fra i due paesi. Membro della NATO, la Turchia è territorio strategico per gli Stati Uniti, che vi possiedono numerose basi militari. Al fine di ancorare il paese nella sfera occidentale, dal tempo della guerra fredda, Washington lo fece largamente beneficiare del Piano Marshall. Il nome di Sam Marshall sembra, d’altro canto, una fusione ironica di “Zio Sam” e di “Piano Marshall”. “Io non sono il leader di un partito politico, né un soldato, ma un semplice Turco”, risponde Alemdar. Risposta interessante, che gli permette di incarnare la nazione turca nel suo insieme, e che rende il film totalmente consensuale sul piano della politica interna turca. Il suo scopo è una vendetta simbolica: affibbiare a Marshall un sacchetto di juta. Ma questi utilizza il gruppo di bambini che l’accompagna, e che doveva cantare in occasione di una serata di beneficenza, come un vero e proprio “scudo umano”. Alemdar abbandona, provvisoriamente, lo scontro.

[L’attore statunitense Billy Zane è Sam Marshall]

Le scene dell’hotel sono inframmezzate da quelle di un’azione parallela: la celebrazione di un matrimonio arabo in un villaggio circondato dall’armata statunitense. I soldati attendono, cinicamente, il tiro delle tradizionali salve d’onore per invadere il luogo alla ricerca dei “terroristi” armati. Non esitano ad abbattere un bambino a bruciapelo, poi a massacrare alla cieca i convitati. Lo sposo, venuto in soccorso della moglie, è ucciso sotto i suoi occhi. Le immagini della carneficina sono mostrate al rallentatore per amplificare il loro potere emozionante.

Ricostruzioni storiche

I sopravvissuti sono trasferiti alla tristemente famosa prigione di Abu Ghraib per torture inflitte ad alcuni detenuti per mano di una soldatessa, Lynndie England. La differenza del trattamento cinematografico è flagrante: inquadrature e messa in scena sono sobrie e molto curate, quasi iper realiste. Vi si vede la giovane donna accanirsi su prigionieri nudi, ammucchiati in una piramide umana. Tutti i dettagli del nastro video originale sono là, fino allo spegnimento da parte del soldato che filma alla telecamera.

Questo esempio non è isolato. Un tratto che colpisce del film (poco rilevato dalla stampa dominante) è il suo riutilizzo di fatti reali nel dipingere le angherie statunitensi in Irak. I giornalisti che denunciano il partito preso “anti americano” de La Valle dei Lupi – Irak si lamentano, invariabilmente, della rappresentazione degli occupanti in guisa di uccisori sanguinari. Quel che si omette di precisare è che la grande maggioranza dei misfatti evocati è una ricostruzione di fatti tratti dalla realtà. “Io non condivido le critiche d’antiamericanismo. Io ho lavorato in Irak ed ho incontrato la maggior parte dei fatti raccontati nel film. Scene in tutto parallele a ciò che io ho visto sul posto. Lo sceneggiatore ha fatto un buon lavoro. Hanno trasmesso i fatti sullo schermo ”afferma Jerome Bastion, il corrispondente in Turchia di Radio France Internationale, citata dal sito turco – belga Belexpresse[2].

L’attacco del matrimonio fa così riferimento al bombardamento, per opera dell’aviazione statunitense, di una festa di nozze nel villaggio di Moukaradib (regione di Al-Qaem, nell’Ovest dell’Irak) che aveva ucciso più di 40 civili nel maggio del 2004. Davanti alle proteste, il comando militare aveva affermato di aver colpito una “riunione di terroristi”. Altra sequenza di spessore, quella che si svolge in un villaggio nel corso della preghiera della sera. Nel momento in cui il muezzin esclama “All’indipendenza!”, un razzo lanciato dall’occupante polverizza il suo minareto. Nella realtà, le forze militari statunitensi non hanno esitato a violare dei luoghi di culto. Ci si ricorda, com’è noto, il bombardamento della moschea Hadret Mohammediya a Fallujah, il 15 Aprile 2004, nel corso del quale il minareto era stato distrutto, proprio come la scuola coranica ed una parte dei muri di cinta.

Nelle scene ambientate nella prigione di Abu Ghraib, avevamo potuto vedere un medico statunitense dal viso coperto di cicatrici (Gary Busey, famoso interprete di Hollywood) estrarre un organo sanguinolento dalle viscere di un detenuto, per poi posarlo in uno dei numerosi containers destinati all’estero “organo umano per trapianto” si leggeva sui coperchi, destinato a Londra, New York e Tel Aviv. Questo passaggio ha suscitato le più vive critiche, e traduce, secondo numerosi giornalisti della stampa dominante, un antisemitismo flagrante. Tuttavia, nessuno si è dato il disturbo di investigare sulla tematica dei trapianti di organi nell’Irak occupato. Se l’avessero fatto, avrebbero scoperto che il traffico di organi si sviluppa in modo inquietante dopo l’invasione, sul terreno della miseria. Numerosi Irakeni disoccupati accettano infatti di vedere al miglior offerente i loro organi – per lo più si tratta dei reni. Beneficiari: alcuni fortunati Irakeni, ma anche dei “turisti della salute” stranieri, attirati dai prezzi praticati – all’ospedale Karama di Baghdad si può acquistare un rene per 2000 o 3000 dollari. I donatori portati a questa decisione estrema vengono dai quartieri più poveri di Baghdad, per lo più da Sadr City, ma anche dal resto del paese. I rischi di complicazioni, a volte mortali, corsi da questi donatori sono accresciuti dalla malnutrizione, la penuria di medicinali e la drammatica situazione sanitaria del paese[3]. Il giornale algerino La nuova Repubblica si è, anch’esso, fatto eco di un traffico mafioso di reni che porta malati disperati algerini in Irak, via Giordania. In assenza di una applicazione minuziosa dei protocolli medici, il 90 % dei trapiantati muoiono anch’essi in breve tempo[4].
Queste informazioni fanno riferimento a traffici di organi su donatori “consenzienti”. Il film evoca, per parte sua, pratiche effettuate su prigionieri di Abu Ghraib e su morti vittime di colpi statunitensi. La finzione si basa qui su informazioni diffuse dalla stampa araba. Secondo Fakhriya Ahmad nel quotidiano saudita Al Watan datato 18 Dicembre 2004, rapporti dei servizi segreti europei hanno fatto stato di un importante traffico di organi prelevati su morti e feriti; organi trasferiti prima in cliniche private e poi negli Stati Uniti. La prigione di Abu Ghraib è chiaramente chiamata in causa; numerosi detenuti giustiziati vi subirebbero prelevamenti d’organi.

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[A sinistra, la foto di un prigioniero iracheno ad Abu Ghraib presa da un soldato statunitense. A destra, making-of della ricostruzione delle scene nel film]

Le critiche della stampa dominante.

Altro elemento del film contestato dai suoi detrattori, le città di destinazione indicate sui containers, Londra, New York e Tel Aviv. Le due prime fanno allusione ai due principali membri della “coalizione”, USA e Regno Unito. Il riferimento ad Israele è una chiamata in causa della presenza officiosa di forze israeliane in Irak, piuttosto che una stigmatizzazione antisemita. In effetti, la partecipazione di Israele all’occupazione dell’Irak è segnalata da numerosi osservatori. Il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth ha, per esempio , confermato nella sua edizione del 1 Dicembre 2005 che dei cittadini israeliani di grande esperienza nel “combattimento militare scelto” (la formula suggerisce che potrebbe trattarsi di veterani dell’esercito israeliano) addestravano le milizie curde nel Nord dell’Irak[5]. Utilizzando la ragione sociale delle compagnie israeliane specializzate nella sicurezza e nel combattimento anti terrorista, queste unità avevano stabilito un campo di addestramento in una zona desertica del Nord dell’Irak. Essi formavano delle cellule “anti terroriste” scelte per conto del governo autonomo curdo dell’Irak.

Alcuni vedono una prova di antisemitismo nel personaggio stesso del medico statunitense, presentato come ebreo. In effetti, nulla permette di identificarlo in questo modo; non si apprende il suo essere ebreo che più tardi, nel corso di un dialogo fra Sam Marshall e lui, allorché essi scherzano sull’argomento delle loro rispettive religioni. L’intenzione degli sceneggiatori, e del regista, non sembra essere sviluppare l’antisemitismo. Si tratta, piuttosto, di criticare la logica da “choc delle civilizzazioni” delle forze di occupazione in Irak, che conducono apertamente una “crociata” ebreo – cristiana, sotto l’alibi criminalmente menzognero di instaurare la democrazia in Irak. Infatti, Sam Marshall è un cristiano integralista. Si ritrovano, così, le dichiarazioni del presidente statunitense nella bocca di Sam Marshall che, inginocchiato davanti ad un crocifisso, parla dell’occupazione dell’Irak come di una missione divina. Il suo personaggio è, peraltro, una strizzata d’occhio a Condoleeza Rice; come lei, è melomane e virtuoso del piano. Decide anche di appropriarsi del pianoforte bianco di Saddam Hussein, simbolo del potere assoluto. Ma la sua crudeltà sarcastica e piena di boria, la sua eleganza nel vestire ricordano proprio gli ufficiali nazisti come sono tradizionalmente dipinti nel cinema hollywoodiano. Persuaso della fondatezza dei propri atti, Sam Marshall evoca nelle sue preghiere l’aiuto “umanitario” che offre al popolo iracheno. Immagini mentali lo mostrano a bordo di un camion mentre lancia scatole di viveri ad una folla affamata, poi palloni a bambini riconoscenti. Le inquadrature seguenti mostrano medici occidentali vestiti di bianco, intenti ad auscultare poveri iracheni – immagini parecchie volte diffuse alla televisione sotto le nostre latitudini, a seconda dei diversi conflitti che lacerano il mondo.

Ultima scena tacciata d’antisemitismo quella ambientata nel ristorante dell’hotel, nella quale Alemdar spiega al direttore del “Grand Harilton” che ha minato l’edificio e che sarebbe meglio mantenere la discrezione nei negoziati perchè, dice, “i vostri clienti si sentono a disagio”. Per illustrare le sue proposte, una scena molto breve mostra un ebreo ortodosso nella tenuta tradizionale (lunga tunica nera, cappello, ciocche di capelli a spirale) alzarsi dal proprio posto e lasciare la stanza. Certamente, questo probabile tentativo di umorismo non è di grande finezza, e può essere risentito come ambiguo. Ma sembra soprattutto piantare il chiodo quanto alla collusione politica e militare egli Stati Uniti ed Israele nell’occupazione dell’Irak (gli altri tavoli di questo ristorante chic sono attorniati di borghesi occidentali, senza dubbio statunitensi). In questo caso, il personaggio ebreo ortodosso è assimilato ad un israeliano, amalgama che non si può, in nessun caso, garantire ma che – anche se lo si può rimpiangere – è frequentemente utilizzato in medio oriente, senza che sia forzatamente tinto di antisemitismo. In effetti, Israele si qualifica da sé stesso da stato ebraico, e le masse popolari del medio oriente, che hanno un accesso ridotto all’educazione accademica, hanno la tendenza a sovrapporre i due concetti.

La rappresentazione di un islam illuminato.

Il racconto prosegue con il desiderio di vendetta di Leila, la giovane sposa il cui marito è stato abbattuto dai soldati statunitensi. Il suo primo impulso, dettato dalla rivolta e della disperazione, è di commettere un attentato suicida contro l’occupante. Ma Abdurrahman Halis Kerkuki, lo sceicco del suo villaggio che l’ha cresciuta alla morte dei suoi congiunti, condanna questo progetto. Le spiega che quest’atto sarebbe doppiamente contrario agli insegnamenti dell’islam. Dapprima per il sacrificio, impossibile da conteggiare, di vittime innocenti. Ma anche perché questo interinerebbe la rappresentazione dei musulmani come dei mostri inumani, dei kamikaze che uccidono vigliaccamente e alla cieca. “D’altro canto – dice lo sceicco – può essere che gli occidentali organizzino essi stessi questi attentati….”. Si assiste, peraltro, all’attentato suicida di un iracheno (il padre del bambino assassinato la sera del matrimonio), che aziona la sua bomba su una piazza di mercato. Leila aveva, in precedenza, tentato di dissuaderlo, invano. Le immagini non risparmiano alcun dettaglio allo spettatore: membra dilaniate, monconi a vivo, cadaveri coperti di sangue. La maggior parte delle vittime sono dei civili; il messaggio è limpido.

Il personaggio dello sceicco Kerkuki (il suo nome sembra indicare un’origine curda) è altrettanto importante nel film che quella di Polat Alemdar. E’ amato e rispettato da tutti gli abitanti della regione, siano essi turkmeni, curdi o arabi. Leila, per esempio, è araba e vive presso un’anziana donna curda. Lo sceicco, conosciuto per la sua rettitudine e saggezza, è un legame essenziale fra le differenti comunità. E’ sempre pronto a portare soccorso, a coloro che lo sollecitano, qualunque sia la loro origine etnica. Simbolizza la forza unificatrice e portatrice della pace dell’islam. Alemdar, è la spia dal look moderno, che evoca la nazione laica turca. Lo si è qualificato, a torto, il “Rambo turco”; il suo fisico è, piuttosto, quello di un James Bond appropriato, che sfoggia un vestito all’occidentale. Lo sceicco Kerkuki, vestito di sete tradizionali, è l’incarnazione dell’islam illuminato.

[Scena del film che ripete la decapitazione di Nick Berg]

Dopo aver impedito a Leila di commettere un attentato suicida, egli interviene in extremis allorché dei resistenti si apprestano a decapitare un giornalista statunitense. In un locale spoglio, il giornalista è inginocchiato, legato strettamente, i suoi do*****enti di identità bene in vista, davanti a due Iracheni mascherati da un keffiah ed armati l’uno di una mitraglietta, l’altro di una sciabola. Un terzo uomo filma alla telecamera. “Noi taglieremo teste fino a che gli Americani, i Britannici, e gli Ebrei lasceranno l’Irak” grida uno degli esecutori.” A chi volete assomigliare?” grida allora lo sceicco, “ alle marionette che lavorano per i tiranni?”. Una maniera di chiedersi chi organizza veramente queste orribili esecuzioni di Occidentali diffuse in video dopo l’invasione dell’Irak. Kerkuki sembra, tuttavia, condannare implicitamente l’impiego del termine “Ebrei” per designare gli Israeliani.

I valori della saggezza dell’islam, le sue tradizioni millenarie, sono illustrate da una danza. Lo sceicco Kerkuki e numerosi altri fedeli formano un cerchio per eseguire una bellissima danza sufi, a metà tra la meditazione e la trance. La camera segue il ritmo della danza attraverso ampi movimenti circolari; si piazza frequentemente sulla verticale dei danzatori, per meglio captare la loro lenta coreografia. La cura apportata a queste immagini contrasta di nuovo con certe scene molto più triviali. Altre scene si intercalano, allora: quelle dell’espulsione di intere famiglie dalle loro case. Povera gente ammassa i suoi poveri averi su delle carriole, cacciata a causa della presenza di petrolio nel sottosuolo dei loro villaggi. E, lungo tutto il corso di questa sequenza, si elevano, in muto, le parole dello sceicco. Egli chiama alla preghiera per resistere agli attacchi nemici, e celebra i meriti dell’islam, “la religione della pace”.

Al contrario, le forze statunitensi sono presentate come manipolanti le differenti comunità per fondare il proprio dominio: Sam Marshall si vanta di aver messo Curdi, Turkmeni ed Arabi gli uni contro gli altri. Gli autori sono particolarmente severi con i collaborazionisti curdi. Si potrebbe vedere in questo una prova della tradizionale ostilità dei Turchi contro i Curdi (etnia ugualmente presente in Turchia, e che rivendica la sua indipendenza da decenni per mezzo di vere guerriglie) se la situazione descritta nella Valle dei lupi non riflettesse una tragica realtà. Infatti, gli Stati Uniti si sono appoggiati sui Curdi d’Irak per tentare di annientare la resistenza nell’Irak del Nord. In cambio, essi hanno concesso l’autonomia al Kurdistan iracheno. Questo piano è stato accelerato dal rifiuto della Turchia di aprire il proprio territorio alle truppe statunitensi al momento dell’invasione, nel Marzo del 2003. E, di fatto, gli indipendentisti Curdi hanno deciso di collaborare pienamente con l’occupante, così scegliendo una politica etnicista rispetto alle popolazioni arabe ed alla minoranza turkmena.

La coscienza nazionale turca in filigrana.

In quanto film turco, Kurtlar Vadisi veicola prima di tutto le preoccupazioni della Turchia, rispetto all’occupazione dell’Irak. Traduce la presa di distanza di una parte degli organismi dirigenti turchi in riferimento alla politica del loro alleato statunitense. Dopo l’attacco dell’Irak, le relazioni fra i due paesi restano relativamente tese, poiché la Turchia si preoccupa, inoltre, della sorte delle popolazioni turkmene.

Ugualmente, il film testimonia un vibrante nazionalismo turco, che questa tragica guerra non può che infiammare. Non bisogna dimenticare che la Turchia è sorta dal leggendario impero ottomano, che si estendeva, al suo apogeo, dai Balcani sino all’Africa del Nord, ed alla penisola arabica, ed inglobava l’Irak. In questo grande spettacolo eroico, si svela in filigrana la nostalgia dell’impero, della sua potenza unificatrice che, secondo la visione di alcuni Turchi, vigilava sull’armonia delle culture e delle religioni che lo componevano. All’inizio della narrazione, l’ufficiale scrive, nella sua lettera d’addio: “Tutti i governanti di questo paese (l’Irak) hanno oppresso il popolo, ad eccezione dei nostri antenati”. Allo stesso modo, il nome dell’eroe, Alemdar, significa, in turco, “portabandiera”. Questi segnali sono posti per avvicinare alla strategia attuale della Turchia, che cerca di restaurare la sua vecchia influenza nei paesi di lingua turca dell’Asia centrale e del Caucaso del Sud. Dopo l’inizio degli anni Novanta, Ankara ha costruito nuovi centri culturali turchi nei cinque Paesi di lingua turca dell’ ex URSS: Kazakistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan ed Azerbaijan. La politica del governo turco agisce ugualmente sui settori dell’economia, del commercio, e dell’energia.

La valle dei lupi è dunque, prima di tutto, un film concepito per il pubblico turco. In effetti, il popolo è ben più radicalmente opposto all’invasione dell’Irak dei suoi organismi centrali. L’azione è, così, disseminata di allusioni che possono facilmente scappare allo spettatore che non sia turco, come questa scena ove un coro di bambini iracheni canta dolcemente davanti a Sam Marshall il preludio dell’ Inno alla Gioia di Beethoven. Si tratta di una sottile chiamata in causa dell’Unione Europea (che si è appropriata di questo canto quale inno ufficiale), percepita come una cinghia di trasmissione della politica statunitense.

I cattivi sono gli statunitensi.

L’enorme successo del film in Turchia appare, ugualmente, del tutto logico. I Turchi hanno visto innumerevoli film d’azione hollywoodiani nei quali gli Asiatici, i Russi, gli Arabi, erano i cattivi – cattivi particolarmente stupidi e crudeli, che finivano sempre per essere sterminati dai buoni: statunitensi. Si può citare, per esempio, la serie Delta Force con l’attore karateka Chuck Norris. Lo slogan di Delta Force 1 (1986) è: “Loro non negoziano con i terroristi, loro li fanno esplodere”. I terroristi, all’occorrenza, sono miserabili Palestinesi che dirottano un aereo…. Delta Force 2, sottotitolato “La Filiera colombiana” (1990), baratta i Palestinesi contro un trafficante di droga Sudamericano, psicopatico per giunta. La serie ha, poi, conosciuto numerose altre trasformazioni. Non si può, certamente, omettere Rambo 2 e 3 , archetipi della propaganda di rivincita e muscolosa. In Rambo 2 (1985), il personaggio interpretato da Sylvester Stallone, veterano della guerra del Vietnam, riparte per liberare dei soldati statunitensi sempre trattenuti prigionieri. Egli ne approfitta per massacrare orde di vietnamiti. Rambo 3 (1988) si svolge in Afghanistan, dove Stallone sbarca per abbattere il massimo numero di Sovietici (all’epoca, i Moujaheddin erano considerati come buoni…Il film della serie James Bond Uccidere non è un gioco – Living Daylights, 1987- uscito un anno dopo, condivideva questa impostazione). Ricordiamo che il profilo di Polat Alemdar non è affatto ispirato da quello di Rambo, guerriero “body – building”. Dettaglio saliente, questo fisico dalla virilità caricaturale si ritrova solamente nei mercenari di Sam Marshall, tutti interpretati da attori culturisti, dai muscoli ipertrofici, schiacciati nelle canottiere, che masticano chewing – gum, e sfoggiano grosse catene.

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[I mercenari di Sam Marshall si ritirano dopo l’attacco al loro gruppo da parte della resistenza irachena (scena del film)]

In tutti questi sotto prodotti hollywoodiani, i “meteci” sono sempre inglesi, e sembrano ignorare la loro stessa lingua. Non hanno alcuna identità propria. In Kurtlar Vadisi – Irak, sono, stavolta, gli attori statunitensi ad essere integralmente doppiati in turco, e l’effetto è irresistibile!

Più recentemente, la serie televisiva 24 Ore Crono, ufficialmente sovvenzionata dalla CIA, ha suscitato legittimo scandalo in Turchia. In questa serie, che si svolge in tempo reale ( 24 episodi che compongono una giornata d’azione), l’eroe Jack Bauer lavora per la cellula anti terrorismo della CIA. Programma estremamente popolare in tutto il mondo, 24 Ore Crono si è già distinto per la sua volontà di legittimare la tortura. Ma la quarta serie ha particolarmente allibito la Turchia; in effetti, in questa indagine, i terroristi combattuti da Bauer sono Turchi. Come sovente accade nell’industria del divertimento statunitense, gli autori danno prova della loro grande cultura filmando frasi turche redatte in caratteri arabi.

Una fiction vendicatrice

Alcuni giornalisti occidentali si sono preoccupati dell’esultanza manifestata dal pubblico turco nelle sale. Soprattutto alla fine, allorché Polat Alemdar pugnala Sam Marshall e rigira, letteralmente, il coltello nella piaga. In questo momento, numerosi spettatori applaudono spontaneamente. Ma cosa di più comprensibile? Questa fiction vendicatrice è un vero sfogo per una popolazione che si confronta con il caos che fanno regnare le forze statunitensi alle porte della Turchia. In ogni scena ove gli uomini di Polat Alemdar abbattono dei GI’s, il sentimento di rivincita è palpabile. Agli occhi dello spettatore turco, infine, giustizia può esser resa, anche se in modo virtuale.

Il ritorno del cinema turco

L’uscita di una tale super produzione, conferma anche la rinascita del cinema turco. Bisogna precisare che, nel corso degli anni 60 e 70, il cinema turco fu (a parte Hollywood), il secondo cinema al mondo dopo il cinema indiano. La Turchia possiede una doppia tradizione di grande svago popolare e di film d’autore, che si interrogano sugli interessi economici, politici e sociali, anche se i registi e gli sceneggiatori dovettero lottare instancabilmente contro le censure delle diverse dittature. Il cineasta emblematico del paese rimane il grande Yilmaz Guney, autore di capolavori quali Yol (1982), ed Il Muro (1983), che passò lunghi anni in prigione e dovette scrivere parte dei suoi film dalla sua cella. Guney conobbe una consacrazione internazionale allorché Yol ottenne la palma d’oro al Festival di Cannes, ma morì prematuramente nel 1984, all’età di 47 anni, a seguito dei cattivi trattamenti subiti in prigione. Il cinema turco ritrova, dopo la metà degli anni 90, una vitalità crescente, dopo un periodo di declino generato dalle conseguenze del colpo di stato militare pro – U.S. del 1980. Il regista di Kurtlar Vadisi – Irak, Serdar Akar, non è, peraltro, uno sconosciuto. Il suo primo lungometraggio, Gemide (a bordo), era, in passato, stato presentato alla Settimana della Critica del Festival di Cannes nel 1999.

La valle dei lupi – Irak è, alternativamente, una grande offensiva commerciale, dotata di un budget colossale per il paese, ed una rimarchevole scottatura politica. All’atto della presentazione di gala ad Istanbul, le guardie incaricate della sicurezza sfoggiavano anche superbe uniformi dell’esercito statunitense….L’attore statunitense d’origine greca Billy Zane, che interpreta l’ignobile Sam Marshall, ha concesso molteplici interviste nel corso di questa avant – première. Ha dichiarato di aver accettato di girare Kurtlar Vadisi per esprimere il proprio dissenso in merito all’aggressione dell’Irak. “Sono un patriota, ecco il motivo per cui ho interpretato questo ruolo. Certo, il film è un melodramma, ma è basato su fatti reali6”. Nel corso di un’intervista televisiva, ha precisato: “Gli orrori della guerra devono essere mostrati. Ho recitato in questo film perché sono pacifista, sono contro ogni tipo di guerra7”. “E’ un film d’azione politico” hanno, per parte loro, affermato i due sceneggiatori Raci Sasmaz (ugualmente direttore della Società di produzione, Pana Film) e Bahadir Ozdemer, “un film contro la guerra. La guerra è un dramma, una tragedia per il popolo (iracheno), bisogna mettervi fine”.

Le critiche espresse contro il film dalla stampa occidentale derivano da una lettura superficiale, atteso che lo spettatore turco percepisce con giubilo le scene più caricaturali, come una denuncia, allo specchio, del razzismo di Hollywood.

Il film risponde alla violenza dell’imperialismo statunitense con la fierezza del nazionalismo turco, ma anche attraverso l’evocazione dei valori di un islam illuminato, che porta pace, giustizia, tolleranza e favorisce la riconciliazione delle comunità davanti all’integralismo arrogante degli Stati Uniti. Alcuni potrebbero percepire questo messaggio come un contributo differente ma simmetrico alla logica dello “choc delle civilizzazioni” lodata dai neo conservatori al potere negli Stati Uniti. Di fatto, questa visione riflette la situazione attuale della Turchia. Dopo la caduta del Muro di Berlino, le prospettive di lotta contro l’imperialismo basate su un concetto di “lotta di classe” sembrarono subito ben lontane. Inoltre, la dittature che si erano succedute in Turchia – con la complicità degli Stati Uniti – dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, avevano decimato generazioni di militanti anti – imperialisti progressisti – fatto che si ritrova ugualmente in molteplici paesi del Medio Oriente e del terzo mondo in generale. Il combattimento contro l’egemonia statunitense si incentra anche, in maniera crescente, sui valori culturali musulmani, una delle basi comuni dell’identità turca laica e del mondo arabo.

La valle dei lupi – Irak, opera ineguale e persino contraddittoria, ma sbalorditivamente ricca, ha il merito di portare un messaggio politico forte, quello del rifiuto dell’Impero e della sua politica di “guerre preventive”. Questo imperialismo si crede invincibile: il film gli offre un avvertimento in forma di marameo, l’avvertimento vendicatore di Davide a Golia.

Mireille Beaulieu, diplomata in geopolitica e ricercatore di storia del cinema. Programmatrice di cinema, giornalista.

Fonte: http://www.voltairenet.org/
Link: http://www.voltairenet.org/article138608.html
05.05.2006

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GIORGIA

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