DI MIGUEL ALVAREZ SANCHEZ
Un’intervista a tutto tondo a Howard Zinn, lo storico della dissidenza. Dalla guerra del Vietnam, all’embargo a Cuba fino all’invasione dell’Iraq. Un ragguaglio storico e un’analisi completa sulle conseguenze, nazionali e internazionali, della politica repressiva e belligerante degli Stati Uniti
Cominciamo parlando di libri
D’accordo.
Cosa l’ha spinta a scrivere la Storia degli Stati Uniti d’America?
L’ho scritta perché stavo dando lezioni di storia nordamericana e cercavo un libro che rappresentasse il mio punto di vista. Questo accadeva negli anni ‘70, dopo i movimenti sociali degli anni ‘60 che crearono il desiderio di un punto di vista diverso da quello dei libri tradizionali. È stato dopo il movimento per i diritti civili, dopo il Vietnam, che la gente è diventata più critica nei confronti del governo, della politica interna e di quella estera; però non c’erano libri di storia generale degli Stati Uniti che riflettessero questa nuova tendenza, questa nuova critica. A quei tempi cercavo un libro del genere e alla gente che veniva dai movimenti degli anni ’60 e che mi chiedeva di consigliargli un libro con un punto di vista radicale, rispondevo di non conoscerne nessuno; così pensai di scriverlo. A volte i libri nascono così, se ne cerca uno, non si trova e allora si decide di scriverlo. Allora lo feci perché volevo raccontare la storia degli Stati Uniti non dal punto di vista dei presidenti o del Tribunale Supremo o del Congresso; questa era la via tradizionale, la storia tradizionale… Vede, tutto ruota attorno ai presidenti ed è una contraddizione perché si suppone che siamo una democrazia e non che dobbiamo esaltare il capo supremo; ma qui gli storici dicevano: “Oh, dobbiamo parlare dei padri della patria, di George Washington, di John Adams, di Jefferson e Lincoln, e via dicendo”. E la gente comune? Tutti questi storici tradizionali raccontano la storia dello sviluppo economico nordamericano sempre dal punto di vista degli eroi dell’industria come Carnegie, Rockfeller, Morgan; furono loro a fare grandi gli Stati Uniti. Però questi storici non dicono nulla della gente che ha lavorato nelle raffinerie di petrolio di Rockfeller, nelle acciaierie di Carnegie, nelle ferrovie; non dicono nulla degli immigranti irlandesi e cinesi sottopagati che lavoravano per ore e nella maggior parte dei casi morivano. Queste persone erano state ignorate dalla storia e io provenivo da una famiglia di estrazione povera.
Iniziai a lavorare a diciotto anni in un cantiere navale. Di solito nelle famiglie di estrazione media e, a maggior ragione, alta, al compimento dei diciotto anni si andava all’università; ma se si apparteneva a una famiglia di povera, si andava a lavorare. E io me ne andai a lavorare in un cantiere navale e lì cominciai a leggere, a occuparmi dei lavoratori, a riunire quelli del cantiere in organizzazioni insieme con altri giovani, così da rendermi conto della loro situazione e a interessarmi al loro movimento. Così mi venne voglia di scrivere una storia degli Stati Uniti che avesse per protagonisti i lavoratori, le lotte operaie, gli scioperi… La maggior parte dei giovani che frequenta la scuola negli Stati Uniti non sa nulla riguardo i grandi scioperi e le lotte operaie che portarono all’introduzione della giornata lavorativa di otto ore; se non si conoscono questi scioperi e queste lotte, si finisce per pensare che tale giornata sia stata stabilita dal Congresso, dal Presidente o magari da Dio.
E invece no, fu grazie alle lotte dei lavoratori che si ottenne la giornata di otto ore, ed erano queste le cose che volevo scrivere. La stessa sorte, quella di essere ignorati nei libri di storia, toccò alla gente di colore quando, nel parlare di schiavitù, lo si fece senza considerare il loro punto di vista, quello degli schiavi, tant’è vero che negli anni ’30 uscì un famoso libro di testo di storia nordamericana, scritto da due professori molto famosi di Harvard e della Columbia, nel quale si affermava che la schiavitù era stata utile perché aveva predisposto la gente di colore alla libertà.
Howard Zinn, chi è Lei? Un radicale?
Lo spero; però la parola “radicale” è spesso male utilizzata. Negli Stati Uniti si ha un’idea piuttosto vaga del suo vero significato, la si usa spesso come sinonimo di “estremista” ma per me significa andare alla radice del problema, qualcosa di molto più profondo di una semplice critica. Per esempio la differenza fra un punto di vista liberale e uno radicale…
Qual è la differenza?
Le faccio alcuni esempi. Un liberale dice: “Diamo maggiori garanzie di salute a più persone possibile; diamo, non so, più incentivi ai datori di lavoro affinché possano garantire maggiori benefici ai propri impiegati”. Un radicale invece direbbe: “evitiamo la mediazione coi datori di lavoro e le compagnie di assicurazione, la salute deve essere gratis per tutti”. Questo è un punto di vista radicale. Facciamo un esempio d’attualità. Un liberale direbbe: “Ok, la guerra in Iraq non sta andando bene, esiste una forma migliore per litigare, coinvolgiamo più paesi…”
Questo è l’approccio di Kerry
Proprio così, John Kerry dice di voler coinvolgere le Nazioni Unite. La logica è diventata una merce rara, se la guerra è immorale dovremmo evitare di coinvolgere altra gente. Un punto di vista radicale, se la guerra è immorale, prevederebbe il ritiro dell’esercito dall’Iraq con la conseguente fine della guerra. Col Vietnam ci trovammo nella stessa situazione…
Ci dica qualcos’altro sul periodo del Vietnam. Cosa significò per la popolazione nordamericana?
Per il popolo statunitense il Vietnam fu un fatto senza precedenti nella storia. Non era successo mai niente di simile prima, ossia non s’era mai formato un movimento così esteso e grande come quello contro la guerra del Vietnam. Nelle guerre fatte dagli Stati Uniti ci sono sempre state dissidenze e ribellioni, anche in quella d’Indipendenza, che fu una guerra sacrosanta e giusta; ma anche in quel frangente furono molti gli statunitensi, soprattutto gente di colore e indios, a dubitare che la guerra rivoluzionaria venisse combattuta per loro. I soldati poveri che s’erano uniti all’esercito rivoluzionario non erano sicuri che quella guerra avrebbe recato loro benefici perché sapevano dell’esistenza di una classe coloniale ricca e legale che avrebbe presumibilmente ottenuto più vantaggi. Certo, non mancarono manifestazioni di dissenso durante la guerra rivoluzionaria, succede in tutte le guerre.
Durante quella messicana del 1946-48, in cui gli Stati Uniti occuparono quasi la metà di Città del Messico, molti soldati statunitensi disertarono rifiutandosi di combattere. Durante la Prima Guerra Mondiale ci fu una grande opposizione e anche durante la Seconda, notoriamente chiamata “la guerra giusta”; anche in quella ci fu gente che non considerava la guerra una soluzione. Mai però c’è stato un movimento così grande e forte come quello contro la guerra del Vietnam. Cominciò in sordina, con poche persone e sparute manifestazioni, e la gente diceva: “non vinceremo mai, non possiamo nulla contro gli Stati Uniti, il suo governo è potentissimo, questa è la più grande spedizione militare sulla faccia della terra, come potremo fermarla?”; ma il movimento crebbe, crebbe e crebbe ancora.
Per quale motivo? Perché gli statunitensi morivano, perdevano vite?
Credo che i motivi fossero molteplici e uno era sicuramente la morte di molti soldati americani, ma non credo che fosse l’unico, altrimenti non si spiegherebbe l’interessamento del popolo americano per la gente del Vietnam. L’unica cosa certa è che al governo degli Stati Uniti non premeva né la sorte del popolo vietnamita né quella dei propri soldati; però credo di sì, le perdite, le crescenti perdite di soldati americani in Vietnam ebbero un grande effetto sulla popolazione. Ma ci fu qualcosa di più: il popolo americano prese coscienza che gli Stati Uniti stavano facendo cose terribili in Vietnam. Cominciarono a vedere alla televisione fotografie di marines che appiccavano il fuoco alle capanne dei villaggi, a vedere corpulenti soldati puntare pistole contro donne e bambini vietnamiti. Tutto questo commosse la gente e fu allora, nel 1969, che si seppe del massacro di My Lai del 1968: la notizia giunse con un anno di ritardo perché la stampa è sempre lenta nel riportare fatti del genere. Il popolo nordamericano vide fotografie orribili di soldati nordamericani che assassinavano centinaia e centinaia di donne e bambini vietnamiti e questo, insieme alle ingenti perdite di soldati americani e al crescente convincimento che ciò che il governo stava facendo in Vietnam era disumano e ingiusto, contribuì alla crescita del movimento contro la guerra. Il popolo americano cominciava a sapere qualcosa di più anche sulle ragioni della guerra, capì che il governo degli Stati Uniti stava mentendo, esattamente come fa ora con l’Iraq.
Un esempio è l’incidente che doveva provocare la guerra nell’estate del 1964, il cosiddetto incidente del golfo di Tonkin; in quel frangente il governo americano disse: “il Vietnam del Nord ha aperto il fuoco contro gli incrociatori nordamericani, bisogna entrare in guerra” e via dicendo. Bene, ci rendemmo conto che era una bugia e se ne sentirono di peggiori, come quella, veramente tipica, che diceva “vengono bombardati solo obiettivi militari”. Allora fu la coscienza sempre maggiore del popolo americano a contribuire al movimento contro la guerra, i cui leader misero in circolazione giornali alternativi, organizzarono adunate e conferenze, cercarono insomma di informare il popolo americano sulla guerra. Ma il contributo più grande fu la realtà dei fatti che accadevano in Vietnam, di cui il popolo americano cominciava ad essere informato.
Sempre a proposito del Vietnam, mi piacerebbe sapere qualcosa sul ruolo del Pentagono. Il mio amico Weinglass mi ha detto che Lei è stato uno dei testimoni del processo
Sì, lo ammetto, sono stato un testimone. Il ruolo del Pentagono nella guerra del Vietnam è forse uno degli episodi più interessanti dell’intera storia degli Stati Uniti, perché fu un evento straordinario che coinvolse un’alta carica nel governo che, facendo retromarcia all’improvviso, rivelò tutti i segreti del governo: mi riferisco a Daniel Ellsberg e Tony Russo. Entrambi lavoravano per la RAND Corporation, un gruppo di cervelloni composto da intellettuali, pagati dal Governo, in possesso di informazioni segrete. Anthony Russo, che lavorava con Daniel Ellsberg nella RAND Corporation, aveva il compito di interrogare i prigionieri di guerra. Durante gli interrogatori apprese dai Vietcong qualcosa di molto importante che cambiò le sue idee rispetto alla guerra: si rese conto che queste persone, che avevano combattuto nel Fronte della Liberazione Nazionale del Vietnam, sapevano per cosa combattevano e capivano le ragioni della guerra, cosa che non succedeva agli ignari soldati dell’esercito del Vietnam del Sud, al soldo degli Stati Uniti.
Questo gli fece cambiare idea: Daniel Ellsberg, che si era laureato a Harvard e aveva lavorato nel Dipartimento di Stato, con la RAND Corporation e col Dipartimento della Difesa, era stato un marine in Vietnam e lì, sconvolto dai misfatti compiuti dagli Stati Uniti, decise che la guerra era ingiusta. Così, quando rientrò negli Stati Uniti e la RAND Corporation gli commissionò un lavoro per il Dipartimento della Difesa, che consisteva nel mettere insieme la storia della guerra del Vietnam, ossia la storia segreta basata su documenti governativi, egli accettò; e quando lesse i documenti si convinse più che mai che gli Stati Uniti stessero comettendo una serie di azioni criminali in Vietnam. Lesse cose come “Il governo del Vietnam del Sud non è un governo indipendente, è una creatura degli Stati Uniti”. Gli Stati Uniti dicevano di bombardare solo obiettivi militari ma Ellsberg scovò prove inconfutabili della decisione degli Stati Uniti di voler distruggere il morale della popolazione civile. Questa esperienza, dunque, lo spinse alla decisione di prendere quei documenti segreti, settemila pagine, per fotocopiarli e distribuirli alla popolazione. Lui e il suo amico, Anthony Russo, fecero questa cosa in segreto.
E quale fu il suo ruolo in quel momento?
Io dovevo guadagnarmi l’amicizia di Daniel Ellsberg, che nel frattempo aveva lasciato la RAND Corporation, e dunque il Governo, e aveva iniziato a parlare alle riunioni contro la guerra. Fu a una di queste che lo conobbi, diventammo amici. Allora viveva a Cambridge, nella zona di Boston dove vivevo anche io. Un giorno io e mia moglie andammo a trovarli (anche le nostre mogli erano diventate amiche) e lui mi disse: “Devo dirti una cosa importante, ho alcuni documenti, non lo sa nessuno, vuoi dargli un’occhiata?”.
Mi diede un mucchio di quei documenti e io li lessi. Fu arrestato con l’accusa di spionaggio, per aver violato l’atto che impedisce di diffondere informazioni o documenti segreti che possano mettere in pericolo la sicurezza nazionale. Arrestarono anche Anthony Russo, lo condannarono a centotrenta anni di reclusione. Sembra una follia, centotrenta anni, tredici capi d’imputazione da dieci anni ciascuno. Lo portarono in giudizio a Los Angeles, io fui chiamato in qualità di testimone della difesa per aver letto i documenti del Pentagono e dovevo spiegare alla giuria il loro contenuto: parlai per circa cinque ore raccontando la guerra del Vietnam. Come quasi tutti gli americani di quel periodo, sapevano ben poco della guerra e io andavo raccontando attingendo a piene mani da quei documenti; il mio compito era spiegargli perché quei documenti, pur non essendo controproducenti per gli Stati Uniti e per gli americani, erano tuttavia vergognosi per il Governo, che non a caso li aveva mantenuti segreti.
Parliamo dell’11 settembre. Cosa è successo dopo? Cosa è cambiato negli Stati Uniti?
Come tutti sanno l’11 Settembre è stato un evento catastrofico senza precedenti nella storia statunitense, è stato uno shock per il popolo americano ed è chiaro che i responsabili sono stati alcuni terroristi. Bush era appena stato eletto presidente, tutti si chiedevano come avrebbe reagito e lui risponde dichiarando guerra al terrorismo. Ma come si può entrare in guerra col terrorismo? Non è mica un paese! Non si può dire: “dichiarerò guerra a questo paese, lo bombarderò e i terroristi saranno sconfitti”. I terroristi sono dappertutto, lo stesso governo degli Stati Uniti lo ha dichiarato indicando trenta, quaranta paesi in tutto il mondo.
Ne hanno menzionati più di sessanta.
Sì, il numero cambia continuamente, ma il fatto è che il terrorismo non è un fenomeno che si può combattere con una guerra. Questo non era chiaro al popolo o alla stampa americani, che stavano accettando questa idea della guerra contro il terrorismo; ma molti di noi capivano che si trattava solo una scusa, un trucco per permettere agli Stati Uniti di fare qualcosa che era nei loro progetti già molto prima dell’11 settembre: l’espansione della propria influenza in Medio Oriente. Così la prima cosa che Bush fece fu bombardare l’Afghanistan. Morirono migliaia di persone, migliaia di cittadini, mentre altre migliaia dovettero abbandonare le proprie case. Bush disse che stava dando la caccia a Osama Bin Laden, il cervello del terrorismo; non l’ha mai trovato, ma nel frattempo è morta tutta questa gente. Questa è la guerra al terrorismo, una guerra assurda perché, a ben guardare, non lo si può sconfiggere bombardando un paese piuttosto che un altro; l’unico modo di opporsi al terrorismo è domandarsi: quali sono le sue cause, le sue radici? Cosa motiva i terroristi? Dopotutto questa non è l’unica manifestazione terroristica della storia. In Irlanda c’era l’IRA, il governo britannico rispose ai suoi atti terroristici nella stessa maniera di Bush, con la forza; ma l’IRA non si fermò. Alla fine il governo britannico fu costretto a riconoscere che c’è qualcosa alla base di quel terrorismo, ossia l’occupazione dell’Irlanda da parte degli inglesi che per l’IRA era un affronto insostenibile.
Prendiamo la situazione in Israele: terrorismo, bombe suicide e via dicendo. Il governo Sharon risponde con la forza imitando Bush. Qual è il risultato? Le bombe suicide non solo continuano a susseguirsi ma, al contrario, aumentano di giorno in giorno. Se Israele volesse fermare il terrorismo dovrebbe eliminarne la causa, ossia l’occupazione dei territori palestinesi. Solo così potrà mettere fine al terrorismo.
Non è difficile capire quale sia per gli Stati Uniti la questione importante, che è la stessa che motiva i terroristi: è la loro politica in Medio Oriente, l’invio degli eserciti di occupazione, l’appoggio a Israele, le sanzioni in Iraq. Questi sono affronti belli e buoni e se è vero che gli Stati Uniti sono preoccupati per il terrorismo, devono fare qualcosa di concreto in merito; ma non hanno fatto mai nulla altrimenti avrebbero seriamente rivistola loro politica estera, si sarebbero comportati di conseguenza, avrebbero ritirato le loro truppe dal Medio Oriente e messo fine al sostegno a Israele. Ma non vogliono fare nulla di tutto ciò e così hanno creato un diversivo, che è la guerra contro il terrorismo.
Lei stava parlando della politica estera dopo l’11 settembre. Cos’ha significato questo per la società americana? Mi riferisco al Patriot Act che ha soppresso le conquiste del movimento civile. C’è stata qualche ripercussione negli Stati Uniti a causa dell’11 settembre?
Naturalmente. Quel che è successo dopo l’11 settembre accade ogni volta che c’è una crisi e gli Stati Uniti entrano in guerra. Il Governo dice al popolo che c’è una crisi in atto, che è un momento particolare in cui non è possibile garantire le libertà, compresa quella di espressione; dice che la Costituzione deve essere accantonata insieme alla Dichiarazione dei Diritti Fondamentali perché c’è uno stato di emergenza. Questo succede sempre, ogni volta che c’è un’emergenza il Governo si muove per sopprimere la libertà d’espressione.
Durante la Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti incarcerarono un migliaio di dissidenti, lo stesso succede adesso dopo l’11 settembre, con la guerra, con questa crisi esaltata e ingigantita che è quasi inconcepibile perché il terrorismo è diffuso in tutto il mondo. Il governo arresta singoli individui negando loro i diritti fondamentali: la Costituzione non permette l’incarcerazione e il sequestro di persone senza che non si sappia più nulla di loro: si suppone che abbiano un avvocato, un’imputazione a carico con la relativa notifica, un processo, un’udienza. E invece no, arrestano migliaia di persone senza garantire nulla di tutto questo. Il Congresso ha approvato il cosiddetto Patriot Act. È interessante come alle leggi diano sempre nomi ipocriti, il Patriot Act, la legge “patriottica”. Col Patriot Act l’FBI può agire quasi incontrastato: interferisce nella vita privata della gente, riesaminai precedenti delle persone, va nelle biblioteche a informarsi sui prestiti di libri riguardanti il Medio Oriente. Proprio così, uomini dell’FBI hanno visitato alcune biblioteche chiedendo i nomi di chi ha preso in prestito libri sull’Islam. Cosa significa questo? Forse che chi è interessato all’Islam è un potenziale terrorista? È assurdo eppure le cose stanno così, e le persone che negli Stati Uniti non hanno la cittadinanza sono in uno stato di allerta e paura perché, non godendo degli stessi diritti dei cittadini americani, sono soggetti a qualsiasi tipo di repressione: ci sono milioni di persone che vivono negli Stati Uniti senza cittadinanza e che possono essere espulsi con uno schiocco di dita del Procuratore Generale. Per forza hanno paura.
Prima stavamo parlando del periodo del Vietnam. Ci sono somiglianze e differenze con l’Iraq? E come le valuta?
Be’, ci sono differenze ovvie. Nel caso del Vietnam, gli Stati Uniti ebbero a che fare non solo con un movimento ribelle organizzato nel sud ma anche con un governo reale nel nord che appoggiava i ribelli del sud. In Iraq gli Stati Uniti hanno a che fare con qualcosa che somiglia ai ribelli del Vietnam del sud, ai guerriglieri della resistenza. Tutto in Vietnam, dalle perdite di soldati ai bombardamenti alle lotte, avvenne su scala maggiore rispetto all’Iraq: in Iraq finora sono morti circa 1.000 soldati, in Vietnam ne morirono 50.000.
Ci sono anche similitudini importanti, una fondamentale è che in Vietnam gli Stati Uniti attaccarono un paese innocuo che non rappresentava una minaccia, esattamente come l’Iraq. Abbiamo dunque questo paese enorme, gli Stati Uniti, con 280 milioni di abitanti che invia un esercito al di là dell’oceano, in Iraq, paese con 25 milioni di abitanti, per bombardarlo e invaderlo senza che esso rappresenti una minaccia per gli Stati Uniti o per qualche altro paese. Questa è la similitudine fondamentale fra le due situazioni ma ce ne sono anche altre, per esempio che in entrambi i casi al popolo americano sono state raccontate gravi bugie. Durante il Vietnam ci volle del tempo affinché il popolo americano si rendesse conto delle menzogne del Governo e capisse che la guerra era ingiusta; per la situazione irachena invece quel lasso di tempo è stato brevissimo, è successo tutto più rapidamente. Gli Stati Uniti sono entrati in guerra contro l’Iraq solo un anno fa ma il popolo americano sa già che la storiella delle armi di distruzione di massa è una farsa, ed è per questo che il movimento contro la guerra negli Stati Uniti è cresciuto più rapidamente rispetto al Vietnam.
Più rapidamente ma non con le stesse potenzialità.
Non così grandi né tanto estese.
Nonostante tutto?
Nonostante tutto. È importante capire perché gli americani siano stati lenti a capire quello che sta succedendo in Iraq e perché molti di loro credono ancora che le armi di distruzione di massa siano state trovate sul serio. Non c’è niente di più falso eppure ci credono. Il motivo è che i mezzi di comunicazione negli Stati Uniti sono controllati molto più ora che durante la guerra del Vietnam. I canali televisivi e i quotidiani sono concentrati, adesso più che mai, nelle mani di alcune potenti società… Come apprendono le notizie gli americani? Tramite la televisione. C’è stata di recente un’inchiesta nella quale si chiedeva agli americani quale canale televisivo vedessero e cosa pensassero di questo o quello: ebbene è risultato che la maggior parte delle persone intervistate vede Fox News, che è il canale della destra e quello che registra i maggiori ascolti; e di quelli che vedono Fox Television News, l’80% crede ancora che siano state trovate armi di distruzione di massa in Iraq. Ecco il potere che hanno i mezzi di comunicazione contro il quale dovremmo combattere noi e il movimento contro la guerra.
Abbiamo parlato del Vietnam e dell’Iraq. L’attività militare degli Stati Uniti è stata condotta in nome della democrazia e della libertà. Per quale motivo?
Come si può giustificare davanti al popolo americano l’invio di truppe a 8000 chilometri dal proprio paese? Come si può giustificare davanti al popolo americano l’invasione di una piccola isola? Bisogna creare dei consensi… Leggendo 1984 di George Orwell si vede come, per creare uno stato totalitario, si usino parole e frasi che offuscano la mente. Così il Governo dice che stiamo combattendo per la libertà, per la democrazia, e alle guerre dà anche un nome. Gli americani credono nella libertà e nella democrazia… ma che dico? Tutti crediamo nella libertà e nella democrazia! E agli americani dicono che si sta combattendo per questo.
Qui, a mio parere, c’è qualcosa in più che credo sia importante menzionare: il ricordo della Seconda Guerra Mondiale, che negli Stati Uniti è ancora molto forte perché è la guerra accettata come giusta e lo fu realmente, perché combattuta contro il fascismo in favore della libertà e della giustizia. Ma la Seconda Guerra Mondiale non fu solo e soltanto una guerra per la democrazia. Coloro che combattevano contro il fascismo, gli inglesi, i francesi, gli americani e i russi, erano altrettanto interessati alla democrazia e alla libertà? No di certo, avevano altri interessi che però in quel momento coincidevano con quelli della gente che voleva liberarsi del fascismo. La Seconda Guerra Mondiale ha ancora una potente influenza negli Stati Uniti, la chiamano la “guerra buona”, sicché il governo e la stampa la usano come termine di paragone. Dicono “con la Seconda Guerra Mondiale combattemmo contro Hitler”, Saddam Hussein è Hitler, un altro Hitler; allora dicevano “dobbiamo lottare per la democrazia” e così fanno anche ora. E usano questi paragoni e queste analogie appropriandosi indebitamente di elementi morali della Seconda Guerra Mondiale e appioppandoli a tutte le guerre ingiuste compiute in seguito dagli Stati Uniti.
E Cuba? La politica statunitense, sin dal principio, voleva attuare un cambiamento di regime a Cuba ma ora se ne sta parlando apertamente
Sì. Be’, hanno sempre parlato di un cambiamento di regime ed è interessante perché gli americani non imparano nulla dalla storia che s’insegna nelle loro scuole. Ci sono diversi capitoli, nei libri di storia americana, sui cambiamenti di regime ma cosa succede quando gli Stati Uniti sono coinvolti in uno di essi? Torniamo al 1898, alla guerra contro la Spagna. Quello fu un cambiamento di regime con cui gli Stati Uniti liquidarono la Spagna ma a Cuba non giunse la libertà ma il potere americano.
Certo, nella storia recente gli Stati Uniti hanno cercato di cambiare i regimi di tutto il mondo, compresi quelli democratici eletti in Cile e in Guatemala, e qual è il risultato? Dittatura e morte, ma il popolo americano non sa niente di tutto questo. Come dice Lei, gli Stati Uniti hanno sempre voluto cambiare il regime di Cuba ma cosa c’è dietro? Libertà e democrazia? No di certo, dietro c’è solo la volontà di insediare dei governi subordinati ai loro interessi. Durante la Guerra Fredda dicevano di voler rovesciare solo governi comunisti ma in Cile e in Guatemala non c’erano governi comunisti: gli Stati Uniti vogliono rovesciare tutti quei governi che non cooperano con loro, quindi il loro problema con Cuba non riguarda la forma di governo (marxista, comunista o socialista) ma il fatto che Cuba insiste nel voler essere indipendente dagli Stati Uniti, nel non voler essere sottomessa, questo è il vero problema. E il governo statunitense non dice agli americani ciò che la rivoluzione cubana ha significato per i cubani, salute, educazione, cultura; non dice nulla di tutto questo e si preoccupa solo di creare l’immagine di un paese, Cuba, che ha un governo dittatoriale che deve essere rovesciato. E ora sono più aggressivi di prima perché vogliono accontentare i cubani in Florida.
Però prima, quando i cubani americani della Florida non votavano come nelle lezioni del ’59, il governo statunitense voleva già cambiare il regime di Cuba…
Sicuramente non è l’unica ragione, ma è quella che è stata fornita da quando cominciarono a votare in Florida.
Lei sa che in territorio statunitense, specie in Florida, sono state registrate attività terroristiche contro Cuba sin dal principio e ora Bush va dicendo che chi copre un terrorista è anche lui un terrorista?
Sì, questa è la scusa che gli Stati Uniti usano per attaccare qualsiasi governo: dire che coprono i terroristi. Allora bisognerebbe attaccare anche gli Stati Uniti, che non solo hanno ospitato dei terroristi ma hanno partecipato ad atti terroristici. Questo se lo dimenticano sempre quando si parla di terrorismo. Come dice Lei, hanno partecipato ad atti di terrorismo segreto contro Cuba, contro il Nicaragua. Durante la presidenza di Reagan ne è stato organizzato uno segreto in Libano, dove la CIA allestì un’autobomba per farla esplodere in una moschea che uccise 80 persone. Ma c’è da dire altro su questo: ci sono atti di terrorismo compiuti da individui e gruppi che diventano ancora più fanatici in ragione delle proprie azioni, però i governi che compiono atti terroristici lo fanno su scala più grande perché hanno più risorse e più potere; sono atti che causano molte più vittime di quelli individuali.
Bene, abbiamo parlato di storia, di politica. Perché non parliamo un po’ della Sua attività di scrittore di opere teatrali? Marx a Soho (1)? Cosa ne dice?
Quando l’Unione Sovietica cadde nel ’90-’91, negli Stati Uniti si disse che il socialismo era morto e che il marxismo era fallito. Io non ci ho creduto innanzitutto perché ritenevo che l’Unione Sovietica non rappresentasse il vero socialismo.
L’idea del socialismo è molto importante per me, un’idea che doveva rimanere viva, così ho pensato a come metterla in scena. Avevo scritto alcune opere teatrali prima, e mi domandavo come poter mettere in scena una simile idea. Così ho deciso di riesumare Marx per farlo parlare. Vive a Soho, a Londra ma la gente che lo fa tornare, chiunque essa sia, un comitato per esempio, commette un errore e invece di mandarlo a Soho di Londra, lo manda a Soho di New York. È un monologo in cui Karl Marx appare dicendo: “Sono qui per spiegarvi il marxismo e perché l’Unione Sovietica non era veramente marxista, sono qui per dire che le mie idee sul capitalismo sono tuttora valide; qui a New York vedo gente che vive per strada, vedo come le compagnie controllano il Governo, vedo come la gente è totalmente controllata dalla televisione e dalla propaganda governativa, vedo come, nonostante tutto, sussistano ancora differenze di classe”. Sì, le idee marxiste sono tuttora vive e non sono crollate con l’Unione Sovietica; l’idea fondamentale di Marx, l’equa distribuzione delle ricchezze mondiali, è ancora valida e il socialismo non significa dittatura ma libertà, libertà d’espressione, mentre il capitalismo è assolutamente disastroso per la maggior parte della gente e per la società e dev’essere rimpiazzato da una società socialista che sia veramente democratica.
Bene, è stato un grande onore e un gran piacere parlare con Lei. Grazie per i suoi pensieri, le sue risposte ma soprattutto: grazie di essere qui.
Grazie a Lei, è un piacere per me essere a Cuba.
Cuba, 15 luglio 2004
Note:
1. Howard Zinn, Marx a Soho. Un monologo sulla storia, Editori Riuniti, Roma, 2001.
Da: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=7998
Traduzione di Andrea Strallo ([email protected]) per Nuovi Mondi Media
Fonte:www.nuovimondimedia.it
10.12.04